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cosa può servire il disporre accanto ai danteschi accattare, alleggiare, allumare, appresso dopo, crese credette, fiumana, gravare, mento, ecc., altrettante voci dialettali affini? Solo in un caso, e così per la Divina Commedia come per ogni antica scrit tura, può riuscir utile citar singoli riscontri dialettali ; quando cioè si tratti di vocaboli oscuri che oggi il toscano abbia perduto e possano essersi conservati meglio (caso raro, ma possibile) in qualche altro dialetto, il quale perciò sia in grado di darci luce a meglio intenderli. D'altra parte, bisogna pure guardarsi dalle lusinghe di troppo studiati raffronti, come è interpretare andare al cupo (di Inf., VII, 10) 'andare al cavo', perchè cupare in Calabria o altrove valga 'incavare, o dalle insidie di troppo facili interpretazioni ed etimologie, come sarebbe strupo (ib., 12), supposto affine al calabrese truoppie, drappello.

Ecco uno degli esempi, a cui alludevo, di un'unica parola che riesce, come una seducente e furba ragazza, a farsi disputare tra più predendenti: non si vantano anche a Genova diritti su strupo? Infatti si dice strüppa per 'folla', 'stuolo'. Ma perchè altrettali diritti non dovrebbe mettere innanzi il Piemonte, dove pure strup (e trup) vale stormo', 'frotta', e il vocabolo probabilmente è più nativo che in Liguria, come è più conosciuto e diffuso? Lasciamo questi e altri vocaboli affini d'altri dialetti a sbrigarsela fra loro; trascuriamo anche di osservare che strupo dovrebbe almeno, per corrispondere ad essi, avere un doppio p; tanto si tratta di una causa perduta: il dantesco strupo non è altro che stuprum, e strupum è non soltanto la grafia del Mussato e del Boccaccio, ma è quella di antichi manoscritti latini, come l'Orosio laurenziano del settimo secolo, che ha strupa per stupra'. 1)

Forse alcuno obbietterà che il dialetto genovese possiede più validi campioni: anco, da confrontar con ancoi, oggi (Purg., XIII, 52; XX, 70; XXXIII, 96), ca, casa (Inf., XV, 54), barba, zio (Paradiso, XIX, 137). E poi, chiappa: come non fermarsi pensierosi e titubanti su chiappa? E infine quei due che più riuscivano, come ho detto, a persuadere l'Alizeri, cioè apruovo, dietro (Inf., XII, 93) e mena, qualità, condizione (Inf., XVII, 39; XXIV, 83).

Purtroppo, la fiducia che alcuno ripone almeno in questi esempi non è meglio spesa. Con quale sopercheria dovremmo far passare per nostro ancoi, mentre è di tutta l'Alta Italia, della Provenza, della Francia (ancuei; ancui)? E barba? E ca, il quale si trova perfino nei proverbii toscani? E mena, di cui gli esempii antichi toscani sono numerosissimi, e ancora dal Borghini è chiamato vocabolo « molto nostro », benchè poi avessero il diritto di

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chiamarlo << molto nostro » anche gli umbri (Jacopone, VIII, 66, qual ce trarai mena de morte angustiata »), e anche i francesi e i provenzali (« Un vers farai de tal mena» ecc.)?

Certo non ha l'aria di vocabolo originariamente toscano apruovo, benchè ricorra piuttosto frequente nell'uso antico, se non col senso che ha in Dante e nel genovese, con quello, più etimologico, che conserva aproef o aprav in lombardo. Il suo v, in luogo del p che in toscano dovrebbe conservarsi, attesta che è venuto dal settentrione, come riva, come l'arcaico nievo, nepote, che si trova anche nel Pulci. Potrebbe però aver avuto cittadinanza in Toscana fin da tempo assai remoto, come riva; ma è più probabile che Dante o i suoi contemporanei lo abbiano preso direttamente dal francese (apruef - prov. aprop, aprob —, per es, « aprof o apruef le chevalier »>, dopo, dietro), come sarà da credere anche per nievo.

Dobbiamo continuare in schiarimenti così elementari? Diremo solo ancora (ed è cosa notissima!) che il genovese ciappa, lavagna, lastra, non può adattarsi a spiegare i versi danteschi (Inferno, XXIV, 31 segg.):

Non era via da vestito di cappa,

Chè noi a pena, ei lieve ed io sospinto,
Potevam su montar di chiappa in chiappa,

dove il vocabolo ha il senso evidente di un semplice deverbale da 'chiappare', cioè afferrare; come si dice tuttora, con senso non troppo lontano, «ho fatto una bella chiappa », un bel profitto, e chiappatella è ciò con cui uno si chiappa', ossia (la metafora è identica) 'gherminella. D'altra parte, a corrispondere ai 'ronchioni' o alle 'schegge' a cui Dante veniva aggrappandosi, riuscirebbero troppo meglio delle lastre piatte e levigate, che i genovesi intendono per ciappe, vocaboli d'altri dialetti, come il friulano clap, sasso.

Intendiamoci. Non è già che sarebbe da giudicare a priori come un caso impossibile e stravagante, in un tempo in cui la lingua letteraria non era ancora fissata, che colui il quale ebbe nel fissarla il merito primo e massimo adoperasse qualche vocabolo dialettale, appreso direttamente dalla viva voce di quelle popolazioni fra cui dimorava o passava. Troviamo esposta al suo tempo, quasi come una ovvia teoria estetica, quella che può chiamarsi della mescidanza'; troviamo cioè che il Barberino, in alcuni versi in principio del suo Reggimento e Costumi di

donna, pur asserendo di voler scrivere «sol nel volgar toscano »>, riconosce a sè stesso il diritto di usare anche vocaboli d'altri dialetti, di quei paesi « dove più aveva usato », purchè non troppo discordi dal tipo toscano e scelti fra i più belli. Pare che fra i più belli egli contasse in za e in là, cavelli, dozi dodici, carriega, preve, acqua colda, e qualche altro, poichè queste espressioni, provenienti da dialetti dell'Alta Italia, si trovano da lui realmente adoperate. 2) Ma la questione è se l'uso di qualche vocabolo dialettale fosse possibile o no; sta nel decidere se la teoria dantesca, quella soprattutto del volgare illustre, 'corrisponda o no alla teoria della mescidanza'; e sta poi soprattutto nel provare che quel dato vocabolo della Commedia ha proprio di necessità quella data origine diretta dai dialetti parlati. Il resto è dilettantismo e perditempo.

Dante usa vocaboli dialettali quando vuol caratterizzare i suoi personaggi, e, per esempio, in bocca al lucchese Buonagiunta mette l'avverbio lucchese issa; ma questo procedimento che precorre raffinatezze artistiche dei nostri tempi, non ha nulla che ci riguardi. Esso non differisce da qualche altro accorgimento, proprio della fantasia drammatica di Dante, cioè, in genere, dal suo uso di far parlare i proprii personaggi secondo, possiamo dire, le loro abitudini professionali: con esempii o frasi scritturali, con parole latine, se furono grandi dignitarii della Chiesa (« Nuovo Jason sarà, di cui si legge ne' Maccabei », Inf., XIX, 85 seg.; << Scias quod ego fui successor Petri », Purg., XIX, 99); con tutte le ricercatezze e i giochetti di parole della retorica del tempo, se furono famosi retori (Pier della Vigna).

In secondo luogo, Dante adopera senza dubbio alcuni pochi vocaboli o forme dialettali, di Bologna o bolognesizzanti, come il notissimo lome nel decimo dell'Inferno, oppure co, capo (Inferno, XX, 76; XXI, 64; Purg., III, 128; Par., III, 96), — se non fu toscano ancor esso! 3) dell'Umbria o umbreggianti come vonno, per vanno (Par., XXVIII, 103); ma donde li ha tolti? Ed ecco che in ciò consiste la differenza: probabilmente egli non ha introdotto nella Commedia nessun vocabolo di dialetto non fiorentino (o, diciamo per prudenza, toscano), se non quando esso era già diventato in certo modo un vocabolo «illustre », vale a dire si trovava già usato in componimenti poetici, soprattutto in liriche. Quei vocaboli lome, co, vonno, li trovò già in poeti anteriori; avevano cioè di già il suggello letterario, che a lui importava, ch'era il carattere o l'essenza della sua teoria del linguaggio illustre. Poteva forse egli all'occasione chiudere un oc

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