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far meraviglia che un giureconsulto, anche valente, del secolo XIV, non sappia maneggiar bene il latino. Nel penultimo paragrafo (Lezioni ed opinioni varie) il Fiammazzo raccoglie parecchie varianti e lezioni controverse del poema, e passi in cui il commentatore riferisce diverse opinioni sopra la medesima cosa; varianti e passi, che, ricorrendo solo nella redazione latina, mostrano già, indipendentemente da altri accenni storici, essere questa posteriore di qualche tempo alla volgare del Lana. Nell'ultimo paragrafo (Citazioni) osserva specialmente che nel commento occorrono frequenti richiami a passi del poema, che manifestano nell'interprete una conoscenza piena e sicura della Commedia; osserva pure che il Da Rosciate alle citazioni già numerose del Lana ne aggiunge altre, e specialmente di autori più recenti.

Questo è in breve l'esame del commento, dal quale il Fiammazzo arriva alle seguenti conclusioni: primo, che « l'opera di Alberico (ce ne fa avvertiti lui stesso) (1) è per la massima parte un vero rifacimento di quella del Lana, come, senza offrirne le prove, affermava il Quadrio un secolo e mezzo fa»: secondo, che è probabile e qui il Fiammazzo non si esprime in termini perentori, ma solo per congettura che Alberico abbia cominciato molto presto a tradurre il commento Lanèo, « man mano forse che questo apparve, aggiungendovi fin d'allora quanto v'è del Bambaglioli; di poi, consacrandogli tutti i brevi ozi dell'operosa sua vita, abbia continuato sempre a correggere, ampliare e colorire il proprio lavoro giovanile, specialmente in ciò che al genio di lui meglio rispondeva. » Ora, su queste conclusioni, e ritornando all'uopo sull'esame del commento, mi permetta l'egregio prof. Fiammazzo qualche osservazione. Nel codice Grumelli il commento Lanèo, nessuno potrebbe dubitarne ormai, è notevolmente accresciuto e rimaneggiato: è un vero rifacimento, non una semplice traduzione. Ma tutto quello che di nuovo troviamo in esso è da attribuirsi ad Alberico Da Rosciate? Il Fiammazzo crede di no. Che accanto all'opera di Alberico egli vi scorga delle interpolazioni, delle aggiunte eterogenee, lo fa sentire per tutto l'esame, poi lo dice esplicitamente nella conclusione, quando, dopo aver espressa l'opinione che due sieno le redazioni del commento, aggiunge che la seconda « ci sarebbe conservata, fra la molta parte spuria, nell'originaria integrità, dal codice bergamasco. Ma qual'è questa « molta parte spuria »? La domanda non è indifferente, ed io credo anzi che non sia possibile arrivare a delle conclusioni sicure, nè quanto al valore del commento, nè quanto all'età e alle sue relazioni con altri commenti, se prima non si risponda a questa domanda. Il che d'altronde non è facile.

(1) Il Fiammazzo cita la didascalia colla quale si chiude il commento; avrebbe potuto ricordare anche il passo da lui accennato indietro (paragr. I) in cui Alberico, cominciando il proemio del Purgatorio, scrive: « ...... de quo Purgatorio quantum in scriptis reperii, ultra ea que dicit auctor, breviter subicio ».

La prima via a tentarsi, e l'unica, a parer mio, che potrebbe condurre a dei risultati attendibili, sarebbe stata quella di un attento confronto dei codici che contengono o tutto o in parte il commento; ma a questa via il Fiammazzo rinunzia fin da principio. «Non si cerchi però qui, scrive egli nell'introduzione, un raffronto delle varie redazioni che i codici. diversi presentano: basti per ora sapere che coteste varietà, fra il codice Grumelli e, credo, gli altri tutti, per la prima cantica sono sostanziali. » (1) E si capisce perchè non tenti questo raffronto: dei sei manoscritti, oltre il bergamasco, contenenti il commento, tre si trovano a Parigi, uno ad Oxford, il quinto a Firenze, il sesto a Roma; una condizione disperata per chi volesse farne uno studio comparativo! Ad ogni modo il Fiammazzo si prova a separare il grano dal loglio, la parte del commento, che secondo lui è autentica, dalla spuria: ma mancandogli l'aiuto dei codici, egli è costretto ad affidarsi a criteri affatto soggettivi, quindi molto pericolosi. Nel paragrafo VI, dove prende in esame la parte narrativa del commento egli scrive: « Da che parte dovremo rifarci per trattare della vera e propria leggenda? Quivi infatti, più che rispetto a verun altro genere di chiose, si distesero nelle aggiunte alla traduzione di Alberico tutti coloro che commisero, o quegli stessi anzi che trassero, le copie successive del commento. » E subito dopo aggiunge: << Non può essere tutta di lui (Alberico) la larghissima parte fatta in questo codice alla Bibbia »; e più avanti: «< Nè Alberico deve avere egli stesso introdotto nel XXXIII dell'Inferno, tal quale è nel codice.... la leggenda lunghissima fra tutte, relativa a Sant' Albano re d'Ungheria.... nè le altre leggende sull' efficacia dell' Ave Maria ». « E nemmeno è aggiunto al Lanèo da Alberico tutto quanto nel codice Grumelli riguarda l'antica tradizione assira, la troiana e greca, amplissime fra tutte e sparse per tutta la prima cantica, la romana che abbiamo in parte veduta ripetersi spesso, come la fiorentina che si rifà più volte da Elettra moglie di Atlante che fondò Fiesole. »

A tutte queste negazioni del Fiammazzo noi sentiamo il bisogno di mettere dei punti interrogativi: perchè non può avere il Da Rosciate introdotto i lunghi passi biblici? perchè non le leggende medievali o le tradizioni assire, le troiane, le greche e romane, mentre vediamo che altri commentatori si fermano volentieri sulla leggenda, e che il Lana stesso, tradotto dal Da Rosciate, lo portava facilmente in questo campo? Veramente qui il Fiammazzo ricorre ad un altro manoscritto, al Laurenziano, che manca, dic' egli, di tutte queste leggende sacre o profane, il qual fatto prova «< ch'esse devono aversi quali interpolazioni di più tarda età, e che nessun'altra consimile del codice Grumelli va ascritta ad Alberico»:

(1) Veramente egli ricorre più volte ai codici, e specialmente al Laurenziano, ma non basta per sciogliere molte questioni, per le quali sarebbe occorso un esame più compiuto dei manoscritti.

ma il codice Laurenziano ci porge una lezione che è evidentemente compendiata, come il Fiammazzo stesso osserva, e come appare manifesto dai pochi saggi che di quel codice riferisce. Così avesse potuto assicurarci che anche negli altri codici mancano queste leggende, che forse avrebbe in ciò troyato un valido appoggio alle sue congetture.

Nel paragrafo seguente asserisce che « molti errori speciali del nostro codice possono attribuirsi ad un'intelligenza assai inferiore a quella riconosciuta ad Alberico Da Rosciate »; ma egli sa meglio di me quanti errori anche grossolani s'incontrano nei commenti antichi, pure ne' migliori, e non negli antichi solamente. Cosi quando crede di dover relegare fra la parte spuria del codice « molti passi che sembrano dettati dal pergamo, come le apostrofi contro la gola, la lussuria, la sodomia, e l'invettiva contro i baccanali » (paragr. IX), potrà essere più che convinto di quanto asserisce, ma noi non riusciamo a capire come non possano essere di Alberico Da Rosciate queste apostrofi ed invettive, mentre ne incontriamo di simili in altri commenti, e perfino in quello del Boccaccio. Insomma, questa è una critica che si fonda troppo sopra criteri soggettivi, quindi pericolosa; e lo stesso Fiammazzo deve aver avuto motivo di dubitarne qualche volta. Di fatti, esaminando il proemio generale del Purgatorio egli resta incerto se ritenerlo tutto autentico (« non giurerei che fosse tutto intero opera di Alberico » scrive in nota) e trovandovi, accanto ad un'altra leggenda medievale, tutt'intera quella del Purgatorio di S. Patrizio, la relegherebbe volentieri fra le interpolazioni; ma ecco che nel Dictionarium Juris del Da Rosciate trova citato il proemio al Purgatorio e ricordata in particolare la leggenda di S. Patrizio.

Anche a proposito della probabile età del commento e sull'ipotesi della doppia redazione ci sarebbe qualche cosa da dire. Posto che nel commento vi sia una parte spuria, può sempre nascere il dubbio che anche i passi sui quali ci fondiamo per determinarne l'età, siano interpolati; e in questa incertezza è meglio fondarci sopra dati esterni al commento, che per fortuna qui non mancano. L' Inferno del codice Laurenziano scritto nel 1356, ci fa certi che il commento è anteriore a questa data; se poi si potesse dimostrare che la traduzione del commento Lanèo all'Inferno del codice Bodleiano d'Oxford, che si dà per fatto da un Guglielmo Bernardi nel 1349, fosse, come a me pare dai pochi raffronti fatti, derivata o tutta o in parte da quella del Da Rosciate, allora la compilazione del commento sarebbe da ritenersi anteriore al 1349; e posteriore al 1343, quando si tenga conto degli accenni storici notati dal Fiammazzo. Or bene, nello stato attuale della questione, io credo che il tempo cui con maggiore probabilità si possa assegnare la compilazione del commento, sia appunto tra il 1343 e il 1349. Di un'altra redazione anteriore a questa data non mi pare che si abbiano per ora prove sufficienti; nè il fatto, notato già dal Witte ed ora dal Fiammazzo, che il Da Rosciate si sottoscrive juris peritus e non doctor, può avere un va

lore attendibile, se prima non si mette in chiaro in che tempo cominciasse il Da Rosciate a chiamarsi doctor.

Queste le osservazioni che, dietro un attento esame dello studio del prof. Fiammazzo, mi parve di dover fare; ma dopo tutto mi piace ripetere, che gli studiosi delle cose dantesche faranno lieta accoglienza a questo lavoro, il quale ci dà modo di conoscere il commento di Alberico Da Rosciate molto meglio di quello che non si conoscesse finora. LUIGI ROCCA.

EMIL SULGER-GEBING, Dante in der deutschen Litteratur bis zum Erscheinen der ersten vollständigen Übersetzung der Divina Commedia (1767/69). Nella Zeitschrift f. vergleichende Litteraturgeschichte, N. F., B. VIII (1895), 221-253 e 453-479.

La memoria del Dott. Sulger-Gebing si propone di completare quella parte del Dante in Germania dello Scartazzini, che è trattata più rapidamente, la parte cioè che riguarda i "Precursori,,, se cosi vogliamo chiamarli, della splendida schiera dei moderni dantisti tedeschi. E quantunque ad un lettore italiano, che non abbia una speciale coltura, i parecchi nomi, ch'egli aggiunge alla lista dello Scartazzini, non possano, se non di rado, suscitare nell'animo un vivace interessamento, non sarà inutile additarli nel Bullettino all' attenzione degli studiosi; poichè l'insieme di essi ha una sua importanza, e si aggiunge infine una linea alla storia delle relazioni letterarie fra l'Italia e la Germania, e più d'una linea alla storia della fortuna di Dante nei paesi stranieri.

La memoria è suddivisa in quattro capitoli, e la materia dei primi due riguarda Le più antiche menzioni di Dante e Dante come politico e avversario del papato. Sapevamo dal Witte e dallo Scartazzini, che il nostro poeta fu per la prima volta nominato pubblicamente in Germania, commentato e tradotto, al concilio di Costanza per opera di Giovanni Bertoldi da Serravalle, vescovo di Fermo (1); ma dagli anni 1416-17 conveniva poi, secondo i due dantisti, scendere fino al 1493, per trovare qualche altra menzione di lui, cioè fino alla stampa lipsiense del trattato De dignitatibus di Bartolo da Sassoferrato. Il S.-G. sposta di qualche anno codesta data, mostrando come un' altra stampa, e di un altro italiano, abbia fin dal 1484 portato in Germania il nome del grande poeta; l'edizione cioè del Chronicon sive opus historiarum di sant'Antonino, arcivescovo di Firenze, fatta in tre grossi volumi nella città di Norimberga. Nel terzo volume infatti è dedicato a Dante un intero paragrafo, il secondo del Tit. XXI: « Circa tempus illud floruit Dantes de Allegheriis Florentinus poeta insignis; qui edidit opus egregium, cui

(1) Il commento del Bertoldi è ora pubblicato per intero (Prato, Giachetti, 1891), il che è forse sfuggito al S.-G. Si veda anche l'articolo del NoVATI, Nuovi Documenti sopra Frate Giovanni da Serravalle, in Bullettino, S. I, num. 7.

simile in vulgari non habetur, eximiæ scientiæ et eloquentiæ maternalis ». Tocca della divisione del poema, e nota poi che del limbo dei bambini Dante non parla, forse per le diverse opinioni, che si hanno intorno allo stato delle anime loro. Senonchè il buon vescovo fiorentino è stato tratto in inganno dalle parole, un po' oscure, del quarto canto: Ch' ei non peccaro, e s'elli hanno mercedi, ecc.; ma noi sappiamo pel confronto dei versi 28-33 del canto settimo del Purgatorio, che Dante al limbo dei bambini credeva, e possiamo concluderne che essi sono considerati nelle parole citate Ch' ei non peccaro, mentre la seconda parte del verso e s'elli ebber mercedi, si riferisce piuttosto ai giusti, nati dopo la venuta di Cristo, che non conobbero il vero Dio, come sarebbe il Saladino. Senonchè, secondo sant' Antonino, Dante avrebbe errato non poco, mettendo << in campis elisiis..., non in gloria, tamen sine poena » le anime dei grandi pagani; il che è contro la nostra fede, che li vuole all'Inferno, « ubi nullus ordo, sed sempiternus horror inhabitat penarum immensarum ». E quelli che vogliono difendere Dante, dicendo ch'egli segui, forse contro la propria persuasione, l'opinione che gli pareva più poeticamente felice, non considerano che il suo poema « cum.... sit in vulgari compositus et a vulgaribus frequentata lectio ejus et idiotis, propter dulcedinem richimorum (sic) et verborum elegantiam » può indurre codeste genti del popolo facilmente in errore. Neppur è contento ch' egli abbia messo Celestino V all' Inferno. Ma la sua dialettica si rivolge soprattutto contro il De Monarchia, e la dipendenza dell' impero dal papato è rappresentata colla solita figura della luna e del sole (1). Il S.-G. insiste giustamente sul fatto che, e in questa opera e nel libro di Bartolo, Dante è riguardato in primissimo luogo come avversario del papato; il che contribui a metterlo in buona luce presso i protestanti di Germania e a farlo considerare come uno dei loro precursori. Cosi per tutto il secolo XVI in Germania non si cura o non si conosce che il De Monarchia, col necessario complemento delle più fiere terzine del poema contro la Chiesa di Roma; e l'ammirazione per Dante prende un colore quasi medievale, rivolgendosi al sapiente e non al poeta.

Lo spazio tra il 1493 e il 1556, lasciato vuoto dallo Scartazzini, è riempiuto dal nostro A. con qualche nuova notizia. Giovanni Trithemius, l'abate di Sponheim, nel suo Liber de scriptoribus ecclesiasticis, stampato a Basilea nel 1494, concede un posto anche a Dante, attingendo, come pare, al Supplimentum Chronicarum di Iacopo Bergomate, uscito in luce a Venezia due anni innanzi; e attingendovi, convien dire, con poca cura, giacchè mette, fra gli ospiti di Dante, anche il re d'Aragona. Le opere del

(1) Il passo di sant' Antonino è già ricordato dallo Spondano, cfr. TORRI, Delle Prose e poesie liriche di Dante Allighieri, vol. III (Livorno, 1845), p. 130. Senonchè il Torri, avendone fatto ricerca nella Summa Theologica del vescovo fiorentino, non potè naturalmente rinvenirlo; ib. in nota.

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