Slike stranica
PDF
ePub

quanto di meglio trovasse. E, se in cotesta parte, come altrove, c'è qualcosa di minuzioso, non vi mancano prove della sua ottima preparazione. Così, per citare un esempio, è assai ben condotto tutto il commento della visione del canto XXIX del Purgatorio, che può considerarsi il vero nodo del significato politico e anagogico del Poema.

Mirabile per lucidezza ci sembra l'introduzione al Paradiso, dove rimbecca con le seguenti parole chi afferma esser questa una cantica poco poetica: « Chi vive di naturale sentimento s'arresti (come fanno tutti) alla prima cantica; seguiti alla seconda chi scerne il buono dal reo, chi nel giusto ricerca il bello; ma della terza può rimanersi colui (se pur v'ha nel mondo) il cui spirito, avvinto alla terra, non sappia elevarsi alle sante consolazioni di una sapienza che vive più in alto e si nutre di fede e d'amore. Nel Paradiso l'animo posasi e fassi beato »>.

Qui l'esercizio del commentare lo ha reso anche più acuto e più sobrio, Al canto VI, v. 127, osserva bene a quel e dentro alla presente Margherita, e sentenzia che quell'e varrebbe ancora, alla latina.... « dovendosi scendere da grado di un Cesare a quello di un Ministro »; ai versi dal 140 del VI molto bene allude al sospetto che Dante, parlando di Romeo, parli di sè, citando a proposito quel passo del Convito « Chè nè altri contra a me avria fallato, nè io sofferto avrei ingiustamente la pena, dico, d'esiglio e di povertà; ai versi dal 124 del IV: lo veggo ben che giammai non si sazia, ecc., versi nei quali dice bene Gian Battista Niccolini che è compresa la Filosofia di molti libri, egli fa una giusta osservazione al Tommaseo, il quale si meraviglia che Dante dica tutte queste cose a Beatrice, che sa tutto: «Ma se il mortale dovesse a divina scienza dir ciò ch'ella ignora, potrebbe senz'altro star mutolo; al verso 61 dell'VIII quell'imborga lo disputa colla Crusca, col Lombardi e col Bianchi, e spiega, Si chiude, si cinge; al verso 25 del XIV: qual si lamenta perchè qui si muoia, per vivere colassù, evita lo sproposito del Fanfani, il quale vuole per col valore di per quanto, con tutto che, e simili; al verso 72 del XVI: Più è meglio una che le cinque spade, trova subito il riscontro di Caco ed Ercole, che forse gliene die' cento e non sentì le diece; al verso 140 del XIX,... quel di Rascia Che male ha visto il conio di Vinegia, difende molto opportunamente ha visto, « più antico», invece dell'aggiustó che altri senza ragione ha prescelto.

Insomma, venendo a conchiudere, egli si è davvero informato, nel suo commento, a quel concetto di cultura ed educazione nazionale, che era l'anima della scuola liberale moderata italiana.

Nel suo commento mi pare che egli abbia precorso quel che dirà poi il Carducci: « Tutto quello che è più eccelso e nobile e umano nella poesia delle genti è in Dante; egli canta le più alte cose della vita, i più alti pensieri degli uomini, i più alti segreti delle anime, e non dell'anima sua, e non di queste e di quelle anime, ma di tutte le anime; e le canta così profondamente, che, quando dal suo mistico prodigioso canto l'aura sacerdotale è svanita, la significazione dottrinale è venuta meno, rimane meravigliosa, insuperabile al mondo la poesia civile e umana ».

Per comprendere l'altezza a cui si leva l'Alizeri nel suo commento, basta confrontare che miserevoli cose facesse per Dante il collega suo professor Giuseppe Gazzino. Tutto ciò che dice l'Alizeri, è un documento d'amore; e la chiusa del Paradiso riflette bene l'anima dell'umile ma valente insegnante, che si preparò nel silenzio del suo ministero a opera veramente degna e meritoria.

NOTE.

SILVIO BELLotti.

1) Unione tipografica editrice, 1889.

2) Per notizie più minute su Federigo Alizeri, vedere: Biografie manoscritte del March. Marcello Staglieno, conservate alla Beriana; Giornale degli studiosi di Lettere, Scienze, Arti e Mestieri, cominciato a pubblicare a Genova nel 1869, e dedicato alla Società ligure di Storia Patria; L'Elleboro, periodico cominciato a pubblicare in Genova l'anno stesso della morte dell'Alizeri, periodico che ebbe a collaboratori l'Alizeri stesso, che ne stese il programma, il prof. Canepa, Domenico Pelati ed altri (Genova, tipogr. della Gioventù); Necrologio intorno al cav. avv. Prof. Federigo Alizeri per Domenico Pelati (Genova, tipogr. arcivescovile, 1882). (Il Pelati fu allievo affezionatissimo dell'Alizeri, era prófessore privato, coltissimo e modestissimo; ma scrisse poco o nulla. Vedi elogi in morte di lui nel Cittadino del 1.° luglio 1893 e nell'Amico delle Famiglie, stesso anno): Necrologio di Tommaso Belgrano, Caffaro, 1882: L'Espero, giornale settimanale di Lettere, Scienze e Belle Arti, Teatri e varietà (1841) diretto da Federigo Alizeri. Il periodico aveva per epigrafe:

[blocks in formation]
[ocr errors]

epigrafe che già accenna all'amore per Dante, manifestato poi più largamente dall'Alizeri. Vedi ancora: DOMENICO PELATI Versione dal latino in italiano dell'opuscolo di Jacopo Bracelli sui chiari genovesi. Prefazione. Elogio nel Cittadino del

l'8 ottobre 1882.

3) Fu recitata a scopo di beneficenza nel maggior teatro di Genova, davanti a folta corona plaudente di pubblico, mi scrive Giacomo Tito d'Aste, dai Filodrammatici di Francesco Domenico Botto, e vi sostennero una parte il Botto, giornalista celebre in quel tempo, ucciso poi in duello a Torino da Tommaso Salvini, Elena d'Aste, sorella di Giacomo, e Giacomo stesso, buon tragediografo e commediografo come il padre Ippolito.

4) È d'argomento biblico, e vi è trattata da maestro la storia di un amore ardente e infelice. Vedi Genesi, XXX, 23 e XXXIV, 2.

5) Son nove grossi volumi in tutto, che dovevano essere continuazione dell'opera cominciata con quattro vite di artisti dal March. Marcello Durazzo. Il primo volume è dedicato agli Onorevoli accademici della Accademia. Per giudizi, vedi Belgrano nel Giornale Ligustico, anno III, p. 86 e segg.

VII.

STEFANO GROSSO.

Alla conoscenza della vita e dell'attività di Stefano Grosso valido contributo hanno portato gli studi del Pellini 1), del Fiammazzo 2), e, sopratutto, del Bustico 3), che seppero non solo raccogliere dati, precisare circostanze e particolari, ma rilevare quanta serenità egli abbia portato nella scuola e quanto acume e buon senso negli studi letterarî.

Nato in Albisola Marina, nel 1824, dopo aver compiuto gli studi di grammatica ed umanità sotto la guida dei Lazzaristi, e quelli teologici, nella congregazione dei padri Somaschi a Genova, si laureò in lettere nel maggio del 1850.

Insegnò, successivamente, grammatica, umanità e retorica in Casalmonferrato, Valenza di Po, Novi Ligure, Rapallo e Genova. Da Novara, ch'egli chiamò sua seconda patria, ove insegnò per tre lustri in quel liceo ginnasio, si recò il 15 novembre del 1876 a Milano, professore nel liceo Parini, dal 1876 al 1885.

La sua preparazione letteraria fu rigidamente umanistica: una larga conoscenza empirica, cioè, delle lingue classiche, rianimata da molto buon gusto e da tranquillo buon senso. La nuova scuola filologica, che andava allora risorgendo, con rigida serietà di propositi e con matura preparazione, era, per lui « una razza d'uomini che, per salire al piano più alto di una casa, gettano a terra la casa stessa, ne scavano le fondamenta, e ridotto in frantumi tutto l'edifizio, sottopongono ad analisi chimica la calce e i mattoni polverizzati. E costoro non son matti?» Così scriveva al Fanfani nel Nuovo Istitutore di Salerno [1874] ); e, qualche anno prima, aveva affermato che i nuovi filologi «< aiutandosi or di un corroso vocabolo di una vecchia lapide, or di una frase di controversa

lezione tolta da un inciso di un periodo di un antico scrittore, or abusando le etimologie e quella che chiamano linguistica e filologia comparata, a guisa di viaggiatore che s'inoltra con piccolo lumicino nella notte più buia fra sentieri tortuosi, dirupati e deserti, si inoltrano per luoghi e per tempi i più remoti e fatti bruni ad ogni conoscenza: e tornano a noi vittoriosi, narrandone la storia ». 5) E poichè credeva che radice della mala pianta fosse la Germania, si sforzò con calorosa baldanza, di riaffermare, in tutti i suoi scritti, le tradizioni umanistiche del nostro Paese. Ah quel Peyron! Non solo aveva tradotto, intollerabilmente e sconciamente Tucidide, ma vi aveva anche accodato un << pascolo nauseoso» di note, in cui schernisce i traduttori italiani. « Mi spiace continua il Grosso 6) che nelle note vada indicando con una diligenza non necessaria e con una compiacenza maligna tutti i luoghi dove minimamente ha sbagliato il Boni fiorentino... Mi spiace che non si degni di mentovare Lorenzo Valla, che primo forse di tutti tradusse Tucidide, e che falsamente affermi che dal 1545 sino al 1789 nessuno in Italia si è dato pensiero di pubblicare o testo, o versione, o note, o comentarî, mentre in quel mezzo Monsignor della Casa tradusse molte delle concioni in latino e Benedetto Averani nelle sue lezioni di lettere greche e latine (che sono tre volumi in foglio) ne illustrò molti luoghi dottamente ed eloquentemente ».

[ocr errors]

Egli, dunque era, negli studi e nella preparazione, della vecchia scuola: ad un'ampia conoscenza delle lingue classiche, accoppiava una sicura padronanza delle letterature; ma, invece di approfondire lo studio delle leggi che regolano necessariamente lo sviluppo e le vicende delle parole, preferiva educare e famigliarizzare l'orecchio alla loro armonia; invece di ravvivare la sua cultura letteraria con una solida preparazione estetica, preferiva seguire i dettami di un sicuro buon senso. Anche nei suoi lavori non strettamente eruditi seguì questo indirizzo spirituale. Scrisse concioni, orazioni togate, in cui e nella scelta dell'argomento e nella struttura del periodo, si sente sempre viva e talvolta tirannica, la sua educazione umanistica. Tale la sua orazione Della gloria) letta in Valenza l'anno 1857, tale la Grandezza degli Italiani nelle lettere e nelle scienze, «panegirico» letto a Valenza nel 1847 ), e l'orazione che lesse a Novara nel 1871, per celebrare il centenario della Vittoria di Lepanto. ")

« PrethodnaNastavi »