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in cui gli fu per un pezzo al fianco; ma poi l'imperatore preferi restar solo « del fugace servo » volendo « l'intero honore ». Fausta gli crede, anzi riflette:

«Non dovranno star molto a comparire:

Già si comincia avvicinar la sera,

Accostati, et sostieni il corpo stanco ». (1)

Lo Scacciato è sulle spine: vorrebbe andarsene, e alle nuove sollecitazioni della Regina mormora fra sè: << Ch'io non sia giunto a dar qui nella rete! ». (2)

Frattanto arriva un nunzio, il quale, non si accorgendo di Fausta, dà libero sfogo alla sua commozione:

O Giustizia del Ciel, quanto a ragione
Dissero i savi che aspetti la sua

Chiunque iniquitoso altrui impone!; (3)

ben gli rincresce di quell' infelice vecchia: come farà ad avvisarla? Fausta che ha sentito tutto, e già temeva: ....me percuote » esclama « Questa ambasciata: hor che ne rechi ? parla ». Il nunzio racconta che trovaron l'Imperatore ferito nella selva, e lo portarono al vicino oratorio: Nicanore, medico, cominciò a curarlo, tutti ebbero le loro incombenze, lui quella di avvisar la Regina; e questa:

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Alla risposta affermativa del nunzio, il quale soggiunge che l'Imperatore ha conosciuto nel feritore un suo figliuolo, Fausta si impone coraggio: vedrà Costante, però dopo aver provveduto al regno; e dà ordini che fanno entusiasta il coro, e lascian freddi noi. Ma quando sta per lasciare la scena vi compare un gruppo di persone, sicchè è costretta a fermarsi. Trascinano i soldati Selvaggia morente uno di essi racconta com' ella abbia preso il veleno, e stesse per farlo prendere a Dalida, lorchè volevano obbligarla a dir chi fosse il giovine, dal quale, secondo che ella stessa aveva riferito, eran state nascoste delle armi nella sua casa. Fausta capisce quanto importi alla scoperta del colpevole che Selvaggia non muoia: quindi dà ordine la curino, e a due donne del Coro fa guardar la giovinetta. Il Coro con uno dei soliti tratti di commedia, osserva :

<< Ottimo spediente, se qualche uno

Troppo invaghisse della faccia bella. . .

Selvaggia parla difendendo sè e la figlia. Fausta ne resta quasi persuasa, e la conforta; ma Selvaggia di sè non cura, poichè capisce di patire a ragione: chè, se taceva, non l'incoglieva malanno. Invece tacere non seppe, nè ha mai saputo (altro tratto di commedia, su cui, vedemmo, l'intreccio escogitato dal Benivieni si fonda); ecco infatti le sue parole:

Nè solo ha questa volta il parlar troppo
Pregiudicato (2) alli affar mia dubbiosi ;
Che già son quindici anni, mi rammento,
Sendo in altra foresta ove (3) sono

(1) c. 127.a

(2) Ms. progiudicato.

(3) Ms.: come

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Sc.

--

Da vicin detto il monte Calvaneo.

Selv.
Sc.

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Selv.
Sc.

Proferir deh l'antico nido sento.

Et da quel luogo il figlio mio nomai.
Quel che col raccontar accomiataste?

Quello. E muta a quel tempo stata fussi.
Massima dunque voi di regal sangue ?

Et io Calvaneo, l'ingrato figlio,

Selv. Chi mi discopre ? et chi usa i segreti

Mia palesare, et morta battezarme ?

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Poi Selvaggia vaneggia, ode appena le parole appassionate del figlio; ma alla fine si risveglia, e comprende:

« Dite voi l'altro nome: a che mutato

I primi havete? chè chiamar vi sento

Lo Scacciato, se ben vi riconosco.

Sc. Ciriffo, deh ponete alquanto mente! (4)

(1) Ms. et sire.

(2) c. 128.a

(3) cc. 128a

128.

(4) ib.

Selvaggia si commuove, gli perdona, e sente di morir contenta, perchè ha ritrovato il figlio suo: ma prima lo raccomanda all'Imperatrice che ha capito, come tutti han capito, che egli fu l'uccisor di Costante, e l' Imperatrice, impietosita, promette di perdonargli.

Ed ora un giudizio complessivo su queste tragedie. A darlo tuttavia è necessario non dimenticare il tempo in cui furono scritte: chè troppo spesso i giudizi sono errati o, almeno, inesatti, perchè non s'è posta sufficiente attenzione all' elemento, dirò così, storico-cronologico.

Io non mi sono trattenuta dal fare la critica, tutte le volte che me ne capitava il destro, al mio autore, o meglio all'opera sua: e va bene. Ma ora debbo pur confessare che molte delle pecche rimproverate al buon Antonio nou erano tanto sue, quanto dei tempi. Gli sproloqui dei nunci le numerose sentenze, qualche tratto di commedia si trovano a tutto andare nelle tragedie cinquecentine; di più verso lo scorcio del secolo, e anche prima, le due linee di derivazione e di imitazione trissiniana e giraldiana, che è quanto dire greca e latina, nettamente staccate e quasi divergenti, erano giunte, l'una allo stremo di semplicità degenerante in monotonia, l'altra allo stremo dell' efferatezza; e le tragedie d' allora o fanno sbadigliare o fanno ridere, perchè la semplicità vi diventa bambineria, la crudeltà ridicolaggine. Pochi, pochissimi, si citano a titolo d'onore fra quegli inetti verseggiatori. Ciò posto, e con tutto il peggio che si fece, le tragedie del nostro, scritte appunto verso la fine di quel cinquecento bamboleggiante, non sono tanto da disprezzarsi, e meritavano i cenno che ne ho dato. Sta il Benivieni di mezzo fra i trissiniani e i giraldiani, in teoria: in pratica, è più che altro giraldiano, ma non per aver esagerato nella rappresentazione di crudeltà o di delitti, sibbene per aver cercato di rendere quanto più poteva complessi di avventure i suoi

drammi, e per avervi amato quel fine lieto o almeno « non triste » che il Giraldi aveva pur difeso cogli scritti e coll' esempio.

La sua Placidia fa pensare alla commedia, come la sua Teodora, chiamiamola pure cosi, alla novellistica: ed io credo che egli alla sua volta, mentre le scriveva, pen. sasse ai buoni Fiorentini del suo tempo, ai quali non meno che a lui, e novelle e commedie piacevano (1) E commedie scrisse il buon canonico, due recate da questo stesso codice. Sennonchè, se esse possono valere a confermare il carattere che siam venuti delineando dell' uomo e dell'opera sua, non hanno però importanza alcuna per la storia del genere, e quindi rinunzio a parlarne.

DOTT. CATERINA RE

(1) Per la tragedia nel cinquecento oltre il libro già citato del Neri (La tragedia italiana nel cinquecento) possono sempre vedersi con profitto il Gaspary (Storia della Letter. Ital., P. II, Cap. XXIX). P. Bilancini, G. B. Giraldi la tragedia ital. nel sec. XVI, Aquila 1890; M. Biancale, La tragedia ital. nel Cinquecento, Roma, 1901, e specialmente Flamini, Il Cinquecento, Milano Vallardi P. II, Cap. III, pp. 239 sgg., e P. III, Cap. I, pp. 451-3; (cfr. in Appendice più ampie notizie bibliografiche).

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