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Dante e la Liguria.

PARTE PRIMA.

I.

DANTE E IL DIALETTO GENOVESE.

Contro ciò che richiederebbe quella certa solennità che si attende dalle prime pagine di un libro, l'argomento a me cortesemente assegnato il dialetto genovese in relazione (relazioni reali o supposte) con le opere di Dante non solo non permette di dir nulla di nuovo, ma non dà luogo neppure a interessanti ripetizioni di cose vecchie. Forse, così dicendo, io faccio maraviglia e dispiacere a qualche fervido campione del proprio dialetto, secondo il quale Dante avrebbe conosciuto così bene il dialetto genovese e avrebbe avuto per esso così notevole predilezione da attingerne parecchi vocaboli per quella straordinaria Commedia che andava preparando. Ma poichè non pochi dialetti italiani (a tacere, naturalmente, del fiorentino o del toscano in genere) pretendono al medesimo onore, in che cosa consisterebbe o a che cosa si ridurrebbe la preferenza?

Ma prima di cominciare questa scorribanda di dantismo genovese, mi si permetta di compiere un dovere di riconoscenza, inchinandomi ad un caro ricordo. A me si affaccia, mentre scrivo queste pagine, destinate ad una pubblicazione genovese in onore del gran padre Alighieri, il ricordo del vecchio maestro che dalla sua cattedra del Liceo Colombo educò parecchie generazioni all'ammirazione e all'amore di lui; che fu quasi il solo vero dantista che Genova abbia avuto, e il primo e l'unico genovese che alla Divina Commedia abbia consacrato un Commento. A tutti, per questo e per altri insigni meriti, è ancora familiare il suo nome, Federico Alizeri; ma più è fitta nel cuore 'la buona e cara im

magine paterna' ai suoi antichi scolari di Liceo, ormai anch'essi declinanti tutti verso il gran passo, ch'egli certo passò sicuro sotto gli occhi benevoli della divina Beatrice; e più ancora proprio a que' suoi ‘alunni del terzo Liceo', ai quali egli volle dedicata una speciale appendice, in forma di lettera, in fine dell'ultimo volume del suo Commento, l'opera prediletta della sua vita.

Fu non soltanto un gentilissimo atto di affettuoso maestro, ma fu soprattutto e conta anche più uno spontaneo e volenteroso atto di amore del vero, quale spira per i suoi fedeli da ogni pagina del cantore della rettitudine; un impulso di modesta e coraggiosa sincerità. Al mite e paziente Maestro, che a noi un poco irrequieti insegnava, non veramente ad ora ad ora, ma in ogni ora dei tre anni di corso, come tutto in Dante fosse perfetto, dagli ammaestramenti morali (alcuno dei quali rivolgeva benignamente contro le nostre impazienze) fino all'uso di ciascuna singola parola, stava fitto in mente che Dante non avesse potuto errare mai nella proprietà dei vocaboli, e, considerando il vocabolo bolgia, s'era dunque persuaso che le fosse di Malebolge non potessero aver la forma se non di sacchi o tasche; che dunque, contro all'interpretazione comune, Malebolge consistesse in un unico girone circolare, che si avvallava volta a volta più profondamente in dieci fosse, riunite da un unico ponte.

Vi ricordate, o amici miei superstiti, quale fervore di curiosità e di studii suscitò ad un tratto nel terzo Liceo di allora quella singolare costruzione? E specialmente tu, Paolo Bozano, amico mio, e il Luxoro, se ben rammento, e qualche altro, aiutati dalla vostra bravura di disegnatori, moveste con rispettoso e franco ardire all'assalto contro l'architettura infernale escogitata dal buon Maestro; il quale ascoltò stupito e paziente, ribattè con affettuosa benevolenza, ascoltò ancora, finchè un giorno disse: 'Forse avete ragione voi, figlioli. Ma bolgia, perchè bolgia?' E crollava lievemente il capo, come se susurrasse dentro di sè 'peccato!' e volesse scacciare l'importuno pensiero che Dante potesse aver commesso una colpa d'improprietà. Poi aggiunse: 'correggerò e farò sapere di chi è il merito.' E il bravo e venerando uomo mantenne la sua parola.

Il vecchio Maestro, lui pure, amava il suo dialetto genovese e aveva caro d'immaginare che alcuni vocaboli danteschi, soprattutto apruovo, mena, fossero stati colti direttamente dal Poeta sulla bocca del nostro popolo. Ma nel suo schietto e profondo sentimento di sincerità e di verità, se alcuno di noi fosse stato in grado di dimostrargli allora che questo modo di vedere non era

molto più verosimile di quello suo circa le male bolgie, avrebbe forse ancora una volta susurrato dentro di sè, peccato! ma certo avrebbe pur ripetuto: 'Forse avete ragione voi, ragazzi miei'. E chi sa? ci avrebbe anche recitato, in quel suo bello e dignitoso modo, che ci piaceva tanto, i versi del suo Poeta, ch'era per lui anche un maestro di vita;

lo veggio ben, che già mai non si sazia
Nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra....
Posasi in esso, come fera in lustra,
Tosto che giunto l'ha; e giugner puollo:
Se non, ciascun disio sarebbe frustra.

Nasce per quello, a guisa di rampollo,
A piè del vero il dubbio; ed è natura
Ch'al sommo pinge noi di collo in collo.

Dante, dunque, secondo i dantisti e dialettofili locali, si sarebbe dato la pena di andar pescando nelle varie parlate locali (ciascuno dice nella propria) le parole che più gli piacevano; e non di rado accade che una medesima parola si veda gratificata di più patrie, essendo, poniamo, secondo il commentatore genovese, genovese, e secondo il commentatore nato in Abruzzo, in Calabria, calabrese, abruzzese. Già molti anni addietro, e forse più di una volta, io ebbi l'occasione di parlare di queste e simili cose; e, per esempio, rivolgendomi ad uno studioso meridionale, che, lui almeno, mostrò, da quel brav'uomo che è, di saper approfittare delle giuste osservazioni, scrivevo press'a poco in questo modo:

Tutti i dialetti italiani hanno un fondo comune (ormai è noto anche a chi non vuol saperne), il fondo latino (non occupiamoci delle vecchie e strambe fantasie del preteso fondo ligure, greco, arabo, e che so io). Perciò i riscontri lessicali e morfologici che possiamo notare tra essi, non si riducono a un piccolo numero di esempi, studiosamente raggranellati qua e là, ma sono continui, sono innumerevoli, e lo studio di essi è oggetto di una scienza speciale, viva e grande, per fortuna, anche in Italia. Fa dunque opera vana chi, scegliendo otto o dieci, o anche ottanta e cento vocaboli del suo dialetto, ce li mette dinanzi, come preziosi casi di accordo con la lingua della Divina Commedia. A che

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