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nel regno dei Beati, «< essendo tra i dotti molto dubbia la sua salute », che molte cose dette da Beatrice non sono con la vera filosofia, che nel libro della Monarchia si «< pretende» mostrare come tutti debbano nel potere temporale riverire e riconoscere l'Imperatore. Nel canto III dell'Inferno, non può ammettere che Celestino V abbia fatto « per viltate il gran rifiuto»; perciò, dopo aver notato che Dante errò, aggiunge: « non per viltà, ma per umiltà». Dovrebbe quindi quel Papa aver degna sede nell'oltretomba. A proposito poi dei versi 92-93 del canto VI del Paradiso: .... con Tito a far vendetta corse

Della vendetta del peccato antico,

il Pastorini si mette addirittura a polemizzare con Dante.

Dante, più innanzi, dice che la morte di Cristo fu giusta quanto all'Umanità assunta, perchè l'umana natura aveva peccato, ma ingiustissima e ingiuriosa quanto alla persona di Cristo che era innocentissima; e perciò afferma essere stata giustissima la vendetta di Tito. Ma questo «o non è vero », aggiunge il nostro gesuita, «o bisogna spiegarlo, perchè quella natura umana singolare che fu assunta dal Divin Verbo, era altresì innocentissima, onde bisogna dire che la morte di Cristo in sodisfazione dei nostri peccati non fu in altro modo giusta, se non in quanto (come nostro mallevadore) si addossò il nostro debito dei nostri peccati »>.

L'idea di Dante che la morte di Cristo era giusta in quanto egli era uomo, sacrilega in quanto Dio, è un'arguzia scolastica che dimentica l'unità della persona. Ben nota lo Scartazzini che non morirono su la croce un uomo ed un Dio, ma morì una sola persona, l'Uomo-Dio.

Inoltre l'Alighieri del Pastorini, come quello della maggior parte dei Padri Gesuiti, deve ricredersi di quanto ha detto, nel poema immortale, di irriverente verso la Chiesa e il Santo Padre, e convincersi che, se fosse vissuto in tempi non agitati da discordie guelfe e ghibelline, avrebbe propugnato l'unione del potere temporale e spirituale, in quanto che

l'uno e l'altro insieme

Per viva forza ben convien che vada.

Infine, il Pastorini afferma che della Compagnia di Gesù potrebbe dirsi ciò che Dante fa dire a Virgilio della fortuna nel canto VII dell'Inferno:

Quest'è colei, ch'è tanto posta in croce
Pur da color che le dovrian dar lode,
Dandole biasmo a torto e mala voce.

Il Pastorini trascrisse buona parte della Divina Commedia preponendo ad ogni canto l'argomento in prosa: accanto al testo vergò speciali osservazioni sulle bellezze che di mano in mano gli occorrevano, e notizie storiche dei personaggi nominati. E anche in cotesto lavoro, mosse strane critiche a Dante. Nel canto XV dell'Inferno, a proposito dei versi:

E chinando la mano alla sua faccia,

Risposi: «Siete voi qui, ser Brunetto?» (v. 29-30):

<< Dante si copre la faccia di vergogna vedendo il suo maestro sì cotto in cotal luogo e maculato e punito di vizio così vergognoso. E sporgendo la mano verso il viso di Ser Brunetto, il quale essendo nell'arenaio stava più basso dell'argine dov'era Dante: siete voi qui, gli dice, tra i sodomiti? quasi dica, io vi credea tra i falsari; perchè di questo delitto foste in terra convinto nell'esercizio di notaio». «< Non so capire », aggiunge il Pastorini, <«< questa bella gratitudine di Dante verso il maestro di riporlo tra i dannati per vizio cotanto infame e farne eterna la memoria nel suo poema » ! 16)

Nel canto XX, a proposito dei versi:

e così il canta

L'alta mia tragedia in alcun loco (v. 112-113),

nota il Pastorini: « Vorrei che dicessero gli interpreti perchè Virgilio qui chiama tragedia la sua Eneide, la quale veramente è poema epico ed eroico», e gli interpreti gli direbbero che il Medio Evo, non avendo più chiara nozione delle forme drammatiche autentiche, chiamò commedia e tragedia i poemi narrativi a seconda del fine lieto o triste. Tragedia qui dunque significa poema di stile grandioso, con allusione a quel verso delle Buc.: «Sola Sophocleo tua carmina digna cothurno » Dante stesso nel De vulgari eloquentia, II, 4, scrive: per tragoediam superiorem stilum induimus.

Così nel canto XXXIV, a proposito dei versi:

Vexilla regis prodeunt inferni

Verso di noi (v. 1-2):

<< Non par conveniente », nota il Pastorini, «< che l'inno di Santa Chiesa in lode della Croce si metta in bocca di Virgilio parlante dell'ali di Lucifero ». I vessilli del Re dell'Inferno sono le sei ali di Lucifero, le quali sventolando appariscono come grandi bandiere. A dir il vero (extra-teologicamente parlando) il vexilla si adatta ben più all'ali di Lucifero che ai pezzetti della croce di Gesù.

Altri commentatori gesuiti, a proposito di questo principio dell'inno famoso di Venanzio Fortunato, aggiungono: «Brutta profanità e abuso di parole così sacre ».

Nel canto XVI dell'Inferno, a proposito del verso 85: «< Fa che di noi alla gente favelle», che richiama il verso 89 del VI: «< Pregoti che alla mente altrui mi rechi», e i versi 52-54 del XIII: << Ma dille chi tu fosti, sì che, in vece - D'alcuna ammenda, tua fama rinfreschi — Nel mondo su, dove tornar gli lece,» nei quali si manifesta il desiderio, comune a quasi tutti i dannati, di essere ricordati ai viventi, il Pastorini dice: «non credo che i dannati possano godere che di loro si parli nel mondo; e molto meno che si divulghi e si scriva il lor peccato e lor supplicio». Anche qui prende troppo (troppo teologicamente sul serio, intendo) il processo di Dante, che è morale e allegorico a fondo umano.

ANGELO REdaelli.

NOTE.

1) G. B. PASTORINI, Palermo, 1756, son. 34.

2) P. MONTANARO, Giambattista Pastorini, in Elogi di Liguri illustri, edit. da L. Grillo, vol. II, Genova, 1846, p. 334.

3) Ibidem, p. 349.

4) G. B. SPOTORNO, Storia letteraria della Liguria, t. V, Genova, Ponthenier, 1824,

P. 76.

5) Poesie, ed. cit., son. 42. Crediamo opportuno riferirlo qui interamente, sebbene sia notissimo e ripubblicato sino in libri scolastici :

Genova mia, se con asciutto ciglio

Lacero e guasto il tuo bel corpo io miro,
Non è poca pietà d'ingrato figlio;

Ma ribello mi sembra ogni sospiro.

La Maestà di tue rovine ammiro,

Trofei della costanza e del consiglio.

Ovunque i passi io volgo o il guardo giro,
Incontro il tuo valor nel tuo periglio.

Più val d'ogni vittoria un bel soffrire;

E contro ai fieri alta vendetta fai
Col vederti distrutta, e nol sentire:
Anzi, girar la Libertà mirai

E baciar lieta ogni ruina e dire:
Ruine sì, ma servitù non mai.

6) Così il MURATORI, nella Perfetta poesia (t. IV, Modena, 1706, p. 23).

7) Poesie, ed. cit., son. 72.

8) Ibidem, son. 60.

9) Ibidem, son. 34.

10) Ibidem, son. 76.

11) A. NERI, Lettere inedite di Ludovico Antonio Muratori ad Antonio Gatti, in Giorn. Ligustico, IX, 1882, p. 37, n. 1.

12) A. NERI, Due corrispondenti genovesi di Scipione Maffei, in Giorn. Ligustico, VII-VIII, 1881, p. 70.

13) E. BOUVY, Dante et Vico, Paris, 1922, p. 39 e segg.

14) Ved., in proposito, C. ZACCHETTI, La fama di Dante in Italia nel secolo XVII, Roma, Soc. ed. Dante Al., 1900.

15) Bellezze dantesche, di G. B. PASTORINI, della Compagnia di Gesù, Ms. della Biblioteca Universitaria di Genova, E, II, 26. Comprende la trascrizione e il commento di buona parte dei 34 canti dell'Inferno e di 32 del Paradiso. Manca il commento del Purgatorio.

16) La risposta mi par semplice e facile. Dal momento che quel viziaccio lo aveva (e la testimonianza di Dante, dice il Casini, è cosi franca ed aperta che la cosa non può esser dubbia), perchè metterlo altrove? A Dante parve che la gratitudine verso il maestro non dovesse impedirgli di esercitare il severo ufficio di giudice ch'ei s'era

assunto.

IV.

BERNARDO LAVIOSA.

A Bernardo Laviosa, squillante artefice di concinnate «< visioni », fabbro sonoro di gravi e ben misurati carmi, che in principio del secolo decimonono ad alcuni buongustai di Liguria parvero superare per vigoria dantesca quelli del Monti, 1) il tempo, «< che va dintorno con le force », ha dato nella storia delle lettere l'umile posto riserbato agli artisti che lasciarono prove ingegnose di buona volontà e di industre fatica, ma non ebbero il dono nativo di un'intima e schietta ispirazione.

Plaudivano allora i fedeli, udendo i versi solenni, con cui il letteratissimo somasco annunziava:

veggo Dante; 2)

si commovevano i ricercatori di terzine elette alla voce rotonda, con cui egli declamava:

Dante, mio buon Maestro e mio Poeta,

se io t'ami il sai....

Egli era persuaso d'aver veramente nell'anima qualche cosa di dantesco e non solo con particolar compiacimento indugiavasi a sospirare <«< il mio Dante » 3) e a conclamare:

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ma con tutta serietà e naturalezza, come usa tra padre e figliuolo, anche univa il goffo suo nome arcadico, Cratileo Asterionense, a quello del maestro:

... non è un desir vano o il vero eccede
quello che Dante e Cratileo predice. 5)

Se non che del laborioso suo danteggiare non resta che un'eco
Dante e la Liguria.

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