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questo? Che le notizie raccolte dal Cipolla e dal Casini, confrontate anche con altri passi d'antichi scrittori, provano come fosse press' a poco costante la confusione tra pardo, pantera, lince, lupo cerviero, lonza e leonza. A volte si direbbero cinque animali ben distinti, a volte si fondono in uno. Ciò posto, tenendo a base quel confronto virgiliano allegato sopra e che il Casini lascia troppo in dimenticanza, non mi parrebbe affatto inverosimile che Dante dipingesse la sua lonza con gli attributi fisici della pantera, da lui vista in Firenze prima del 1285, ma insieme riferisse ad essa i costumi ed il valore simbolico della lynx degli antichi, conosciuta nelle loro opere >>.

Pubblicatesi poi le lettere del Guarnerio e del Cipolla, un altro collaboratore nostro, il prof. E. G. PARODI, ci mandava il seguente annunzio:

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<< Nel dotto ed elegante torneo, combattutosi fra così valenti schermidori come il Cipolla, il Casini e il Guarnerio, eran due gli oggetti della contesa: quale allegoria fosse adombrata nella lonza dantesca, e di ciò si durerà a lungo a contendere, con molta sodisfazione degli odierni simbolisti; e quale origine dovesse attribuirsi a codesto vocabolo lonza, perchè dall'etimologia pareva potesse venir qualche luce anche al simbolo. Ma qui, dove il terreno è più solido, e le armi, fornite dalla scienza, sono provate e sicure, il Guarnerio riportò, senza troppa fatica, la palma; e chiunque abbia con tali armi anche una lontana dimestichezza, dovrà riconoscere che tutti i suoi colpi furono e bene assestati e decisivi. Cosicchè lonza è proprio da lyncea, vale a dire luncja, derivativo di lynx (cfr. linceo lince, nel Bestiario moralizzato, edito dal Monaci nei Rendic. dell'Accad. d. Lincei, 1889, fasc. 10 e 12, sonetto 20); e leonza n'è un'alterazione popolare, sul genere di liocorno e lionfante. Il che aveva veduto, in parte, anche il Cipolla; per la qual cosa non gli vorremo alcun male di certe altre sue etimologie, come gaio da varius, o dell'ultimo sforzo da lui tentato, per giustificare la pretesa riduzione di leonza a lonza, coll'analogia di Leonardo Lonardo; come se in lonza l'o non fosse accentato, e disaccentato invece in Leonardo tutto il dittongo. Una sola obbiezione avrebbero potuto muovere gli eruditi avversari al Guarnerio; domandandogli come mai sia passato in -- (senza dubbio aspro) il -cj- di * luncja, mentre nel fiorentino si risolve regolarmente in -ci-, Francia, lancia e tanti altri consimili. Al che egli, sicuro com'è del fatto suo, avrebbe certo risposto che abbiamo un cosiffatto z anche in calza; ma che sull'origine di tale doppio esito grammatici certant, grammatici, s'intende, del valore del Meyer-Lübke, e non sanno troppo che si dire. O forse gli sarebbe venuto lo stesso sospetto che a me, che si tratti di due voci non fiorentine in origine, di voci prese ad imprestito, mettiamo, da Lucca o da Pisa, ove si disse e si scrisse lanza e Franza; o venute magari da più lontano. Ad ogni modo codesto dubbio fonetico non potrebbe infirmare l'etimologia comunemente accolta, nè avrebbe troppo motivo di rallegrarsene il Casini, che va cercando intorno, come lonza non sia lynx.

<< Miglior motivo di sodisfazione potrebbe invece offrirgli il sapere, che la maculosa lynx di Virgilio è divenuta un lupo cerviero non solo nel buon Ciampolo degli Ugurgieri, ma anche nell'altra traduzione antica dell'Eneide, di cui ho discorso a pp. 323 sgg. della mia memoria su I Rifacimenti e le traduz. ital. dell' Eneide di Virgilio prima del Rinascimento (in Studi di filol. rom., II); e che nel volgarizzamento delle Metamorfosi, fatto dal Simintendi, leggesi in simil modo, I, 141: vane imagini di lupi cervieri, che risponde all'ovidiano: simu

lacraque inania lyncum, III, 668. Senonchè al dolce dovrebbe andar commisto un po' d'amaro, quand' egli, leggendo più oltre, trovasse, a p. 152, il latino tu bijugum pictis insignia frenis Colla premis lyncum, IV, 25, reso: Tu costringi i noboli colli delle pantere con dipinti freni; e, a p. 14 del vol. II, conantem figere ferro Lynca Ceres fecit, V, 657, tradotto: Ceres fece diventare colui, che gli volle forare il petto, una pantera. Addio dunque ogni sicura distinzione fra lince e lonza e pantera e lupo cerviero! Quest'ultimo vocabolo doveva ricorrere primo alla mente dei traduttori, perchè equiparato a lynx già dai latini e fornito quindi dai lessici; ma non già ch'essi volessero o sapessero distinguere nettamente fra le varie belve congeneri. E come da noi avvenne anche in Francia, ove once, fratello carnale di lonza, prese i più diversi aspetti; e chi lo confuse perfino con iena, come in un passo citato dal Goldstaub, a p. 202 dell'illustrazione al Bestiario tosco-veneto, pubblicato da lui e dal Wendriner; e chi se ne servì per tradurre proprio il lynx ovidiano, dandogli poi lupo cerviero per corrispondente, come il Rabelais, Pantagr. III, 59 (Moland): Pour laquelle trahison (Lyncus) fut par Ceres transformé en oince ou loup cervier; e chi infine lo adottò, con piena coscienza, per denominazione scientifica d'una specie indiana della lince, e si tratta del Buffon. Ed è proprio sicuro, domanderemo da ultimo, che le confusioni fatte dai nostri antichi sieno estranee ai moderni, e che tutti i naturalisti abbiano distinto esattamente tra l'once o felis uncia del Buffon, la pantera e il leopardo? ».

T. CASINI, Aneddoti e studi danteschi. Serie prima. Città di Castello, Lapi, 1895; 16o, pp. 100. (Collezione di Opuscoli danteschi, diretta da G. L. Passerini, n. 24). — È il primo di una serie di parecchi volumetti, nei quali il Casini promette di raccogliere i suoi scritti danteschi, già, per la maggior parte, pubblicati in vari periodici italiani. Uno di essi (La lonza di Dante) comparve in questo Bullettino (N. S., II, 116-120); d'un altro (La data di un codice della Commedia) fu qui reso conto dal prof. E. Rostagno (II, 119); Il commento di Benvenuto da Imola e Gli studi danteschi di Vittorio Imbriani sono recensioni volte più a dar un'immagine delle due opere che a discuterle o valutarle; più critico l'articolo Per la cronologia del « Convivio » e del « De vulgari eloquentia », in cui esamina la Cronologia delle Opere minori di Dante di N. Angeletti. Gli altri due studi del volumetto si riferiscono al Canzoniere; il primo è una ristampa dell'articolo già comparso nel Giornale storico della letteratura italiana (II, 334-43), dove furon editi per la prima volta i due componimenti danteschi, Se, Lippo, amico se' tu che mi leggi, e Lo meo servente core; nell'altro, inedito, dà il testo della ballata Deh nuvoletta (1. violetta) che in ombra d'Amore, quale ha potuto decifrarlo in un codice palimsesto della Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma (S. Onofrio, num. 129, già 342; sec. XIV) e quale ha saputo ricostituirlo sulle varie redazioni manoscritte della poesia, e domanda quindi: chi sarà mai la donna cui il poeta si volgeva, con passionato linguaggio, denominandola col gentile appellativo di Violetta? Sarà questo un nome fittizio, un senhal, sotto il quale si nasconda la gentilissima Beatrice; o sarà nome reale di effettiva persona, di un'altra donna insomma da aggiungere alla schiera delle amate di Dante?

DOTT. ANTONIO CANEPA, Nuove ricerche sulla Beatrice di Dante. Torino, Clausen, 1895; 8°, pp. 100.- Vuol provare che si deve vedere in Beatrice << una donna reale, e non una mera astrazione, un semplice simbolo », e perchè << nell'ideale

astratto propugnato dai seguaci dell'idealismo» intende di combattere « ogni astrazione che non abbia una base nella realtà di Beatrice », si fa a confutare partitamente le opinioni sostenute dal Bartoli nel IV e V volume della sua Storia della letteratura italiana. Cerca quindi di « dimostrare che il nome della donna amata da Dante è Beatrice, e se poi all'infuori del commento di Pietro di Dante, dell'asserzione del Boccaccio e degli altri biografi non si hanno per ora altri argomenti per poter identificar la Beatrice di Dante colla Bice Portinari, provato che non sono di alcuna importanza gli argomenti addotti dallo Scartazzini, dal Tartarini e da altri, che negano questa identità », crede « che si potrà ragionevolmente ritenere che la causa di Beatrice Portinari è tutt' altro che perduta ». Il lavoro reca poco di nuovo e di veramente utile allo scioglimento della questione della Beatrice dantesca.

ANTONIO LUBIN, Dante e gli astronomi italiani. Dante e la Donna gentile. Trieste, tip. Balestra, 1895; 8o, pp. 159. — Vuol di nuovo mostrare (cfr. Bull., N. S., I, 199), contro quello ch'io incidentalmente scrissi in un articolo del Giornale dantesco (a. I, quad. 1o), esser un assurdo che la lezione va in luogo di andava nel § 41 della Vita Nuova abbia dato causa vinta a coloro che vogliono quest'opera composta avanti l'anno 1300, e che la sostituzione della lezione Arabia a Italia nel § 30 abbia offerto, spostando la data della morte di Beatrice, una notevole prova in favore della realtà storica di essa. - Secondo il responso, provocato dall'A., dei più autorevoli astronomi italiani, la durata di una delle due rivoluzioni di Venere in quel cerchio che la fa parere serotina e mattutina in due diversi tempi, è di giorni 584 scarsi; quindi per l'aggiunta dei trenta mesi di studi filosofici da Dante intrapresi dopo l'apparizione della Donna gentile sino alla composizione della canzone Voi che intendendo, questa fu scritta non prima del febbraio 1296. Si svolge dipoi, a parere del Lubin, l'episodio della Donna gentile, che non fu una donna reale, ma la Filosofia in essa rappresentata; e nell'anno del Giubileo avviene il passaggio de' pellegrini: in quel tempo che molta gente va non indica un'usanza consueta annuale, ma un'usanza consueta di tutti i secoli, e corrisponde quindi all'espressione « nel tempo del Giubileo ». In quel medesimo anno Dante ha la mirabile visione che gli fa promettere di celebrar più solennemente Beatrice, e compone la Vita Nuova. - Ma (come fu già avvertito nel luogo citato del Bullettino) poichè quest'opera, essendo dedicata a Guido Cavalcanti, a cui si accenna più volte e sempre come a vivo, non può essere stata scritta dopo il 28 agosto dello stesso anno 1300, come poteva Dante, mentre durava ancora il Giubileo scrivere: AVVENNE nel tempo del Giubileo? La questione sulla durata della rivoluzione di Venere (nella quale son anch'io d'accordo col Lubin) non rientra nella questione della data della Vita Nuova per chi crede che il racconto di quest'opera non sia da illustrare con le affermazioni contradicenti e posteriori del Convivio. Quanto alla questione di lezione nel § 30, l'A. crede che la variante genuina sia Italia, e che quindi Beatrice morisse il nove giugno 1290, come per tanti secoli si è creduto fino a pochi anni addietro; ma io debbo confermare che Arabia mi risulta autentica in modo sicuro, e non soltanto per il criterio della lectio difficilior, come suppone il Lubin, ma per lo studio comparativo che ho fatto di tutti i manoscritti della Vita Nuova. M. BARBI.

Tavole dantesche ad uso delle scuole secondarie compilate dal prof. ADOLFO BARTOLI. 2a ediz. riveduta e accresciuta da Tommaso Casini. Firenze, G. C. Sansoni

edit., 1895; 8°, pp. x, tavv. 48 a stampa e 3 litografiche (L. 2). In questa nuova impressione delle note Tavole del Bartoli, il Casini ha cercato « che fossero emendate alcune sviste nella esposizione della contenenza del poema, e allargate alquanto e qua e là corrette, secondo i resultati di studi più recenti, le notizie biografiche dei personaggi danteschi »; e ha tolto via le indicazioni cronologiche, le quali essendo materia assai controversa, gli è parso più opportuno lasciar che siano date dagli insegnanti in relazione al commento da ciascuno seguíto.

Il prof. F. TORRACA ha discorso del nuovo Commento di G. Poletto anche nella Rassegna bibliograf. d. lett. ital., a. III, n. 9-10; ma mentre nel nostro Bullettino (a. II, fasc. 9-12) ha inteso principalmente a dimostrare quanta luce possa venire ai concetti e alla forma del Poeta dallo studiare la lingua, le opinioni, le allusioni al costume, piuttosto che nei tardi chiosatori, nelle prose e nei versi de' contemporanei; nella Rassegna raccoglie parecchie delle osservazioni fatte, leggendo il Poletto, circa l'illustrazione propriamente storica del poema, che a lui sembra la parte più debole o meno curata del commento. È un nuovo buon contributo che il Torraca dà all'illustrazione del Poema.

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CARLO DEL BALZO, Francesca da Rimini nell'arte e nella critica. Napoli, stab. tip. Tocco, 1895; 16o, pp. 51. - - È una conferenza fatta al Circolo filologico di Napoli, nella quale l'A. primieramente prende in esame le « opere d'arte letterarie» ispirate dalla gentile figura dantesca, e quindi si propone di riferire « ciò che la critica ha detto » intorno ad essa. Ma nella prima parte omette di ricordare non poche di quell'opere, e talune registrate anche dal Ferrazzi; nella seconda dopo alcune osservazioni fatte da critici « pedanti o visionari o sciocchi », riporta il giudizio del De Sanctis. Tutto qui; e dire che finisce col condannare la critica odierna « ridotta a pettegoleggiare di quisquilie »>!

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A. GHIGNONI,<« .siffatta pena, Che s'altra è maggio, nulla è sì spiacente.» Nella Cultura, Roma, 15-22 luglio 1895. · Come può Dante, parlando a Ciacco nel canto VI dell' Inferno, dire della pena da lui assegnata ai golosi, che s'altra è maggio, nulla è sì spiacente? La sua conoscenza dell' Inferno nel III canto non gli poteva permettere una comparazione esatta di esso cerchio con gli altri luoghi della valle feda: non è quindi da ammettersi affatto la comparazione esatta voluta trovar dagli interpreti nelle parole del poeta. A Dante il pensiero dice, che le pene andranno crescendo col crescere delle colpe; ma « il senso di spiacevolezza avuto dalle cose immediatamente presenti è così forte e insopportabile, che il poeta giudica passionatamente non poter crescere. Egli giudica male così, e lo sa benissimo Dante scrittore, tant'è vero che ci descriverà poi un accrescersi proprio della spiacenza; ma Dante scrittore scolpisce Dante uomo; e Dante uomo in quel caso sarebbe stato indotto dall'anima impaurita a un mezzo giudizio, o, a dir meglio, a un giudizio per metà falso ».

ALBINO ZENATTI, Il disdegno di Guido. Nella Cultura del 15-22 luglio 1895. Accetta di riferire il cui a Beatrice, ma contro l'opinione del Torraca (Bull., N. S., II, 142-4), osserva che il v. 68 dello stesso c. X (dicesti: EGLI EBBE? Non viv'EGLI ancora ?) prova che Guido ebbe a disdegno la persona, presso la quale Dante si reca attraversando l'Inferno; non ella disdegnò lui. Il senso letterale e positivo della disputata terzina gli par così pienamente chiaro; quanto agli ipotetici sensi allegorici, non crede che in ogni verso del poeta ce ne debba esser nascosto qualcuno.

R. MURARI, Questioni dantesche. Nel periodico L'Aurora, Correggio, 1895, a. I, n. 21. L'A. conviene pienamente col De Chiara (si veda qui addietro a p. 20) che nel canto de' suicidi molesta (v. 108) abbia significato attivo; ma non crede che ombra abbia altro significato che di anima separata dal corpo; nè ammette che al prun dell'ombra sia un modo elittico, per significare «<< il pruno dov'è rinchiusa l'ombra, cioè l'anima », parendogli che qui non s'abbia se non un regolarissimo, e quel che è più, un comunissimo genitivo di appartenenza. La preposizione di può sostituire con nei complementi di mezzo e di maniera, ma non in quelli di compagnia; d'altra parte neppure quanto al possibile pensiero di Dante l'interpretazione del De Chiara può reggere; « poichè, se come egli vuole, il significato della parola ombra non può essere quello di anima separata dal corpo, non può aver se non l'altro originario di oscurità prodotta dai corpi intercettanti la luce o quello, pur metaforico, e più assai lontano dal consueto, di simulacro od immagine. Non può, nel caso nostro, aver questo, poichè le spoglie de' suicidi di là dal suon dell'angelica tromba strascinate nella mesta selva saranno reali e non in simulacro. Non può aver il primo, perchè pur tralasciando la questione della tenebra nell'inferno dantesco, nel secondo girone del VII cerchio non può piover luce tale che i corpi, quando saranno appesi, dien ombra, poichè il bosco, non segnato da alcun sentiero, è tale che

Non han.... sterpi.... sì folti

Quelle fere selvagge che in odio hanno
Tra Cecina e Corneto i luoghi colti. »

Resta, a parere dell'A., che l' interpretazione comune del luogo dantesco preso in esame è ancor la più facile e la migliore: « I corpi dei suicidi saranno, dopo il giudizio finale, appesi ciascuno al pruno in cui è incarcerato lo spirito che fu loro tanto molesto da privarli di sè e della vita. »

IRENEO SANESI, La discendenza di Geri del Bello. Pistoia, tip. Cino dei Fratelli Bracali, 1895; 8°, pp. 15. Per le Nozze Flamini-Fanelli. Non era noto finora se Geri del Bello avesse mai avuto moglie e se da questa gli fossero nati figliuoli; anzi, non trovandosi menzionato alcuno della famiglia Del Bello nell'atto di pace fra gli Alighieri e i Sassetti, dell'anno 1342, parve ai critici poterne ragionevolmente dedurre che in detto anno nessuno sopravvivesse dei discendenti di Bello Alighieri. Invece da un documento del 13 giugno 1348, che il Sanesi dà in luce (ARCHIVIO DI STATO FIORENTINO, Capit. d' Orsanmichele 461, c. 135), ci è ora fatto conoscere il nome di ben tre figli e altrettante figlie del nostro Geri. In esso documento infatti domina Laurentia, filia condam Geri del Bello populi Sancti Florentii de Florentia et uxor olim Iacobi Simonis populi Sancti Felicis in piacza, et que hodie moratur in populo Sancti Florentii de Florentia, lascia, oltre a vari legati che non c'interessano, quindici fiorini d'oro domine Kare eius sorori et filie olim dicti Geri del Bello, altri quindici Isabette eius sorori et filie olim dicti Geri del Bello, centottanta Francische et Filippe eius nepotibus et filiabus Sandri eius fratris et filii olim dicti Geri del Bello, gli altri beni tutti, mobili e immobili, ai propri figliuoli Niccolò e Gherardo; ai quali nel caso che vengano a morire senza figli sostituisce Johannem, Benedictum et Sandrum fratres et filios olim dicti Geri per una metà, e per l'altra la Compagnia d'Orsanmichele. La mancanza di qualsiasi persona del ramo del Bello all'atto di pace del 1342 crede il Sanesi possa

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