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stiera che, dal rilievo guardato dal castello che deve il suo nome al leccio (l'erze nel dialetto locale, 28) stendesi sino al rilievo che deve il suo nome al trofeo d'Augusto. Il paragone appare così perspicuo, così appropriato, che noi siamo indotti a ritenere che esso sia stato suggerito da un'esperienza diretta, dall'esperienza personale del Poeta. Anche altre regioni italiane potevano offrire esempi di erte salite, di discese precipitose; ma nessuna poteva sotto questo riguardo superare la Liguria corsa in tutta la sua estensione da una strada, ben nota ai romei, la quale ora si avvicinava ora si allontanava dal mare, a seconda delle particolari condizioni del rilievo, avvicendando a pochi tratti pianeggianti ripide erte, e ripide discese, tagliate, alla loro volta, da burroni che l'erosione ha inciso profondamente, e da fratte che la frequenza delle frane o « ruine » non esclusive all'Appennino, (che pure «< ha in complesso l'aspetto di essere giunto all'età matura » 29)) ha, talora, tipicamente sconvolte. 30) Perchè la caratteristica prima, rispetto alla viabilità, del rilievo ligure si fissasse nella mente del Poeta il quale doveva tradurla in espressione artistica per l'eternità, non era necessario che il Poeta percorresse direttamente tutta la strada, ora costiera, ora subcostiera, dal confine della Lunigiana a quello della Provenza. Bastava, per ciò, che egli conoscesse per esperienza diretta qualche tratto della strada in questione e osservasse in altri tratti, particolarmente a Codimonte (Portofino), e nelle estreme propaggini delle Alpi Liguri e Marittime della costa ligure, il pendio precipite corso da qualche sentiero, mentre veleggiava lungo la costa dominata dai Genovesi.

Forse Dante ebbe chiara coscienza del limite sciroccale della Liguria osservando dal mare le alture scoscese a settentrione del colle di Barcola (a circa 100 metri sul mare; a nord della Púgliola e a circa mezz'ora di cammino da Lérici, verso settentrione) donde calava precipite la strada su Lérici, perchè allora egli potè avere la visione complessiva di tutto il rilievo dominato dalla vetta del Caprione («< la Rocchetta », alta 415 metri sul mare se si prende la denominazione « Caprione» nel senso più lato, come fa Ubaldo Mazzini): il rilievo che, nel 1185, Federico Barbarossa conferma in pieno possesso, colla baia e coi relativi diritti di pesca, a Pietro, vescovo di Luni (« monte de Caprione et montem Illicis cum portu et piscatione sua >>). 31)

Nel tempo in cui il Poeta deve aver visto il castello, il borgo di Lérici e tutta la circostante area montuosa, nella quale si possono ravvisare le caratteristiche di area terminale di dominio economico e politico, era ancora fresco il ricordo delle lun

ghe contese fra Genova e Pisa: contese caratterizzate da alterna vicenda di dominio, la quale trova il suo riflesso nell'iscrizione pisana incisa, fra le due torri, all'ingresso del borgo («< Scopa boca al Zenoese »), e nella leggenda genovese, in versi leonini, che fustiga l'inabilità dei Pisani a conservare il possesso prezioso («< Sic faciet flendo | qui me neglexit habendo »). Dal tempo in cui Genova, che, nell'alleanza con Lucca e con Firenze, ha cercato una base sicura nella sua lotta con Pisa, ha costretto alla resa (vendicando l'occupazione avvenuta dopo la rotta genovese del 1241 presso l'isola del Giglio) il presidio pisano (1256), al tempo in cui il Poeta compie il suo viaggio in Liguria - non provato inoppugnabilmente, come il suo soggiorno in Sarzana, dall'esistenza d'un documento, ma reso grandemente probabile da tutta una serie di elementi è passato appena mezzo secolo. Intanto il dominio di Genova sul castello di Lérici, chiesto nel 1174 «< in fortia et potestate » ai Malaspina 2), il dominio sull'attiguo mons o podium Illicis, già ricordato nel basso medioevo, e su tutta la catena del Caprione, si è affermato definitivamente. Così la considerazione politica si aggiunge a quella suggerita dall'impressione diretta, ossia dal tipico aspetto montuoso dei dintorni immediati, per far sì che Dante, uso a fissare non in linee, ma in zone i confini fra regione e regione, fissi nella zona in cui sorge il castello di Lérici, che ancora conserva la torre dugentesca pisana aggrandita dai genovesi, il confine sciroccale della regione ligure. Lérici godeva al principio del trecento di una notorietà tale che riusciva facile a chi leggeva, nel primo trecento, la Comedia, l'identificare il limite sciroccale dantesco della regione ligure, anche senza il sussidio di carte. E la sua notorietà non era soltanto dovuta alla parte che castello e borgo avevano avuto nel duello, ancora relativamente recente, fra Genova e Pisa, ma anche all'importanza del suo piccolo porto: 33) piccolo porto che non figura nelle più antiche carte portolaniche a noi pervenute, ma che probabilmente era già ricordato in portolani trecenteschi, di cui può averci serbato traccia il portolano che, detto un tempo di Cadamosto, va ora sotto il nome dell'editore novarese che lo stampò, a Venezia, nel 1490: cioè il portolano di Bernardino Rizo, dove è ricordato ii « Castello Alerisi » 34) (Alérisi).

Dante dovette conoscere per esperienza diretta i dintorni immediati della Turbìa: il rilievo interposto fra la Turbìa e l'Escarène, lambito a settentrione dall'ultimo tratto del corso del Paillon; il rilievo in cui, in tempi a noi vicini, si volle ravvisare un contrafforte delle Marittime che dividerebbe la regione fisica italiana

dalla regione fisica francese. Forse ebbe occasione di percorrere la strada subcostiera che continuava l'antico tracciato romano raggiungente l'« Alpis summa» dell' Itinerario d'Antonino: la stazione doganale, non lontana dai Tropaea o dal Tropaeum Augusti, alzato nel 7.° anno avanti Cristo al limite fra l'Italia e la Gallia Narbonese, e ricordato da Plinio e da Tolomeo. Quando questo viaggio dantesco sia stato compiuto, non è possibile fissare: pura supposizione è che esso abbia avuto luogo precisamente nel 1308, quando, dopo un soggiorno non breve in Lunigiana, il Poeta avrebbe cercato il suolo di Provenza, recandosi probabilmente ad Arli, e di qui a Parigi. Non è nostro intendimento esaminare qui la questione relativa agli influssi letterari, rievocati anche recentemente dall'Hauvette, che potrebbero da soli spiegare l'accenno ai sepolcri arlesiani (Inf., IX, 112-5), 35) così come non è nostro intendimento ripetere qui quello che altrove abbiamo ricordato a proposito del viaggio dantesco a Parigi, dato come certo dal Boccaccio, accettato dal Rajna, e da Pierre de Nolhac, negato dal Farinelli e dall'Hauvette. 36) Ci limiteremo a ricordare che Dante vide cogli occhi suoi, con tutta probabilità, la Turbìa, se egli fu effettivamente in Provenza dove, più ancora che le vaste rovine romane di Arles, dovevano chiamarlo il desiderio di conoscere da vicino la nuova sede pontificia e la terra dei poeti che avevano cantato in lingua d'oc, terra che Peire Vidal circoscrive entro confini probabilmente un po' più ristretti ma non molto diversi da quelli fissati da Carlo Martello. 37) E ricorderemo ancora che, delle grandi strade di comunicazione fra l'Italia e la Francia, ha maggiore probabilità d'essere stata percorsa dal Poeta quella della Riviera passante per la Turbìa. Di qui egli ha potuto raggiungere Arli ed Avignone e, con ogni probabilità, anche Lione, se egli fu effettivamente attratto a Parigi dalla grande fama di quel centro universitario il cui sviluppo è così intimamente legato a quello della vita della Francia che il primo ordinamento del servizio postale privato francese appare connesso alla necessità di stabilire un collegamento regolare fra gli studenti di Parigi e le loro famiglie distribuite essenzialmente sul suolo francese. 38) La Turbìa doveva essere nota, al tempo di Dante, più per la difficoltà dei cammini che caratterizzano i suoi immediati dintorni (difficoltà tanto più notevole in un'area di confine politico), che non per il trofeo d'Augusto, oracolo pagano, che la tradizione volle ruinasse per le preghiere di Sant'Onorato, arcivescovo di Arles nella prima metà del secolo V. 39) Poichè, se nel 1575 Pier Antonio Boyer poteva

descrivere i resti del monumento che ha, come l'arco di Susa, tanta importanza nella storia dei popoli alpini nell'età augustea, degnamente lumeggiata da Giovanni Oberziner, 40) certo è che, circa un secolo e mezzo dopo la composizione del poema, Flavio Biondo poteva scrivere, a proposito della Torbia, il giudizio seguente: «< castellum nunc ignobile sola viarum asperitate notissimum ». 41) Nè può fondatamente ravvisarsi nelle parole del Biondo, che ricorda l'identificazione fatta dal Bracelli (Tropaea Augusti), un puro e semplice riflesso di quanto dice a proposito della Turbìa il Poeta che mette in particolare evidenza, parlando della Turbìa, il fatto che essa appartiene, come Lérice o Lérici, all'area terminale d'una zona impervia.

Infatti, l'accenno esplicito del Poeta all'area caratterizzata da eccezionale ripidità di cammino riguarda propriamente Noli:

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su 'n Bismantova e in Caccume
con esso i piè; ma qui convien ch'om voli.

(Purg., IV, 25-7)

Quando il Poeta è giunto con Virgilio a «la calla» che permette l'adito al primo balzo dell'Antipurgatorio, se anche è più angusta del passaggio che il villano cinge di spine « quando l'uva imbruna », sorgono davanti alla mente del Poeta imagini di vette inaccessibili e di discese precipitose, ch'egli potè anche conoscere solo indirettamente, ma che, più probabilmente, vide coi suoi occhi: la rupe di Sanleo, presso il confine settentrionale della contea di Montefeltro, e la nuda, franosa Pietra di Bismantova, accessibile solo dal versante settentrionale, sorgente da praterie e da boschi, fra Reggio Emilia e Castelnuovo dei Monti; 2) Noli, gloriosa un giorno dei suoi « cento » navigli, cantati da Vittorio Brondi. Noli, più prossima a Finalmarina che a Savona, appare veramente come sprofondata, verso levante, a chi la guarda dalla spianata prossima al capo del suo nome, spianata che fissò particolarmente l'attenzione del Bassermann, dotto e prudente ricercatore delle orme di Dante sul suolo italico. 43) Il Poeta potè anche avere notizia, da qualche viaggiatore, delle pareti scoscese scendenti su Noli, e dei sentieri sbalzati nella roccia dei suoi dintorni; ma più probabilmente egli vide cogli occhi suoi il piccolo porto dell'antica Novalia: il Naulum dell'età medioevale, che qualche carta portolanica trecentesca, come quella dell'atlante Pinelli o quella catalana, offerta nel 1375 a Carlo V di Francia, chiama Nori, e qualche carta quattrocentesca, come quella di Andrea Bianco,

chiama Nolli. Che Dante abbia visto effettivamente Noli, ricordata in un documento del 1177, insieme con Portovenere (il cui castello fu edificato dai genovesi fin dal 1113, « per acquisto fellone dai signori di Vezzano»: U. Mazzini), fra le estreme terre del territorio dei Genovesi a cui i mercanti di Corneto concedono libertà di commercio, 44) può desumersi anche da altri argomenti indiretti. La recisa affermazione intorno alla parte che la lettera z, pronunciata << non sine multa rigidate », ha nel dialetto genovese (parte così preponderante «quod si per oblivionem Ianuenses amitterent z litteram, vel mutire totaliter eos, vel novam reparare oporteret loquelam »: De vulg. eloq,, I, XIII, 5), 45) potrebbe, da sola, suggerire l'ipotesi che Dante abbia fatto ampia esperienza del dialetto genovese in territorio ligure. Ma a dare grande probabilità all'ipotesi che fra « le parti quasi tutte a le quali questa lingua [di sì] si stende », e che furono cercate dal suo passo di esule (Conv., I, III, 4: « con ciò sia cosa che.... io mi sia quasi a tutti gli Italici appresentato », Ibid., I, IV, 13), sia anche la terra di Liguria, intervengono due fatti precisi: il giudizio sul fiume di Lavagna; l'invettiva contro i Genovesi.

Quando alle anime del quinto girone che, prone al suolo, piangono colle parole del salmista (« Adhesit pavimento anima mea ») il loro eccessivo, quasi elementare amore ai beni materiali, Virgilio chiede dove sia il passo ai gironi superiori, una di esse risponde che occorre tener sempre la destra: « le vostre destre sien sempre di furi ». Alla preghiera di Dante che vuole, anzitutto, sapere chi essa sia, l'anima, parlando nella lingua della Chiesa, dice di aver cinto la tiara. E perchè l'identificazione sia immediata, prima di ricordare che il suo pontificato fu brevissimo, Ottobuono Fieschi dei Conti di Lavagna, papa per 38 giorni dal luglio all'agosto del 1276, ricorda il nome della famiglia patrizia da cui è disceso:

Intra Siestri e Chiaveri s'adima

una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.

(Purg., XIX, 100-2).

Nell'appellativo della fiumana, denominata dal titolo comitale della sua famiglia, è più che un acuto desiderio nostalgico di Ottobuono che ha lasciato libri alla chiesa del Salvatore in Lavagna e al monastero di S. Eustachio di Chiavari, 4) e rivede ancora, con occhi non più mortali, la corrente fluviale che ai tempi di Dante doveva serbare certamente, almeno nel tratto a valle della confluenza della Sturla, il nome di Lavagna. E ciò non

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