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Il litorale ligure nella carta dell'atlante Luxoro (sec. XIII-XIV).

Si è tentato di attenuare la portata dell'invettiva supponendo ch'essa sia stata suggerita dal ricordo di delitti compiuti da una ristretta cerchia di genovesi: la cerchia in cui campeggia Branca d'Oria che nel 1275 spegne, coll'aiuto d'un suo « prossimano », il suocero Michele Zanche. È vero che l'infido Vicario di re Enzo in Sardegna merita per le sue baratterie di essere punito in eterno << là dove bolle la tenace pece»: nel fosso de' Malebranche. Ma il delitto del genero non rimane, per questo, attenuato. E il Poeta escogita per Branca, che i Sassaresi giustizieranno, novantenne, nella primavera del 1325, 61) una pena nuova e terribile: dal giorno del suo delitto l'anima sua sta confitta nel gelido stagno di Cocito, mentre un diavolo entra nel suo corpo mortale. Certo la notorietà creata intorno a Branca d'Oria dalla serie dei suoi delitti è grande; ma l'affermazione del Poeta è troppo esplicita (<«< che Branca d'Oria non morì unquanche | e mangia e bee e dorme e veste panni ») perchè non sia grandemente suggestiva l'ipotesi che il Poeta l'abbia conosciuto in persona, probabilmente in Genova. Quando l'incontro possa essere avvenuto non è, evidentemente, concesso di affermare con vera e propria probabilità, risultando tuttora incerta la data del supposto viaggio dantesco in Francia attraverso la Liguria, e opponendosi non poche considerazioni notevoli all'ipotesi che Dante abbia potuto concepire l'ultima parte del penultimo canto dell'Inferno, solo dopo di aver conosciuto Branca d'Oria in Genova nel 1311, durante il soggiorno di Arrigo VII nella città che doveva accogliere le spoglie mortali della sua sposa, Margherita di Brabante. Certo è che, soprattutto per opera del Barbi e del Parodi, sono state contrapposte non poche importanti obiezioni alla tesi (Kraus; Zingarelli) che vuole iniziata la composizione del Poema solo dopo l'agosto del 1313, quando cadono per Dante, colla morte d'Arrigo, tutte le speranze d'una pronta restaurazione ghibellina. Nè è tanto facilmente ammissibile che l'episodio di Branca d'Oria possa essere considerato come una semplice aggiunta, inserita a scopo di vendetta personale, dopochè l'Inferno era già tutto composto nella redazione definitiva in cui è pervenuto a noi. Parrebbe, anzi, più fondato il supporre che, se l'episodio di Branca d'Oria fosse stato concepito dopochè Arrigo, contro cui erano insorte Cremona e Brescia, Milano e Pavia, aveva trovato, almeno per qualche tempo, un sicuro rifugio in Genova, Dante avrebbe risparmiato ai Genovesi l'invettiva terribile, ricordando l'atteggiamento di sudditi fedeli da essi assunto, in un'ora dubbia, verso il suo Imperatore che l'Anonimo genovese, il quale scrive appunto nel 1311 62) e può an

che aver assistito alle grandi feste fatte in suo onore dai Genovesi, chiama fido strumento di Dio e pacificatore del mondo: <«< servior de De veraxe | chi per tuto menna paxe », (3) Infatti, non si può supporre che il Poeta, il quale vede, fin da principio i pericoli d'un'azione imperiale indecisa, possa effettivamente ascrivere a deliberato proposito di tradimento la freddezza seguìta all'entusiasmo con cui i Genovesi hanno accolto l'Imperatore.

Si può supporre che sul giudizio del Poeta intorno ai Genovesi abbia esercitato un qualche influsso, non solo il verso di Virgilio sui Liguri: «< Vane ligus, frustraque nimis elate superbe! » (Aen., XI, 715), ma la tradizione dei Liguri tessitori d'insidie, sorta al tempo della lotta epica con Roma. Si può pensare, ancora, che Dante abbia avuto ragione di dolersi del carattere di alcuni sudditi della Repubblica con cui fu in diretto contatto. Ma la ragione vera della sua invettiva terribile, che colpisce certamente la grande maggioranza, se non la totalità dei Genovesi, e avrà, fra altro, un riflesso sul Pellegrino del pergolese Gaugello Gaugelli (1464; ed. nel 1922) 64) sembra sfuggirci. Non sappiamo se essa sia dovuta a relazioni personali con Branca d'Oria o con altri Genovesi, al trattamento avuto dal Poeta in Genova o, comunque, durante il suo viaggio in Liguria, da parte di « homicidae, malefactores et iustitiae contemtores », di cui parla un autorevole cronista genovese del tempo, Jacopo d'Oria; e ignoriamo in quale misura la lotta tra i Fieschi (forse ospiti e protettori del Poeta) contro i d'Oria, e, in genere, le generali condizioni della vita sociale, così profondamente turbata da gravissime discordie intestine (1291-1296), solo in parte sopite dal fervido apostolato dell'arcivescovo (Jacopo da Varagine), abbiano potuto influire a estendere forse anche alla totalità dei Genovesi la condanna sterminatrice. Solo può dirsi fondatamente che il Poeta ha potuto essere indotto ad invocare la totale disparizione dell'elemento genovese dalla superficie terrestre per ragioni analoghe a quelle che hanno provocato in lui, poco prima, l'augurio che Pistoia sia avvolta dalle fiamme di un unico rogo purificatore (Inferno, XXV, 10-12), e Pisa diventi un cimitero d'annegati (Inferno, XXXIII, 79-84). Infatti, in Dante, malgrado le condanne da lui subìte e l'atteggiamento di Firenze verso Arrigo, vive, sempre, il fiorentino che ama profondamente la sua terra ed è tratto, quasi istintivamente, a odiare i Comuni che hanno ostacolato, come Pisa, ed ostacolano tuttora, come Pistoia, da cui ebbero nome i Bianchi e i Neri, o come Genova inevitabilmente rivale a Firenze dopo la definitiva disfatta pisana alla Meloria -l'espansione commerciale e politica di Firenze. E, soprattutto, in

Dante che concepisce una regione naturale italiana, caratterizzata dalla diffusione spontanea della lingua di sì, base prima alla formazione dell'area nazionale italiana, vive l'italiano per cui la discordia fra terra e terra italica (Purg., VI, 82-4) è causa di sofferenza profonda. In questo profondo senso d'italianità che informa e anima tutta l'opera di Dante, è la giustificazione delle invettive sanguinose contro varie città italiane: invettive che possono sembrare, a tutta prima, effetto di angusto odio campanilistico, sfogo eccessivo di uomo di parte, mezzo di vendetta personale. L'invettiva contro i Genovesi, a cui dà occasione la pena eterna d'un genovese che ha ucciso a tradimento il padre della propria sposa, trova, almeno in parte, la sua spiegazione, se non la sua giustificazione, in questo superiore senso dantesco di giustizia: senso che si fa tanto più vivo quanto più evidente è la responsabilità del colpito. La formula dell'invettiva presuppone, se ben si riguarda, un giudizio lusinghiero sull'attività genovese, che riesce ad affermarsi vittoriosa in tutte le plaghe terrestri, come ricordano i significativi versi dell'Anonimo, dettati al tempo di Dante :

lor navilio e sì grande

per tuto lo mar se spande

e tanti sun li Zenovexi
e per lo mondo sì destexi
che unde li van e stan
un atra Zenoa ge fan. 65)

Fra gli abitanti delle varie città italiane i Genovesi possono dirsi i più duramente colpiti: con un giudizio eccessivo non solo sul loro particolarismo che sembra differenziarli da tutte le altre similari unità etnico-sociali (« diversi d'ogni costume»: su questo, cfr. A. Pescio, Genova, 1921), ma anche su un aspetto particolare del loro mercantilismo che il Poeta designa con lo stesso sostantivo da lui usato altrove (Purg., VI, 110) a proposito dei «< gentili omini e signori d'Italia » (Francesco da Buti). La diffusione dell'elemento genovese su tanta parte de « l'aiuola che ci fa tanto feroci » deve aver suggerito a Dante la considerazione dei vantaggi che da essa potevano derivare all'intera collettività sociale. Egli si rende pienamente conto del prestigio derivato ai Genovesi dalle loro vittorie di Laiazzo (1294: l'Aiazzo, o Aiâs, sulla costa sciroccale dell'Asia Minore) e di Cùrzola 66) (nel «< mare di Venezia ») sui Veneziani che l'Anonimo, nato in Genova, dove pure esisteva, a' suoi tempi, una « contrata venetorum », chiama:

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