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Zenatti è dovuto alla rinata coltura classica; risponde cioè benissimo all'entusiasmo d'umanista che pervade e impronta tutto il panegirico del Boccaccio: a quel sentimento classico onde poco più in là egli parla delle divine opere di Virgilio, e insieme al bellissimo sentimento di adorazione per il Poeta che altrove gli fa pensare ciò che Dante sarebbe diventato se avesse avuto aiuti quant'ebbe traversie nella vita, e concludere ingenuamente: «io direi che egli fusse in terra divenuto uno Iddio. » Il trattatello boccaccesco fu certo diffuso a' suoi tempi, e anche più nel quattrocento; tuttavia correremmo oggi a un'altra esagerazione se dal 1555 volessimo riportare a dirittura al 1366 la fortuna del titolo famoso, facendola tutta dipendere da quel passo della Vita, che non è nemmeno in luogo molto evidente; se cioè al Boccaccio, con la priorità, volessimo anche attribuire il nuovo battesimo dell' alta Comedía, come, con epiteto veramente stabile e qualificativo, l'aveano chiamata i primi dantisti (cf. Bullettino, N. S., vol. I, p. 137, n. 1). Poco dopo il Boccaccio, Coluccio Salutati chiama il poeta « divinus vir », « divinissimus compatriota» e loda i « divinos eius versiculos »; quindi la tradizione del classico appellativo séguita nel quattrocento, e piuttosto intorno all'uomo che all'opera, ma ciò torna lo stesso, poichè nell'uso popolare il titolo si identificava col nome. Così arriviamo alle prime stampe: alla vendeliniana del 1477, con un divo nel sonetto finale; alla citata del 1481, col divino, che si ripete spesso nelle successive riproduzioni del commento landiniano; alla giuntina del 1506, col capitolo del Benivieni in lode di Dante e della Commedia « da lui divinamente composta »; finchè, lasciando una Divina Commedia di Venezia, per B. Stagnino, 1516, che par certo una fantasia bibliografica, la giolitina del 1555 conferma e consacra, incontestabilmente per la prima volta, quel titolo nel frontespizio. Al Dolce non daremo dunque un brevetto d'invenzione, e tanto più che allora del divino usavano e abusavan tutti e per tutto; ma nemmeno possiamo negargli il merito della felice trovata, grazie alla quale i vecchi titoli del dante dovettero cedere il campo. Non però senza contrasti e oscillazioni tra il vecchio e il nuovo, che durano nei frontespizi per tutto il seicento: solo col principio del secolo XVIII si può dire che la divina Commedia non abbia altri nomi; quindi anche la Commedia esce dall'uso comune. Quanto poi alle ragioni dell'epiteto, ci sembra ozioso il discutere se fosse dato sopra tutto con riguardo all'eccellenza del poema, o piuttosto al contenuto, onde già Iacopo di Dante chiamava opera divina la terza cantica; o, come voleva Domenico Rossetti, perchè del gran dramma Dio solo può essere spettatore; o per le qualità sovrumane che furono subito attribuite dal popolo al reduce dall' oltretomba; perchè tutti questi concetti probabilmente confluirono nel capace aggettivo, che bastò cosi agli entusiasmi del Boccaccio, come alla réclame libraria del Dolce e del suo editore.

S. MORPURgo.

NICOLA SCARANO, La saldezza delle ombre nella Divina Commedia. Nella Nuova Antologia del 1° settembre 1895; pp. 127-151.

La questione presentata qui sopra s'affacciò al pensiero di varî commentatori del Poema, antichi e moderni, sol quando si trovarono a trattare d'alcuni episodi, dove l'essenza vera dei corpi ombratili, che Dante attribuisce alle anime, esige spiegazione speciale: ma nessuno, se non forse il Bartoli (St. lett., VI, par. I, pp. 156-161), pensò di estendere metodicamente le sue osservazioni a tutti quanti i casi in cui l'autore dà alle ombre delle determinate qualità ed attitudini, per poi ricavarne una deduzione conclusiva. Questo si propone lo Scarano, e in tal senso la sua memoria può dirsi un utile complemento delle pagine del Bartoli ora citate, dalla conclusion delle quali in sostanza essa non si allontana. Dante medesimo, come è noto, stimò necessario in due luoghi del Purgatorio abbozzar prima (III, 25-33), e svolgere più tardi (XXV, 79-108) una netta teorica intorno alle ombre dei morti, che sono tanta parte della sua fantastica creazione. Si tratta dunque di muovere dalle parole del poeta e d'esaminare alla stregua delle medesime il vario atteggiamento degli spiriti, per decidere se la teorica generale sia stata rispettata in ogni caso, o per quali ragioni Dante abbia creduto di mancare ad essa in certe circostanze, contraddicendo insieme a sè stesso.

Questo delle contraddizioni dantesche è tale argomento che richiede somma ponderazione, per non lasciarci trascinare da preconcetti o da giudizi affrettati. Pure, se c'è punto intorno a cui il senso pratico ci porterebbe a conchiudere come conchiude l'autore che la contraddizione è patente e continua, questo è quello. Ma come mai, avanti di passare a speciali esemplificazioni del suo asserto, l'egregio A. non s'è proposto una pregiudiziale, tenendo conto del mondo in cui si svolge l'azione della Commedia? Mi spiego con un riscontro dantesco, che getta luce sulla nostra ricerca. Siamo nel Purgatorio, al balzo dei superbi, e Dante trova intagliata nel masso la scena maestosa di Traiano cinto dalla sua corte, che si sofferma e porge benigno orecchio ai piati della vedovella. La scena è piena di vita: noi ammiriamo soddisfatti. Ma la vedovella « parea dicer» qualche parola; Traiano parea risponderne alcun'altra; e la vedovella a sua volta parea seguitare nel dialogo col buon principe, fino a sei domande e risposte, lunghe abbastanza e precise. «< Piano! - dice la logica umana del lettore non così si può leggere sui nudi rilievi marmorei.... » All' obbiezione precorre la mirabile terzina:

Colui che mai non vide cosa nova

produsse esto visibile parlare

novello a noi, perchè qui non si trova.

E la logica si ritira sgominata, se non persuasa, al suo quia, di cui avrebbe dovuto fin da prima restarsene contenta!

Il caso delle ombre non è gran fatto diverso, anzi in massima coincide. È ben vero che « nell' Inferno le ombre sono quasi sempre rappresentate non fatte d'aria, ma di ossa e di polpe », e che ciò logicamente sembra contraddire con la loro genesi, insegnata da Stazio: ma possiamo proprio disgiungere la testimonianza di Stazio da quella parallela e integrante di Virgilio (III, 25), che corrisponde in tutto alla terzina del visibil parlare? Io non credo: e bene avrebbe fatto lo Sc. se avesse procurato d'aver sempre presenti, coi versi di Stazio, anche gli altri che pur cita:

A sofferir tormenti e caldi e gieli

simili corpi la virtù dispone,

che, come fa, non vuol che a noi si sveli

con le note terzine che seguono. È inutile.... l'idea di applicare un tormento corporeo di qualsiasi specie ad un'ombra propriamente detta ripugna alla logica umana; pure il tormento è essenziale al concetto dell'Inferno cristiano. La contraddizione non s'elimina adunque se non ammesso il sovrannaturale, che è detto così appunto perchè non si svela al lume del nostro intelletto. Eccoci pertanto arrivati al quia, davanti al quale l'ingegno del credente dovè piegarsi: o figurare i regni dei defunti come l'uomo, il cristiano, può concepirli, e allora dipingerli come Dante li dipinse: o rinunziare affatto al Poema sacro

Per la contraddizion, che no'l consente.

Ove ciò si conceda, i problemi riguardanti l'essenza delle ombre si semplificano e si presentano sott' altro aspetto, da quello che lo Sc. vorrebbe. Si riducono insomma alla domanda: dato il punto di partenza, testè spiegato, ha il Poeta seguita una maniera uniforme, nel rappresentarci gli spiriti? e se no, quando e perchè ha fatto altrimenti ? — A mio credere, contro l'avviso dello Sc., in tutto l'Inferno le ombre si atteggiano in pari modo; sono cioè considerate palpabili e, sotto l'azione dei tormenti, atte a condursi nella stessa guisa d'un uomo sottoposto alle medesime torture: quindi gettano sangue, quindi sospirano, quindi ardono nella pelle o fumano per febbre: condizioni tutte, si noti, senza le quali l'uomo non può assolutamente concepir sofferenza fisica e modo corporeo di pena. Possono anche, sempre allo scopo di subire acconcio. castigo, pesar tanto da affondare nella pegola spessa; mentre d'altra parte son così naturate, che non gravano nella barca di Flegias e non muovono i sassi su cui camminano.... Or chi non vede, in tutta questa serie d'osservazioni, un commento continuo alla citata terzina: « A sofferir tormenti e caldi e gieli... »? Vero è che lo Sc. insiste sopra un verso dell'Inferno, d'onde a suo avviso si apprende « la qualità vera delle ombre, la loro impalpabilità »; ed è quello:.... « ponevam le piante Sopra lor vanità che par persona ». Ma che cosa afferma questo verso, che lo ponga in contrapposizione con la teorica generale? Che le ombre siano

vanità, riguardo ai corpi terreni, è cosa nota. Che in questa occasione siano impalpabili, il verso non l'afferma di sicuro, giacchè l'idea fondamentale resta tuttavia ponevam le piante, nè si pone il piede sopra cosa impalpabile, che ad esso non possa resistere.

Nel Purgatorio la sostanza dell'invenzione non muterebbe per nulla, se l'uniformità non fosse interrotta da pochi episodi, i quali danno da pensare. Dante, che fu già in contatto con tanti spiriti infernali, non può stringere al petto Casella. Virgilio a sua volta può ben toccare Dante (ad es. gli lava il viso) e abbracciare Sordello, ma non riesce a fare altrettanto con Stazio. Bisogna riconoscere con lo Sc. che, a spiegarci appieno tutto questo, la teorica di Stazio, sia pure integrata dalle aggiunte di Virgilio, non basta più: o che almeno, nel sovrannaturale, non ci sembra di scorgere quella uniformità e continuità di fenomeni a cui ci eravamo abituati.

È questo il caso di vedere se non si fosse bene apposto l'acuto ingegno del Tommaseo in quell' affermazione che lo Sc. cita, combattendola; che cioè Dante figura « le ombre de' non reprobi ora palpabili ora no, come Cristo risorto: le ombre de' dannati palpabili sempre ». Non dimentichiamo in vero che ad una si fatta gradazione il Poeta sembra chiamarci espressamente, quando ci descrive evanescenti gli spiriti beati del cielo lunare. Ma se questa paresse una ricostruzione personale del critico, ricorriamo pure per darci ragione anche più piena di certi speciali episodi alle acute conclusioni a cui arriva lo Sc. nelle ultime pagine del suo scritto; purchè non si voglia appoggiar su di esse soltanto la macchina d'un poema disegnato su concetti da cui non dobbiamo distaccarci; e diciamo noi pure che « l'esempio di Virgilio, le Visioni del medioevo, le popolari fantasticherie, le esigenze dell'arte, l'essere insomma la contraddizione come vivente nella fervida immaginativa del popolo forse fino da quando fu pensato a un mondo di là, e accolta in opera d'ingegno come l'Eneide; tutto ciò deve bastare senz'altro a mostrarci come Dante, sottile e profondo intelletto, se ne lasciasse sedurre, non avesse troppi scrupoli ad accoglierla, non si preoccupasse degli scrupoli del lettore nel presentargliela. La natura stessa della visione, vaporosa e indefinita, e l'avervi inquadrata tanta realtà, lo lasciavan libero. di atteggiare la contraddizione come voleva e credeva (1). »

FLAMINIO PELLEGRINI.

(1) Dopo scritte queste righe ho avuto occasione di trattenermi per lettera sopra questo argomento col ch. prof. conte Francesco Cipolla, che mi offerse una persuasiva conferma alle parole del Tommaseo ricordate qui sopra; le quali per altro sembrano doversi estendere a tutte le ombre, non a quelle del Purgatorio soltanto. Abusando forse dell'amicizia del Cipolla, mi permetto d'offrire ai lettori il suo avviso in proposito: « Dante ebbe in questa sua concezione un << buon appoggio teologico in ciò che il Vangelo racconta di Cristo risorto.

G. FIORETTO, Prolegomeni allo studio della D. C., per la gioventú italiana. Città di Castello, Lapi, 1895; 16°, pag. 124 ed otto tav. per le « Corrispondenze simmetriche nella D. C. » (Della Collezione di opusc. ined. o rari, diretta da G. L. Passerini, il num. 25).

Assai utile, e non ai soli giovani italiani, riuscirà questo lavoro espositivo di quanto risguarda le nozioni cosmologiche degli antichi riflesse nel poema sacro e di quant'è essenziale preparazione a ben intendere << i tre regni degli spiriti ». La prima parte esamina « L'universo secondo gli antichi », cioè: le due regioni del mondo, il movimento delle sfere, i circoli della sfera celeste, i movimenti dei pianeti nello zodiaco, il quadrante della terra abitabile e i vari climi; si chiude con le modificazioni che alle notizie degli antichi arrecò il poeta per subordinare ogni cosa al proprio concetto teologico, che, del resto, non era a que' tempi tutto individuale di Dante. La parte seconda tratta dell'armonia in che l'ordinamento dell' Universo e della società umana si trova per rispetto all'ordinamento religioso e civile nella D. C.; e in quest'ultimo capitolo si riprende l'esame delle allegorie fondamentali del poema, ricorrendo per ispiegarle alle opere tutte del poeta, le cui parole sono qui <«< riportate con uno spirito un po' meno angusto che non abbia fatto il Giuliani, famoso, ma non fedele interprete di Dante ». Quivi, per quanto ingegnosa, riesce pur sempre poco perspicua la nuova interpretazione del verso << E sua nazion sarà tra feltro e feltro» (p. 36). Men dotta forse, ma piú pratica e più chiara è la parte terza del pregevole lavoro, ossia I tre regni degli spiriti », dove è tracciata la topografia di ciascuna cantica, seguita dal sistema penale per le prime due e dal premiativo per l'ultima. Né l'esame delle pene e dei premii è ricalcato sempre su quant'altri fin oggi ne scrisse, ma offre in una lodevole brevità acute osservazioni originali, relative specialmente a quelle corri

<< Cristo risorto ha un corpo, che somiglia ad ombra. Quando i due discepoli << venuti con lui ad Emmaus lo riconobbero, egli sparì da loro (Luca, XXIV, 31). << Nel luogo, ove stavano nascosti i discepoli per paura dei Giudei, entrò Cri<< sto due volte, a porte chiuse (Giov., XX, 19 e 26); eppure il suo corpo era << palpabile. Quand' Egli la prima volta entrò fra i discepoli, essi si spaventa<< rono, credendo di vedere uno spirito (Luca, XXIV, 37). Ma Egli, per provar << loro che non era uno spirito, ma che era vestito di vero corpo, fece che lo << toccassero: Palpate et videte, quia spiritus carnem et ossa non habet, sicut « me videtis habere. E poiché essi non si persuadevano ancora, si fece dar da << mangiare e mangiò. Quando entrò tra i discepoli la seconda volta, a Tommaso, << che non credeva, disse: Metti qua il tuo dito, e osserva le mani mie, e acco<< sta la tua mano e mettila nel mio costato, e non essere incredulo, ma fedele « (Giov., XX, 27). Quello di Cristo era un vero corpo corpo glorioso: - non << cosi quello delle ombre. Ciò non di meno l'analogia è perfetta, perchè il corpo « fittizio è atto a tutte le funzioni del vero corpo. >>

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