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LX 13 e segg. spiego: E ammetti che nell'ampiezza celeste si svolga il moto velocissimo, quanto puoi argomentare da ciò che vedi in terra: le emendazioni suggerite dal C. non mi par che concorrano a chiarire il senso di questi oscurissimi versi. T. CASINI.

ALBERTO SCROCCA, Il sistema dantesco dei cieli e delle loro influenze. Esposizione e Comento. Napoli, tip. G. Errico e F., 1895; in-8, pp. VIII-78. Un'esposizione sistematica del pensiero di Dante circa l'essere dei cieli, la loro dipendenza dalle gerarchie angeliche, il loro influsso sulle cose terrene, è indispensabile esordio alla lettura della Commedia e massime della terza cantica. A questa necessità risponde felicemente il libretto di cui parliamo, in duplice maniera, secondo le due parti in cui è diviso. Nella prima e più breve (pp. 3-18) l'autore si propone soltanto di riferire e coordinare le idee del Poeta intorno ai punti seguenti: Origine delle cose universali Natura ed ordine delle cose create Corpi celesti e corpi terrestri - Degli angeli, o creature di puro atto Corrispondenza dei cieli agli angeli - Del governo dei cieli Della influenza dei cieli. Ordine, chiarezza, esatta interpretazione sono dunque le doti che qui si richiedono, e che davvero non mancano: anzi, con utile consiglio, via via sono anche riportate in nota le terzine del Poema, che toccano più espressamente delle predette questioni; il che, mentre aggiunge fede all'esposto, aiuta insieme la memoria del lettore.

La seconda parte, di gran lunga più interessante e più originale, ha per iscopo di commentare la prima, a norma delle seguenti idee, che ricavo dalla prefazione: « Il sistema dei cieli, in Dante, ha fonti pagane «<e cristiane; e queste fonti sono, principalmente, Aristotile e S. Tom<<maso d'Aquino. Il quale ultimo ritenne in gran parte le dottrine dello <«< Stagirita e si sforzò d'accordarle con la teologia cristiana. Dalle due << fonti così congiunte; o, per dir meglio, dal pensiero aristotelico rifatto << e svolto conformemente alla Bibbia, derivò il sistema dantesco; che, << pur avendo non poche mende (senza parlare delle idee tolemaiche, che <«< ci sono di necessità), non è indegno dell'intelletto di Dante e serve << mirabilmente alla grandezza e varietà del poema ». L'autore, in un seguito di capitoli coordinati a quelli della prima parte, di cui s'è trascritto il titolo più sopra, va dunque raffrontando il pensiero cosmogonico d'Aristotile, di S. Tommaso, d'altri filosofi e teologi, con la teorica di Dante; sempre nell'intendimento di mettere in vista le analogie, le dipendenze, le contraddizioni tra le idee di questi pensatori. La materia in sè piuttosto ardua e la prevalenza di pagine in buona parte espositive - corredate da numerose e pur necessarie citazioni - renderebbero difficile, nè molto vantaggioso, un riassunto di questa seconda parte del libro.

Meglio gioverà che ci sforziamo di segnalare quei punti, nei quali l'autore contribuisce più direttamente all'esegesi del poema, o che si opponga ad autorevoli commentatori precedenti, o che suggerisca nuove dilucidazioni.

Contraddice, per esempio, allo Scartazzini ed al Casini nello spiegare (p. 29 seg.) i versi 21-36 del canto XXIX Parad., che cominciano << Forma e materia congiunte e purette ». I due dantisti ora nominati ammettono che il poeta alluda alla creazione degli angeli (forma puretta), della materia prima (materia puretta) e della natura, corporea e razionale, dell'uomo (forma e materia congiunte). Non sapremmo dar torto allo Scrocca, quand' egli dimostra che questo modo d' intendere, in quanto si riferisce alla creatura umana, non solo non è esatto, ma anche contraddice alla Bibbia, che pone la creazione dell'uomo al sesto giorno e non sul principio del tempo. Il nostro A. dimostra che invece qui si allude alla creazione degli angeli, della materia informe e dei cieli, di quei cieli che Dante, ossequente ad Aristotele e d'accordo con S. Tommaso, ammetteva incorruttibili; tant'è vero, egli osserva benissimo, che dove (v. 32 seg.) il poeta passa a dire qual fu l'ordine stabilito da Dio a queste sue tre prime creature, non già dell'uomo fa parola, ma bensi degli angeli (puro atto) che « furon cima nel mondo », dei cieli (potenza con atto) « ristretti nel mezzo », e della materia informe (pura potenza) « che tenne la parte ima, come lo Scartazzini e il Casini stessi concedono. Contro i medesimi commentatori sostiene (p. 36) la lezione: « La natura del moto, che quieta Il mezzo, e tutto l'altro intorno move, Quinci comincia.... », in contrapposto con la lezione « La natura del mondo.... » (Parad., XXVII, 106-8); anche qui, a nostro parere, ben a ragione appuntando la stranezza della frase « la natura del mondo comincia di qui.... » a confronto dell'altra: « di qui (cioè dal primo Mobile) comincia la natura del movimento, origina quel movimento, che lascia quieta la terra e le fa girare intorno le rimanenti parti ». Circa alle ragioni della immobilità della terra, non è inopportuno in questo luogo il riferimento al concetto aristotelico, che la più perfetta delle cose (Iddio) e la più bassa e imperfetta convengono nel non aver azione o moto di sorta; ma ciò procede dall' esser quella bastante a se stessa, questa impotente a un bene anche infimo. Tornando al c. XXIX Par., sarà proprio vero, come i più ammettono, che Dante quando scrisse «....de gli Angeli parte Turbò il soggetto dei vostri elementi » volesse significare « turbò quello dei vostri elementi che è soggetto agli altri, vale a dire turbò la terra »? Neppur questo piace allo S. che, con adatte citazioni, piega a interpretare la frase controversa nel senso di « turbò la materia prima ed informe », di cui S. Tommaso afferma « materia incorruptibilis est, utpote subiectum existens generationis» (S. V., qu. Civ, art. 4). Fa tuttavia acutamente notare che, in un modo o nell'altro che la frase si voglia intendere, non s'evita in questa parte del sistema dantesco un'aperta contraddizione con altri asserti del Poema. Se gli angeli ribelli, cadendo, turbarono la terra, questa dunque esisteva; e rimane inesplicabile la scritta sulla porta d'Inferno « Innanzi a me non fur cose create, Se non eterne.... », poichè la terra, presa come uno dei quattro elementi, è corruttibile e non eterna; se turbarono la materia informe, non si capisce come la caduta di

Lucifero abbia potuto far coprire d'un velo d'acqua l'emisfero opposto al nostro, rimuoverne la terra e generare la montagna del Purgatorio. L'altra ben nota terzina, che riguarda l'intima natura della gerarchia angelica: << Così veloci seguono i suoi vimi, Per simigliarsi al punto quanto ponno, E posson quanto a veder son sublimi » (Par., xxvII, 100-3) è pure commentata, a p. 44 seg. di quest' operetta, contro l'avviso dello Scartazzini. Il nostro afferma che gli angeli si muoveno a fine d'assomigliare a Dio, mentre lo Scartazzini, con altri, pende a credere « che Dante abbia voluto significare non uno scopo proposto agli angeli, pel quale essi si muovano; ma la ragione del muoversi, che sia appunto il somigliare più o meno a Dio». Il passo, a prima vista, si presta ugualmente alle due maniere di commento; ma dacchè lo Scrocca sa dimostrare che quanto l'Alighieri afferma degli Angeli nella Commedia concorda in massima con l'opera famosa De cœlesti hierarchia attribuita a S. Dionigi Areopagita, e dacchè nell'opera medesima leggiamo (Cap. 3°, 1): « E la gerarchia un santo ordinamento, una conoscenza, un'azione, la quale quanto è possibile si rende simile a Dio; e secondo la luce che ha da questo si avanza ad imitarlo » ; non resta dubbio, pare anche a noi, che il modo di vedere dello Scrocca sia preferibile all'altro. Il rapporto tra la predetta terzina e le parole ora citate, in verità, è si evidente, che la prima sembra quasi un volgarizzamento poetico delle seconde.

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Questi sono i luoghi danteschi principali, che ricevono commento dalla breve memoria della quale parliamo. Intorno ad altre questioni curiose ed interessanti l'A. si pronunzia in maniera persuasiva, come ad esempio là dove si domanda (pp. 66-68) « se la luce negli astri sia effetto della virtù angelica informante o derivi dal sole », ed abilmente dimostra << che la bontà dell'angelo motore, spiegandosi con varia potenza nelle varie parti dell'astro, infonde in esse più o men vigore di vita; onde viene all'astro più o meno attitudine a rimandare i raggi del sole senza godere d'una luce propria. Minor numero di prove ci pare accolga l'altra opinione (pp. 59-65), che ogni cielo debba avere, nel pensiero di Dante, un solo angelo motore e non parecchi ad un tempo. Malgrado le ragioni dallo S. recate a sostegno di questa sua ipotesi, sembra poco verosimile che il poeta abbia così fondamentalmente mutato d'avviso da quando nel Convivio (II, 6) ammetteva tre motori certi, e forse un quarto, per la stella di Venere, in ragione dei varî movimenti da cui credeva animato quest' astro. Ma checchè si voglia pensare di tale particolarità e di qualche altra affermazione secondaria, l'operetta dello S. si rivela frutto di studî coscienziosi ed anche nelle scuole può recare vantaggio incontestabile, come prefazione al commento. del Paradiso. F. PELLEGRINI.

ANNUNZI BIBLIOGRAFICI

THOMAS LLEWELYN, A Ms. of the Divina Commedia in a Lisbon Library. Nel period. The Academy, 8 febbraio 1896, n. 1240. - È il codice della Biblioteca Nazionale di Lisbona indicato dal De Batines sotto il n. 476 (vol. II, p. 261).

È della fine del sec. XIV, e contiene non l'Inferno e il Paradiso soltanto, ma tutto il poema (eccetto il I canto e i vv. 1-6 del II Inf.), non che il capitolo di Iacopo di Dante, unito alla terza cantica con questa rubrica: « Explicit III cantica comedie dantes allegerij de florentia quae est de paradiso et incipit diuisio a qualitate partium comedie dicti dantis facte per jacobum filium dicti dantis cuius anima requiescat in pace. » Il Moore, al quale sono state comunicate molte lezioni del Ms., lo ha dichiarato di non molta importanza per il testo della Commedia.

G. FINALI, Cristoforo Colombo e il viaggio di Ulisse nel poema di Dante con lettera di F. TARDUCCI e una prefazione di F. FRANCIOSI. Città di Castello, S. Lapi, 1895; 16°, pp. 75 (Collezione di opuscoli danteschi diretta da G. L. Passerini, n. 23). La questione che si tratta in questo opuscolo è la seguente: Dante, introducendo Ulisse a raccontare la sua navigazione oltre le Colonne d'Ercole e la sua morte in faccia ad una nuova terra, intese, come generalmente si interpetra, di biasimare il folle ardimento d'Ulisse per aver voluto trovare colla forza del suo ingegno quel regno de' morti, che Dio concesse di visitare solo a pochi vivi privilegiati; ovvero intese di celebrare nell'antico eroe l'amor della scienza e della virtù, e far di lui quasi il tipo d'uno scopritore del nuovo mondo, che si supponeva anche allora dai dotti dovere esistere? E quella nuova terra è proprio il Purgatorio, o non piuttosto la favoleggiata Atlantide, o Teneriffa o, insomma, una parte qualunque sconosciuta dell' emisfero australe? Sostiene la seconda opinione il senatore Gaspare Finali, si in un discorso che precede, e sì in alcune lettere a F. Tarducci, dal quale, come lodato autore d'una Vita di Cristoforo Colombo, egli sperava la conferma di una sua congettura, cioè che il grande Genovese avesse preso, almeno in parte, da Dante l'idea e il modo della sua magnanima impresa. E all'opinione del Finali suffraga sostanzialmente il Franciosi in una bella prefazione. Invece la prima e antica opinione è tenacemente sostenuta nelle lettere di risposta, qui riprodotte, del Tarducci, il quale, spiegando Dante con Dante, non ammette che nell'oceano possano essere altre terre che il Purgatorio, e dà quindi all' episodio dantesco la spiegazione simbolica di un audace tentativo, punito da Dio. Noi pure crediamo che la cosa stia così, perchè Dante era, prima di tutto, l'uomo de' suoi tempi, e perchè chiamò folle il varco d'Ulisse, anche direttamente e di propria bocca (Par. 27, 83). Ma crediamo ancora che, se biasimava l'effetto, lodasse però in Ulisse la generosa brama di acquistare scienza, e per essa esporsi a fatiche e pericoli. Questa specie, non diremo di contradizione, ma di sottile dialettica nel giudicare le azioni degli uomini, distinguendo il fatto dalle intenzioni, è frequente nell'Alighieri, come altri hanno notato. D'altra parte l'ammirazione grande ch'egli sentiva per Ulisse apparisce chiara da tutto il c. 26 dell'Inferno: e non è inverosimile neppure ch'egli presagisse poeticamente una impresa simile a quella di Colombo, nè che questi si ispirasse anche al suo Ulisse: ma dall'ammetter questo, almeno come ipotesi, a negare la spiegazione simbolica ed ascetica che risulta da tutto il contesto del poema, troppo ci corre. R. F.

Rime di Lapo Gianni rivedute sui codici e su le stampe con prefazione e note a cura di ERNESTO LAMMA. Imola, tip. d'I. Galeati e figlio, 1895, in-16o, Pp. LXII-82. Finalmente il canzonieretto del gentile amico dell'Alighieri potrà leggersi in edizione comoda ed elegante, nè si avrà più bisogno di ricercare le

disiecta membra per entro le raccolte di rime antiche. Il Lamma, che n'è l'editore, qualche anno addietro pubblicò sul Gianni uno studio che trovò contradittori e su alcuni dei punti controversi egli torna a ragionare, confermando le sue antiche opinioni, in una introduzione, dove si raccolgono anche le notizie che si hanno su Lapo, e si dichiara il metodo seguito nel preparare l'edizione delle rime. Il Lamma insiste sulla influenza diretta dell'arte provenzale sulla poesia del notaro fiorentino, ed insiste anche su un altro punto, che vorrei veder ben chiarito, sulla precedenza che il Gianni avrebbe sugli altri poeti dello Stil nuovo. Perchè mi pare che per esser riconosciuto come il primo poeta dello Stil nuovo, il Gianni abbia da fare i conti col Cavalcanti per la questione del tempo in cui visse e poetò; e quanto all'onore di esser colui che trasse fuori le nuove rime, li ha da fare con Dante, che s'arroga tal vanto e non merita una smentita senza prove. Servendosi specialmente di una pubblicazione di U. Marchesini (Arch. Stor. Ital., Serie V, t. 13) il Lamma sceglie, tra i quattro Lapi di Gianni venuti fuori dai documenti dei sec. XIII e XIV, quello che sembra essere stato il poeta, cioè Lapo Gianni della famiglia Ricevuti, e argomenta che sia vissuto press' a poco tra il 1260 e il 1321. Nel preparare la presente edizione il Lamma si è valso di ventiquattro manoscritti, quanti ha potuto o esaminare direttamente o fare esaminare ad altri, ma ha preso per base il cod. Chig. L, VIII, 305, che conserva quasi tutte le rime del Gianni; e degli altri testi s'è servito per correggere gli errori di questo. Ha tentato anche una specie di classificazione dei manoscritti sulla cui attendibilità è difficile farsi un' idea; non capisco poi che partito ne abbia tratto per fermare il testo. Per buona sorte grandi varietà di lezione non ci sono: il Gianni è stato assai fortunato per questo, come per un altro rispetto, per quello dell'autenticità, a cagion della quale il Lamma non ha avuto da faticare. Speriamo che da questa pubblicazione si sentano stimolati a mettere alla luce i loro lavori, da lungo tempo attesi, G. S. Gargáno e G. Salvadori, che hanno studiato il primo la lirica di Lapo e il secondo quella dello Stil nuovo in generale. G. VOLPI.

U. MARCHESINI, Filippo Villani pubblico lettore della Divina Commedia in Firenze. Nell'Archivio storico ital., S. V, t. XVI, pp. 273-79; e anche a parte per le Nozze Flamini-Fanelli, Firenze, Cellini, 1895; 8°, pp. 15. - Un fatto assai notevole nella storia della cultura e in quella del culto di Dante è l'istituzione d'una pubblica lettura della Commedia in Firenze nella seconda metà del secolo XIV. Come è noto, fu da prima chiesta dal popolo e fatta per il popolo in una chiesa (1); poi entrò fra gli insegnamenti dello Studio fiorentino, non però come cosa a sè: aliquando chi insegnava rettorica accanto agli auctores majores, i latini, doveva legger Dante, che venne così a ricevere pubblicamente il battesimo di scrittore classico. Dei lettori che succederono al Boccaccio non abbiamo notizie molto precise e sicure. Ora al prof. Marchesini alcuni docu

(1) Si scrive ordinariamente che il Boccaccio sponesse il divino poema in S. Stefano al Ponte Vecchio. Ma il prof. Dazzi ci faceva avvertire la inverosomiglianza che si fosse scelto per tal cosa quel luogo doveva essere invece S. Stefano di Badia. E Benvenuto da Imola infatti al v. 97 del c. XV del Paradiso scrive.... in interiori circulo est Abbatia monachorum sancti Benedicti, cuius ecclesia dicitur Sanctus Stephanus, ubi certius et ordinatius pulsabantur horae quam in aliqua alia ecclesia civitatis; quae tamen hodie est satis inordinata et neglecta, ut vidi, dum audirem venerabilem praeceptorem meum Boccacium de Certaldo legentem istum nobilem poetam in dicta ecclesia..

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