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piacenti amici trovavan ne' carmi del Laviosa così potenti come nella Divina Commedia? Quelle figure paludate, che vorrebbero esser la Giustizia Eterna, la Pietà, la Fede, l'Idolatria, l'Umiltà, l'Ubbidienza, ecc., e si muovon solenni di carme in carme, nulla hanno di dantesco, ma non sono che le tipiche immagini di parata, di cui i prefrugoniani e i frugoniani per tutto un secolo avevan riempito molte migliaia di volumi. 25) Non poche scene, che nei canti del Laviosa già parvero splendenti ipotiposi e perspicue figurazioni dantesche, 26) esaminate da vicino, subito rivelano che non sono affatto di ispirazione dantesca, ma inconsapevolmente derivan dall'arte affatturata di quel variopinto «< condottier delle celesti Muse », uscito dalle file somasche, che era stato Carlo Innocenzo Frugoni. 27)

Di più: dov'è l'evidenza forte e precisa, la quale secondo il giudizio del devotissimo apologeta Cotardo Solari, nei canti del Laviosa «< dà risalto » alle «< cose che [egli] dice », « presentandole nel tempo medesimo con molteplice illusione, a sensi diversi, e per la verità delle immagini, e per la nitidezza del dire, e per la forza e il suono stesso delle parole, talché si vedono movere, e pare che se ne oda lo strepito, e ci passino, dirò così, sotto la mano »?28) Ohimè, magnifico nostro senatore Cotardo, che amavate svisceratamente le umane lettere, che eravate geloso del buon nome di Liguria nella storia della poesia, che auspicavate un rinnovamento dell'arte del dire e che, per scongiurare l'orrenda iattura di un ritorno del secentismo, 29) raccomandavate caldamente ai giovani di seguir la « vera maniera dantesca» del Laviosa, perchè « il suo metodo è certamente il buon metodo », o dotto e ornatissimo panegirista del compianto vostro collega dell'Accademia di Genova, colui che a voi appariva un Dante rinnovato, per noi spregiudicati e scettici nepoti, anche come poeta, è ormai polvere ed ombra. «Il metodo» in poesia è già per se stesso negazione di liricità: e quella contaminazione di Dante, Varano e Frugoni, che a voi poteva sembrare sulle spalle del vostro cantor melanconico un ben trapunto paludamento moderno, ormai è una sgualcita e sfilacciata gualdrappa, che neppure i giocolieri della novissima nostra letteratura, rotti a tutte le audacie, vorrebbero per ischerzo....

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Eppure c'è ancora qualche cosa da dire su Bernardo Laviosa. Dopo che si è mostrato quanto sian falsi i suoi « berilli » danteschi e quanto di vano abbia il suo preziosismo accademico, rimane a spiegare per quali ragioni, per molti decenni, quei canti siano piaciuti «< come cose nuove », sì che vi fosse chi li «sapea a memoria » e più volte abbian avuto l'onore delle stampe, non certo per conto dell'autore, ma per zelo di amici e ammiratori. Il vero è che essi, pur essendo oggi esteticamente morti per la nostra anima, perchè furono opera più di volontà che di estro, in realtà, nella seconda metà del secolo XVIII e in principo del XIX, ebbero un vivo significato storico, e, nel tempo in cui l'autore li lesse e gli ammiratori li pubblicarono, 1) parvero, tra le vanità d'ogni parte galleggianti, un indice di serietà artistica e di onestà letteraria.

Come già la Visione d'Ezechiello e più tardi la Bassvilliana, essi, pur essendo nella maggior parte tecnicamente indipendenti dalla maniera del Monti, 32) sembrarono, a loro volta, un segno verace di rinnovamento poetico sulle vie indicate da Dante e dalla Bibbia. Per questo fatto l'opera del Laviosa, storicamente, è parte non ultima di quel serio moto spirituale, che, nel secolo decimottavo, cercò in Dante e nei libri sacri, quasi in contrapposizione alle frivolezze d'ogni ora, un più sostanzioso alimento intellettuale, e che, iniziatosi letterariamente, andò man mano allargandosi e intensificandosi nel campo del pensiero, fino a fare di Dante nel periodo del Rinascimento, un potente elemento morale, civile e politico nell'educazione del carattere nazionale. 38)

Il Laviosa, quantunque arcade, appartiene già a quelle schiere di volenterosi artefici, che intendono essere diversi dalle torme dei pastori, i quali avevano ridotto la poesia a un volgare denomi

nator comune:

Io non mi dolgo no, se altri felici

traggon da' boschi cento Ninfe al canto
avide di lor voci incantatrici.

Ma ingiusto è poi, che si dian essi il vanto
d'impor la legge altrui.... 24)

Storicamente meno significativo del Varano, perchè venuto dopo il ferrarese e, anche letterariamente, meno ricco, più monotono e meno facondo di lui, il quale pure non era stato un grande poeta, ma un eloquente e perito stilista di visioni; 35) esteticamente, di gran lunga meno importante del Monti, perchè non ebbe affatto la colorita sua immaginazione e la vivida e nativa sua disposizione a godere della poesia ovunque la trovasse e a ricrearla entro di sè anche quando la derivasse da altri autori, 36) il Laviosa fu a Genova e a Pisa, sotto un certo aspetto e sia pure in minor proporzione, quel che già il Varano era stato a Ferrara. Ciò spiega come a lui in Genova i frequentatori di Casa Lomellini riguardassero quasi a un simbolo, così che Celestino Massucco gli dedicò con particolari segni d'onore Alcune poesie inedite del Chiabrera 37) e a Pisa il Fabroni diede di lui l'alto elogio, che leggesi in un frammento di discorso dell'ultimo volume delle Vitae Italorum doctrina excellentium, ecc. 38)

Piacque anche in quel tempo come cosa originale l'aver il Laviosa innestato l'imitazione di Dante alla poesia notturna e sepolcrale, 39) così che questa parve assumere per lui un carattere più composto e più italiano, lungi dalle macabre fantasie dei travisatori del Young, che con orrida voluttà scoperchiavano tombe e sepolcri. A dir vero, anche la poesia sepolcrale sotto fogge dantesche non era in quel secolo cosa nuova. L'undecima visione del Varano, Della vanità della bellezza terrena per la morte di Amennira, precorre in Italia, indipendentemente dalle Notti del Young, la poesia sepolcrale, che più tardi ebbe tanta voga; e da molti segni deducesi che quel componimento del Varano ebbe speciale efficacia sul Laviosa, il quale conosceva le Visioni del Ferrarese non meno bene delle « meditazioni notturne » dell'inglese.

40)

Ma nel medesimo tempo è fuor di dubbio che il Laviosa, proprio cantando i sepolcri, trovò i pochi e spontanei accenti, nei quali rivelasi che egli pure, sotto le lustre dantesche e younghiane,

aveva un cuore:

Cadon gli amici miei, giungono a sera

l'un dopo l'altro; a poco a poco io resto
qual pianta inaridita alla bufera.

Doglia al cuore non v'è, che vaglia questo

crudo pensiero, ed io nel cuor l'ho fiso

così che in lui mi corco, e in lui mi desto. 41)

In questo riposto angolo della sontuosa sua opera maggiore,

1 canti melanconici, sta l'intima e viva voce della sua anima, di cui egli ha dato qualche timida e tenue nota. La lirica nasce nel suo cuore già elegiaca, perchè egli ama «aver d'intorno » le memorie dei padri, perchè gli è dolce « ragionar» con i trapassati << ne' [loro stessi pensieri ». Le amicizie, per lui, austero somasco, erano l'unico soave conforto della vita; e pur sopra esse, come su tutte le cose, vigilava

custode inesorabile la morte.

Perciò egli s'abbandona al dolore nell'elegia In morte di Luigi Sauli, la quale, pur non essendo poesia, ha almeno in alcuni versi un fievole accento umano:

Ei più non vive, e son pallide e chete

le dolci labbra, che mi fean sovente
custode amico delle idee segrete.

Io mi stanco in chiamarlo; ei più non sente.

dal duol vinto,

rotto l'amaro corso ai tristi accenti,

caddi sul petto dell'amico estinto.

Anche il fiore dell'amicizia è reciso dalla falce inesorata della morte come tutti i fiori, che fan bello il mondo: e non resta che cercare i sepolcri, per parlare coi morti, i quali ci dicano quel che più vale e ci siano «< utile scuola » nell' « aspro sentiero ». Tu stesso, o misero e dissipato, che ostenti di sorridere di scherno e che, per orrore della morte, vorresti fuggire le tombe e inebriarti di festa,

agiti co' piedi

per ogni luogo, ove a fuggir ti porti,

le ceneri de' Padri e non le vedi.

Che è in gran parte la terra, ella che in torti

globi di polve assedia ogni tuo passo,

che è mai se non che trite ossa de' morti?

Chiunque senta la tristezza della caducità umana monisce

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non può non avere il cuore con gli estinti: perciò i suoi Canti melanconici, che, a tutta prima, a chi veda soltanto l'imitazione dantesca, parrebbero avere un titolo non appropriato, in ultima analisi, sono da lui così intitolati, sia perchè inspirati al senso della caducità di tutte le cose e dedicati a chi non è più,

sia perchè esprimono la vera e propria vibrazione della sua intima spiritualità:

Ombre sacre de' Morti, ombre onorate,

maestre a noi di quel, che un dí saremo,
corsa qual vento la prescritta etate;

pria che giunga per me quel giorno estremo,
che spirto ignudo mi consegni al lido,
da cui varca il Nocchier del fatal remo;

pria che suoni per me l'ultimo grido,
pietoso offizio, che riserba il fato

alla voce non so di qual mio fido;

per voi, ombre onorate, a me sia dato
scender....

u' sta scritto silenzio in ogni lato.

Son i primi versi, posti in bocca a Spartaco, nel carme I sacrifizi pe' morti. Ma parla proprio Spartaco o il poeta?

Pria che suoni per me l'ultimo grido,
pietoso offizio, che riserba il fato

alla voce non so di qual mio fido....

Chi, in questo sighiozzo, non ode quasi un fuggevole preannunzio del preludio immortale, con cui s'apre il più bello di tutti i carmi sepolcrali?

Anche il Foscolo ebbe caro in giovinezza il poeta inglese delle meditazioni notturne e amò rievocarlo nella <«< campagna dei morti», piangente « sul fato di Narcisa ». 42) Ma un dono divino ebbe il Foscolo, che nessuno sforzo di volontà e nessun artificio dantesco o younghiano avrebbe potuto dare al Laviosa:

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Per esso il Foscolo si alzò con grande ala sopra tutte le esercitazioni e su tutti i rimessiticci della giovinezza, superò per potenza lirica lo stesso Young ed eclissò per sempre tutte « l'ombre pallide e smorte » dei vati notturni, che, come il Laviosa, senza profonda inspirazione, ora appoggiandosi a Dante, ora affatturando le meditazioni dell'inglese, sotto mesta luna avevano vanamente cercato come fonte di poesia l'ombre cupe dei cipressi e il trepido silenzio delle tombe. 43)

CARLO CALCaterra.

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