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Come istituzione prettamente giudiziaria, il giuri non poteva ispirare la stessa fiducia, o sembrare così necessario perchè fondato su due dati entrambi difficilissimi a verificarsi. Il primo, una fede sincera e ferma che il vulgare senno de' giurati debba, nelle ricerche di puro fatto, giudicare più dirittamente che non faccia il giudice permanente, col suo criterio raffinato dalla dottrina, fortificato dall'esperienza e dall'abitudine de'giudizî. Sicchè si abbia a ritenere che gli scrittori de'trattati, innumerevoli e lunghissimi, di prove giudiziarie da Bartolo a Mario Pagano, da Bentham a Carmignani, avessero precetti ed insegnamenti pe'giureperiti ed i culti, ma inutili e superflui aʼgiudici popolari, che, al bisogno, gl' indovinano per istinto.

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E vuolsi aggiungere che coloro che dicono il buon senso, quello che dicesi ed è tutt'altro, che comune, non bastare a ben diffinire una controversia giudiziaria, sostengono dippiù, che se pure bastasse, può essere falsato o da cose buone in sè, ma che son male in cosiffatti giudizi, come la pietà, la simpatia, l'amicizia, o di cose in sè sempre pessime, come l'odio, l'ignoranza, la vanità, i puntigli, le gare di partiti, ed infine, la corruzione ed il dolo.

L'altro dato assai dubbio è che si possa, in ogni ricerca giudiziaria, separare esattamente e facilmente la quistione di fatto da quella del diritto, e data la prima aʼgiurati, tenerli al tutto lontani dalla seconda. Se non che, questa distinzione è tutt'altro che facile. Anzi è tanto difficile che par quasi impossibile; ed impossibile la dichiarano coloro che impugnano un'istituzione antica, gloriosa e rispettata, qual'è la Corte di Cassazione, appunto perchè ammette questo scernere fra il diritto ed il fatto.

II.

Sicchè il giuri si presentò in Italia ed in Francia con questa doppia veste: buona, necessaria istituzione politica, mediocre istituzione giudiziaria. Ma come le cose sono quel che sono, e non quello che si vogliono far essere, a forza di argomentazioni, il giuri fu inteso essere in definitivo un giudice penale, che trova il reato ed il reo, e questo manda, già bello e giudicato, al braccio secolare di un altro giudice che pronunzia

la pena.

Or come tale, non si toglieva alla preoccupazione ed a' dubbii che nascono, come ho detto di sopra, dal criterio e modo di giudicare a senso comune, e dalla facilmente asserita, ma difficile a porre in prattica, distinzione fra il fatto ed il diritto.

Questa preoccupazione nel legislatore italiano è stata semprę evidente. Nelle leggi di Ordinamento giudiziario e più in quelle di Procedura, mentre si pone a fondamento che il giuri sia libero estimatore del fatto, ossia delle prove del fatto, d'altra parte il legislatore dà al magistrato togato l'ufficio di dirigere, indirizzare, chiarire il criterio de' giurati, sia col sopraintendere allo svolgimento orale della prova, sia con purificarne, per così dire, le fonti, perchè si attinga dove è lecito e legale. La prova di un reato e la sua natura è in prima valutata dal magistrato, col solenne giudizio di accusa in cui le prove sono non pure accennate, ma valutate. Poi, un altro magistrato propone gli elementi di queste prove, la materia della discussione, dicendo quali atti si debbano leggere ed esser tenuti presenti, quali testimonii si debbano e si possano esaminare il Presidente regola il dibattimento, ed all'uopo, è anche investito di un cotal

potere discrezionale per compiere la prova, correggerla, soffocarla quando si chiarisca od anche si sospetti falsa. E questa intromissione del magistrato legale nelle ricerche di fatto, che si suppone gli siano vietate, giunge quasi a far scomparire al tutto la pretesa libertà di convincimento data intera al giuri.

Se così non fosse, il giudicare p. e. se un testimone dica il vero o il falso dovrebbe essere un giudizio de' giurati. Invece è della Corte, la quale può dichiarare falso il testimone e porlo in accusa; ma ciò non può, se non con un vero giudizio sulle prove, tutto regolato da criterii di fatto e con la logica comune. Per dire che un testimone è falso, devesi paragonare la sua deposizione con quella di altri testimonii, con le altre prove che possono esserci, e dichiarare le une vere e l'altra falsa appunto perché contraria a quelle ritenute vere.

Della necessità od utilità di far venire un testimone contumace, di quella di esaminare un testimone infermo, dell' essere o no la prova generica sufficiente, del doversi rifare un parere di periti giudica la Corte. E con quali criterii? Con criterii di fatto, perchè nessuna legge dice o può dire quando un testimone, una nuova perizia sia necessaria, e quando no. E per venire ad una risoluzione in questi giudizii di puro fatto è presunto sapere quello che l'è impossibile, cioè lo stato dell'animo e dell' intelletto de' giurati intorno alla quistione. Il giudice, la Corte può ben dire, per conto suo, se la prova le pare completa, e la richiesta di ampliarla inutile, ma che lo dica a nome de'giurati, che non hanno fatto nè possono farne alcun cenno, parrebbe e sarebbe assurdo, se non si trovasse che la legge concede si a'giurati libertà di convincimento, ma quasi, le paia un'enorme concessione, essa medesima la viene menomando, e quasi negando.

Di che sono altri due argomenti: il riassunto delle prove fatte dal Presidente e la grande latitudine lasciata aʼgiudici nel misurare la pena, segnatamente in quelle materie ove i giurati è più facile che possano errare.

Contro quest' obbligo del riassunto imposto al Presidente si son fatte, com'è noto, gravi opposizioni e si è proposto di sopprimerlo; anche alla Camera ne fu discusso, e l'illustre nostro socio Pessina, mise in dubbio questo potere presidenziale in una memoria da lui letta all' Accademia.

Il ragionamento è facile: si è ben detto ed imposto al Presidente di guardarsi dal far trasparire, nel riassunto delle prove, la sua propria opinione. Ma nè il Presidente è, almeno si spera, un tronco d'albero da stare in mezzo ad una discussione, senza farsi un'idea propria della causa, nè, fermata questa, è possibile che sia un cosi valente oratore, un così esatto misuratore di parole, od anche di gesti, che non scovra, anche non avendone alcun proposito, questa sua opinione. Ma questa può imporsi a' giurati, e sottentrare illegalmente alla propria, dunque, si vieti al Presidente il riassunto.

Ma bisogna pur pensare se i giurati entrando nella camera delle loro deliberazioni col capo pieno di due prove, che hanno rumoreggiato a' loro orecchi, per cinque o sei ore di seguito, e sempre contraddicendosi e cozzanti fra loro, dell'imputato con l'accusa, co' testimonii che più lo toccano, de' testimonii fra loro, ed infine della requisitoria del P. M. e delle difese, è sicuro che senza una guida che ponga un po' di sintesi e di or

dine in quel caos, si possano formare un concetto chiaro della cosa.

È possibile, specialmente, quando sono in causa più imputati, ed ognuno di tre o cinque carichi diversi, e che il dibattimento abbia durato un mese, e si siano uditi centinaia di testimonii, è possibile che i giurati, senza aiuti, senza nessuna facilitazione ricordino alla fine del mese le prove, le testimonianze che raggiungono ognuno di quei molti imputati, moltiplicati pér tanti, per quanti sono i carichi di cui essi giurati debbono giudicare? In buona fede, nessuno può crederlo, ed a me l'esperienza di molti anni che ho esercitato le funzioni del P. M. presso le Corti di assisie, non mi ha provato il contrario. Però dico che non pure è utile, ma indispensabile questo riassunto del Presidente.

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E mi spavento tanto poco della possibile sua autorità sui giurati, che per me, manderei appunto lui a presiedere invece di un capo giurato insufficiente, il giuri nella finale decisione. In luogo di essere, come si vorrebbe, ma non si può, una macchinà, una statua, rassomiglierebbe molto al giudice che regola il giuri in Inghilterra, il quale giudice, senza uno scrupolo al mondo, manifesta, sostiene la sua opinione, combatte per essa con l'accusatore, con gli avvocati, e non lascia di far lunghe e severe ammonizioni a' giurati (1).

(1) Nel giurì inglese, il Giudice che lo presiede non è mai sospettato di potere, come agente del governo, avere interesse o premura o capriccio di falsare il verdetto. E però nel regolare la discussione, e nel fare il suo riassunto delle prove non pure non si teme, ma si desidera la sua direzione intorno alla prova che non può non esser più sincera, e più illuminata di quella degli altri.

E questo perchè il giurì in Inghilterra non ha mai pensato di essere un istituzione politica, od almeno una guarentigia politica. Gli basta essere guarenti

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