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SOCIETÀ DANTESCA ITALIANA

(FIRENZE)

La Società Dantesca Italiana, costituita per accomunare gli studi dei dotti italiani e stranieri intorno a Dante e per renderli più divulgati ed efficaci, intende ora principalmente a un'edizione critica delle opere del sommo Poeta..

Il Comitato centrale ha sede in Firenze (Via della Dogana, 1): vi sono o possono essere Comitati regionali, dipendenti dal centrale, dovunque, nella penisola o all'estero, si trovi un numero di Soci sufficiente a costituirli. Dove non sono costituiti i Comitati regionali, i Soci corrispondono direttamente colla Presidenza del Comitato centrale.

La quota annua da pagarsi da ciascun Socio è L. 10; e possono esser Soci anche gli Enti (Istituti d'istruzione, Biblioteche, Municipi, ecc.) e tutti quelli, che pur non essendo speciali cultori di Dante, vogliano concorrere ad onorare con questo mezzo il sommo Poeta. Ricevono il nome di Soci promotori coloro che, oltre alla quota annua danno alla Società per una sola volta lire cento almeno; il nome di benemeriti coloro che per una sola volta le facciano una largizione di danaro, non inferiore a cinquecento lire, ovvero qualche dono di gran valore, specialmente in libri od in opere d'arte, che comecchessia si riferiscano a Dante. Il socio benemerito non è tenuto alla quota annua.

I.Soci hanno diritto a un esemplare di quelle pubblicazioni che vengono fatte coi fondi sociali. Quanto alle altre che la Società abbia promosse ed aiutate, sarà loro concesso, nell'acquisto, il maggior vantaggio possibile.

Gli Autori e gli editori di studi danteschi sono pregati di favorirne possibilmente due copie alla Direzione del Bullettino; i direttori di riviste, di fare il cambio con questo, o almeno di mandare i numeri che contengano qualche articolo riferentesi a Dante.

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Sommario: T. CASINI: G. Crocioni, Il dottrinale di Iacopo Alighieri. - FL. PELLEGRINI: A. Scrocca, Il sistema dantesco dei cieli e delle loro influenze. Annunzi bibliografici (Si parla di pubblicazioni varie di T. Llewelyn, G. Finali, E. Lamma, U. Marchesini). - Atti e Comunicazioni della Società.

GIOVANNI CROCIONI, Il Dottrinale di Iacopo Alighieri. Edizione critica con note e uno studio preliminare. Città di Castello, S. Lapi ed. tip., 1895; in-16°, pp. 335 (Collezione di Opuscoli danteschi inediti o rari. diretta da G. L. PASSERINI, N. 26-27-28).

È il « primo lavoro » di un giovine filologo, e come tale merita, non dirò indulgenza di giudizio, ma grandissima lode. Fermare un testo corretto del Dottrinale di Iacopo Alighieri era impresa modesta, ma non senza difficoltà, e il Crocioni vi si è accinto con buona preparazione di metodo e di materia: traspare qua e là nello studio preliminare un po' eccessivo l'amore per il suo argomento, che gli ha fatto esagerare l'importanza del poemetto sino a trovarlo mirabile di struttura e d'invenzione; e manifesta è in più luoghi una specie di inesperienza critica, per cui il Crocioni sembra meravigliarsi e non sa rendersi conto di circostanze molto agevoli a intendere (1), o fa troppo lungo cammino di ragionamenti e deduzioni per giungere a conclusioni assai ovvie, o troppo da vicino ormeggia anche nel fraseggiare altri critici che lo hanno preceduto nel parlar del suo autore. Ma dobbiam tener conto che questo è un primo lavoro, e come tale è più che una promessa; poiché c'è raccolto tutto quanto, o quasi, ciò che può essere utile allo studio del Dottrinale, e di questo singolar poemetto, che si ricollega con le primitive dichiarazioni della Commedia, è dato qui un testo per gran parte rimondo dagli spropositi

(1) È per esempio molto ovvio che la supposta stampa del Dottrinale col nome di Bosone da Gubbio cercata inutilmente dal Crocioni nelle Deliciae eruditorum del Lami si riduce a un equivoco del Pelli, che scambiò il Dottrinale con la esposizione della Divina Commedia in undici capitoli ternari edita dal Raffaelli nel vol. XVII delle Deliciae e malamente attribuita a Bosone.

3. Bull. Soc. Dantesca

infiniti che deturpavano la prima ed unica stampa palermitana del marchese di Villarosa. Dobbiamo dunque rallegrarci col Crocioni, e augurare che egli ci dia un lavoro anche più perfetto, nell' altro volume ch'ei promette sulla Vita e poesie minori di Iacopo Alighieri. E pensatamente non gli dico che ce lo dia presto, perché sarà bene che non si lasci adescare dal lieto successo di questo suo primo lavoro, si invece proceda riposatamente alle molte né sempre facili indagini che su codesto argomento gli saranno necessarie: per dargli un'idea delle difficoltà, dirò al Crocioni che di questi giorni appunto m'è venuto alle mani un buon manipolo di documenti ravennati della prima metà del secolo XIV, nei quali è fatta frequente menzione di un Iacopo Alighieri, e quel che più importa, insieme con un Pietro e altri dello stesso casato; ma, sebbene mi fossi in sulle prime tutto rallegrato parendomi d'aver trovata la fonte dell'oro per la biografia dantesca, ho dovuto a poco a poco convincermi che assai probabilmente non si tratta dei figliuoli del gran poeta, sí invece di loro omonimi e parenti del ramo ferrarese, onde in antico era uscita la donna di Cacciaguida. Dunque stia attento il Crocioni, e veda di vagliare accuratamente tutto ciò che va, anche per le stampe, col nome di Iacopo; poiché le sorprese potrebbero non mancare: e quando ci darà la biografia e le minori poesie del figlio di Dante, sia lavoro cosí riposato e compiuto da non aver bisogno di giunte e di rettifiche.

Lo studio premesso dal Crocioni al Dottrinale è di sei capitoli di varia misura: brevissimi i primi sulla storia e bibliografia, sulla struttura, sull'arte, sull'intento del poemetto; più ampio di tutti il quinto, ove sono esposte le ricerche sulle sue fonti; di giusta sobrietà l'ultimo, concernente i mezzi e i modi dell'edizione. Rispetto alla struttura formale del poemetto, il Crocioni fa buone osservazioni per mostrare come si svolga sovra il concetto di una simmetria numerica, sulla base del tre; manifesto ricordo delle dottrine di Dante: ma qui sarebbe stata da esaminare una questione, che l'editore accenna senza risolverla, circa le mancanze da lui avvertite alla fine dei cap. IX e XXXI; poiché senza una dimostrazione più esauriente, si può restare incerti se a quei luoghi manchino effettivamente sei versi, o se non si abbia piuttosto una deviazione dalla norma costante di formar capitoli di sessanta versi. E quanto al metro, non s'intende bene che voglia dire il Crocioni quando osserva che è affine, ma non identico a quello del Tesoretto: certo l'identità è assoluta, se si consideri l'elemento costitutore che è il distico monorimo settenario; con questo che Iacopo raccoglie sempre a tre a tre i suoi distici in modo che ad ogni sei versi si abbia la fine del periodo, o almeno una fortissima pausa del senso: si che vera stanza (e peggio è a dir sestina), in senso metrico, non ha luogo, ma solo una successione di distici che di tre in tre formano un periodo logico a sé. Piuttosto era da avvertire che Iacopo si allontanò dall'abitudine degli altri antichi, i quali collegavano un distico all' altro facendo in modo che il secondo verso di ciascuno co

stituisse unità concettuale col primo verso del seguente; ciò che nel Dottrinale non accade, né poteva essere, perché appunto allo svolgimento logico erano dati i confini piú ampli di tre distici.

Passo sopra a ciò che il Crocioni dice dell'arte del Dottrinale; povera e meschinissima arte, se pur le si voglia dar questo nome, nella quale non so come possa altri sentire un sapore di latinità velata », », che per di più è detta « frutto del risveglio degli studi classici »: misera latinità è codesta di Iacopo, procedente angolosa e scura dai testi astrologici e filosofici onde egli s'ingegnò derivar la materia delle sue sconnesse rime; ma che ha mai da fare con il classicismo rinascente? Più lungo discorso meriterebbero i particolari tecnici, che pur il Crocioni accenna, delle rime imperfette e dei versi irregolari. L'imperfezione delle rime per altro è tutt'altro che accertata: apparente in più d'un luogo (fixi: eclipsi XIV 47, antichi: epicicli XIII 5, temesi: credesi XLVI 7), poiché con facili emendazioni si può restituire la corrispondenza piena (epicichi, cfr. XIII 50, xv 3; temessi e credessi con un dei codici), in alcuni cade su parole sdrucciole (II 37, XVIII 21, XXIV 13; vIII 45; xx 33; XXI 53), è molto dubbiosa in un altro (celeste: terrestre vi 3), e solamente in due casi è vera assonanza (mezo: terzo VI 41, IX 19, x 25; chiareza: terza VIII 35); piccole deviazioni, e da non meravigliare, in tanta copia di svariatissime rime, e avanzi certamente dell'arte più antica del dugento, dagli esempi della quale Iacopo Alighieri, pur avendo innanzi la mirabile sorella sua, la Commedia, non seppe svincolarsi affatto. Singolare poi è il trovar congiunto all'assonanza arcaica l'uso tutto moderno, nel primo trecento, delle rime sdrucciole, che ricorrono, se bene ho contato, in una cinquantina di casi che, data l'estensione del poemetto, non sono moltissimi, ma son pur sempre assai più che non occorrano nelle altre composizioni rimate del tempo. Quanto alla tecnica dei versi, il Crocioni ne trova spesso dei zoppicanti o ribelli addirittura alla prosodia e alla metrica ». Lasciamo. la prosodia; ma a quale metrica son ribelli cotesti poveri versi di Iacopo? Forse a quella dei trattatisti del secolo XIX, che il settenario hanno costretto entro una costituzione ritmica di confini assai angusti; ma gli antichi consentirono anche a questo verso assai maggior libertà che non si creda, tanta libertà anzi che per essi fu verso regolare qualsiasi serie di sette sillabe, pur che oltre alla sesta fosse accentata una delle prime tre, dovunque cadesse poi la cesura: e nel Dottrinale anzi c'è uniformità monotona, né l'autore sembra essersi saputo giovare della gran libertà concedutagli dalle abitudini poetiche dei suoi contemporanei per snodare e svariare le sue filastrocche. Versi manchevoli, pur che si facciano qua e là ovvie restituzioni, non ne trovo; se non forse uno, dove per altro, a pensarci bene, si vede che va aggiunta una sillaba: XLII 30, [fin] tanto che l'aguaglia: versi eccedenti n' occorrono parecchi nella lezione dei codici, e l'editore ha fatto bene a ricondurli entro i debiti confini con facili emendazioni; e dove gli ha lasciati stare, altri potrà sanarli molto.

agevolmente. L'ipermetria dei poeti antichi è più che altro un sogno di chi crede piú ai codici che alla ragione propria; mi piace di vedere che il Crocioni non sia sdrucciolato sul cammino apertogli innanzi.

Nel capitolo sull' intento del Dottrinale – « render popolare la cultura », è troppo generica enunciazione sarebbe stato appropriato il discutere, più tosto che altrove come fa il Crocioni, la questione sollevata da un dubbio del Gaspary, che Iacopo cioè possa aver mirato a contrapporre il suo poemetto all' Acerba dell'Ascolano. Il Castelli, non senza qualche po' di esagerazione, tramutò in certezza il sospetto del dotto e acuto tedesco; il riavvicinamento del quale è pur sempre molto osservabile, né credo che il Crocioni abbia sciolto il nodo con quelle sue ragioni troppo ingenue, che Cecco era già morto, che la materia dei due poemi non è proprio la stessa, che nel Dottrinale l'Ascolano non è nominato (1) ecc. Bisogna esser discreti nell' intendere il dubbio del Gaspary, e guardando le cose senza preconcetto si vedrà che non fu senza fondamento. Gioverebbe a chiarire anche tale questione la ricerca delle fonti di Iacopo; sul quale argomento il Crocioni si distende per molte pagine, senza venire per altro a risultati molto conclusivi: egli fa dei raffronti spesse volte felici, ma la corrispondenza diretta, quella che costituisce l'uso di una fonte nel vero senso della parola, manca quasi sempre. Né io credo che Iacopo abbia avuto innanzi molti libri da trarne fuori la materia alle sue rime; si piuttosto ch' egli siasi largamente valso di qualche compilazione, di uso comune ai suoi tempi, la quale forse si potrebbe rintracciare chi avesse agio e voglia a ciò. Fuor d'ogni probabilità poi mi sembra che egli fosse creatore di teorie nuove ed ardite (cfr. Crocioni, p. 34) in fatto di scienza; e se qualche tratto vi ha, di cui non siasi fatto riscontro, non significa già che vi si abbia a vedere originalità di dottrina e indipendenza personale dalla tradizione scientifica del tempo, perché troppo poco noi ne sappiamo e ne intendiamo oggi, specialmente in materia di cosmografia e di astrologia. Il Crocioni corre un po' troppo a conclusioni che a lui paiono, ma non sono certe; come quando a proposito della settima bellezza muliebre pone derivati dal poema francese di Florio e Biancofiore i versi, LII 39-40: E le labbra vermiglie Con grossette somiglie. Sono le due qualità tradizionalmente celebrate delle labbra: Labia rotunda atque rubicunda, avevano cantato i poeti dei Carmina burana (ed. Schmeller, 118); Labra tument modicum roseo perfuso colore, l'autore del Liber Faceti; e cosí giú giú ai poeti nostri del trecento, ai trattatisti d'amore del cinquecento. Sempre adunque il colore vermiglio e la forma gentilmente tondeggiante, tumida; che è l'idea espressa da Iacopo colla parola grossette, gli ingrossamenti delicati delle labbra. Or che ha a vedere questo sostantivo con l'aggettivo del verso francese: Les levres por baiser

(1) Un'allusione a Cecco d'Ascoli potrebbe essere nel cap. V 45 e segg.

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