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Del Lungo dice a spiegazione degli ultimi versi del c° V del Purg.); D'Ovidio, Guido da Montefeltro (Nuova Antologia, 16 maggio 1892), Dante e la magia (N. Antol., 16 settembre 1892), Della topografia morale nell'Inf. dantesco (N. Antol., 16 settembre 1894), Noterelle dantesche, nella Bibliot. delle Scuole Ital. (1891-92, vol. IV, pp. 145-149); nella quale si possono leggere anche altri parecchi studî danteschi del Borgognoni, del Puccianti, di F. Eusebio (vol. I, 1889-90), una buona nota del Biadene sulla voce caribo (vol. III, 1890-91, pp. 40-42: cfr. Flamini, Studî di stor. letterar. ital. e straniera, Livorno, Giusti, 1895, p. 181, e Zenatti, Ancora della Scuola Siciliana, Messina, D'Amico, 1895, p. 9) ecc.; Zingarelli, Parole e forme della D. C. aliene dal dialetto fiorentino, negli Studi di filolog. romanza, pubbl. da E. Monaci, fasc. I; Torraca, Le rimembranze di Guido del Duca (N. Antol., 1o settembre 1893), e Nuove rassegne, Livorno, Giusti, 1894; Casini, Dante e la Romagna (Giorn. Dant., anno I, 1893-94); Masi, Ipocriti e Frati Godenti nell'Inferno di D. (Nuovi studî e ritratti, Bologna, Zanichelli, 1894); Brognoligo, Montecchi e Cappelletti nella D. C. (Propugnatore, n. s., VI, p.te 1a, fasc. 31-32, 1893); Virgili, Dei battezzatoi ecc., a proposito dei versi 16-21 del canto XIX dell'Inferno (Archiv. Stor. Ital., disp. 3a del 1892); Casella, Discorso intorno alla forma allegorica e alla principale allegoria della D. C., Firenze, 1865 (ristampato nelle Opere del C., Firenze, Barbèra, 1884, vol. II); Fornaciari, Studi su Dante, Milano, Trevisini, 1883, e Il passaggio dell'Acheronte, ecc. (Nuova Antol., 16 agosto 1887); Colagrosso, Questioni letterarie, Napoli, Morano, 1887, e Altre questioni letterarie, Napoli, Morano, 1888; E. Mestica, La psicologia nella D. C., Firenze, Bemporad, 1893; Clerici, Studi vari sulla D. C., Città di Castello, Lapi, 1888; Filomusi Guelfi, Due chiose dantesche, Torino, Bona, 1889, ecc. Lo Scartazzini conosce il bello studio del D'Ancona su I precursori di Dante, Firenze, Sansoni, 1874 (v. la sua Dantologia, Milano, Hoepli, 1894, 2a ediz., p. 360 e segg.), ma ne avrebbe dovuto ricordare le pp. 51-52 a proposito dei vv. 37-39 del co III del'Inf.: si vegga anche Graf, Miti, leggende e superstizioni del M. E., vol. II, Torino, Loescher, 1893, p. 82-83. Sarebbe stato opportuno, parlando del Veltro, citare lo studio ben fatto e comprensivo del Fenaroli (Rassegna Nazionale, vol. LXI, 1891), e Medin, La profezia del Veltro (Atti e Memorie della R. Accadem. di scienze, lettere ed arti di Padova, vol. V, Padova, Randi, 1889).

Il commento dello Scartazzini, pur con i suoi difetti (fra i quali vuolsi notare anche la molta trascuratezza del dettato), non è certo inutile nè scarso di pregi, ma segnatamente per le scuole a me pare di gran lunga preferibile quello del Casini, meglio proporzionato e nella sua sobrietà più esatto e compiuto, composto con maggior serenità di giudizio e con più fino e vivo sentimento d'arte, scritto con disinvolta e nitida eleganza. Credette Cimabue nella pittura Tener lo campo, ed ora ha Giotto

il grido...

......

No, no: non si adombri e non s'impermalisca lo Scartazzini: la sua fama non è, nè sarà così presto, oscura; nè altri vuol cacciar di nido le opere sue, per le quali, benchè non scevre di molte mende, egli si deve annoverare fra i più indefessi e benemeriti studiosi di Dante.

G. A. VENTURI.

ANTONIO BELLONI, Intorno a due passi di un' Ecloga di Dante. Venezia, Successore M. Fontana, 1895 (Estr. dall'Ateneo Veneto, Luglio-Settembre); in-8, pp. 19.

Il professor Belloni, riprendendo i suoi studi intorno alle Egloghe, attribuite a Dante, si prova ad interpretar meglio, che non sia stato fatto finora, il principio della seconda di esse; ed espone poi le ragioni, che lo inducono a sospettare che i vv. 84-87 dell'egloga medesima sieno interpolati.

Per la prima parte, credo che abbia colto nel vero; e qualcuna delle sue osservazioni è anzi così ovvia, che non si comprende come non v'abbiano pensato i commentatori o traduttori precedenti. Riferisco qui il detto principio, vv. 1-6, e la traduzione del B.:

Velleribus colchis praepes detectus Eous
Alipedesque alii pulchrum Titana ferebant:
Orbita, qua primum flecti de culmine coepit,
Currigerum canthum libratim quemque tenebat,
Resque refulgentes, solitae superarier umbris,
Vincebant umbras, et fervere rura sinebant.

<< L'agile Eoo, sciolto dai velli colchi, e gli altri veloci cavalli, traevano il bel Titano: le ruote del carro stavano equilibrate sull'orbita, in quel punto dove [essa] comincia a piegar dal vertice, e gli oggetti tutti-pienidi-sole (refulgentes), i quali d'ordinario son vinti [in lunghezza] dalle [loro] ombre, superavano l'ombre e lasciavano fervere i campi ». Adunque nei primi due versi è indicata in genere la stagione, che ricorreva : il sole s'era spogliato dei velli colchi, era cioè uscito dalla costellazione dell'Ariete, ed era entrato in quella del Toro; cosicchè «l'azione dell'ecloga si svolge circa gli ultimi d'Aprile ». Al modo stesso avevano interpretato già anche altri; ma si propendeva a credere che della stagione continuassero a parlare i versi seguenti, mentre il B. mostra che il poeta passa invece a determinare l'ora del giorno, che è press' a poco il mezzodi.

Un po' meno sicura e persuasiva potrà sembrare la seconda parte del ragionamento, che riguarda la sospettata interpolazione; quantunque bisogni riconoscere, che se il B. circonda di dubbî le sue affermazioni, dubbî non meno gravi devono impedire, che a queste si contrapponga una negazione recisa.

La scena dell'egloga ci trasporta in Sicilia, presso gli umidi sassi del Peloro, ove Titiro (cioè Dante) risiede; e a Titiro giunge, da parte di Mopso (cioè di Giovanni del Virgilio), l'invito di recarsi ad abitare con esso sotto l'Etna, ov'è l'antro dei Ciclopi. Alfesibeo procura, con calde parole, di distogliere Titiro dall'accettare l'invito; e dopo esposte le mostruose crudeltà di Polifemo, esce ad un tratto in alcuni versi, nei quali è invece indicata chiaramente Bologna, come il luogo pericoloso, che Titiro deve sfuggire:

Ah! mea vita, precor numquam tam dira voluntas

Te premat, ut Rhenus et Najas illa recludat

Hoc illustre caput....

Se fosse vero, dice press' a poco il B., che Dante, come suppongono il Pasqualigo e il Macri-Leone, avesse sostituito a Bologna e a Ravenna l'antro dei Ciclopi e i sassi del Peloro, per rendere meno trasparenti le allusioni contro il personaggio, raffigurato in Polifemo, come mai avrebbe ad un tratto parlato, così chiaro ed aperto, di Bologna? E come si giustifica codesto improvviso trapasso, cosi contrario alle ragioni dell'arte, dalla finzione allegorica alla realtà dei fatti ?

Non si può negare che, anche trovando il modo di spiegare le cose e di difendere l'autenticità del passo, non riuscirebbe invece di difendere il poeta dall'accusa d'aver mescolate insieme cose che dovevano essere tenute distinte, e d'aver peccato contro la semplicità e la chiarezza; ma d'altra parte non sono sempre chiare e conseguenti a sè stesse le imagini della Divina Commedia, e non è tale, per esempio, quella delle pecore buone (ossia de' buoni Francescani), rimaste fide al pastore, le quali son sì poche Che le cappe fornisce poco panno.

In ogni modo, che il poeta trasportando la scena in Sicilia, intendesse di nascondere sotto così densi veli il suo pensiero che difficilmente ne apparisse altrui l'intimo significato, mi pare da escludere affatto; e penserei piuttosto ch'egli, ciò facendo, non abbia avuto di mira che un effetto artistico, consigliato dall' esempio degli antichi, e non attribuisse quindi alla convenzionale finzione allegorica tale importanza, da credere di non doversene sciogliere, quando gli sembrasse opportuno. Io non so quale scrittore avrebbe potuto attendersi, che i suoi lettori fossero di così ottuso intelletto, da non riuscire a penetrare cogli occhi della mente sotto un velo, già di per sè così tenue, e nel quale il poeta aveva anche lasciato, a bella posta, più d'uno strappo. Quando giunge coll'invito, da parte di Mopso, il pastore Melibeo, e veduto Titiro, si pone alla bocca la zampogna, questa manda fuori (mira loquar, sed vera tamen) umane voci, il primo verso cioè dell'egloga, con cui Giovanni del Virgilio aveva già invitato Dante a Bologna: Forte sub irriguos colles ubi Sarpina Rheno. Più sotto, il longevo Titiro, rispondendo ad Alfesibeo, gli dice che Mopso, a lui legato dal comune amor delle Muse, gli veniva decantando i pa

scoli del lido etneo, credendolo pur sempre sulla destra del Po, nell'Emilia; mentre egli giaceva omai disteso sull'erba, sotto i monti della Trinacria:

Sed quamquam viridi sint postponenda Pelori
Aetnica saxa solo, Mopsum visurus adirem,

Heic grege dimisso, ni te, Polypheme, timerem.

È forse questo il denso velo, che deve nascondere agli occhi del pericoloso Polifemo il pensiero di Dante? Non è evidente anche qui che gli Aetnica saxa rappresentano, sotto altro nome, gli irrigui colli, ubi Sarpina Rheno Obvia fit? O non è pur una grave incongruenza che di Mopso, il quale manda Melibeo a cercare di Titiro presso il lido del Peloro, si affermi poi, che lo crede tuttora sulle sponde dell'Adriatico? Dal principio alla fine dell'egloga, le allusioni a Bologna e a Ravenna s'intrecciano colle descrizioni della Sicilia; cosicchè, se volessimo sospettare d'interpolazione tutto ciò che in essa è lontano dal nostro gusto, e lontano, diciamo pure, dall'eccellenza dell'arte, dovremmo sopprimerla mezza. Meglio sarà che ci sforziamo di spiegare anche quello che non possiamo lodare; e messici su questa via, troveremo forse che gli esametri, contro i quali il B. parte in guerra, sono strettamente legati con quelli, già ricordati, di Titiro, Litora dextra Pado ratus, ecc., e rispondono sullo stesso tono al vero invito di Mopso, indicato, senza veli allegorici, nel verso: Forte sub irriguos colles. Tutt' al più, potremo tentare di rendere meno forte il trapasso, traducendo la frase: Ah! mea vita, precor, con una particella o un avverbio di collegamento: Anche ti prego, o mia vita; sebbene non siamo disposti a giurare, che codesto anche fosse nell'intenzione del poeta.

Un'ultima considerazione. Il B. rimprovera, come abbiamo visto, all'autore dell'egloga di avere ad un tratto strappato il velo allegorico, sostituendo alla finzione la realtà; ma egli non si esprime con perfetta esattezza. Giacchè, o si parli del soggiorno di Titiro presso il lido del Peloro, o della sua recente dimora sulle sponde dell'Adriatico; si riferisca l'invito di Mopso ai sassi dell' Etna o ai colli bene irrigati, tra i quali scorre il Reno, restiamo sempre nell' allegoria; trannechè si voglia negare che abbia colorito allegorico l'egloga di Giovanni del Virgilio, alla quale questa di Dante risponde, o non si trovino sufficenti alla finzione poetica i nomi pastorali di Titiro, Mopso e Melibeo, e la scelta della scena, in mezzo ai campi ed ai boschi.

In una nota di p. 16, il B. ritorna anche sopra un suo precedente articolo (Giorn. stor. d. letter. ital., XXII, 354 sgg.), nel quale aveva cercato di dimostrare spurii i tre ultimi versi dell'egloga stessa, di cui parliamo. Uno de' suoi argomenti, e, secondo me, il principale fra tutti, era che codesti versi sono in due codici accodati a un'altra egloga; mentre ora, dietro più precise informazioni, egli s'è persuaso che almeno nel Laur. Pl. XXXIX, 26 si trovano al loro solito posto, e che è molto probabile,

lo stesso deva dirsi anche pel codice Viennese. Tolta di mezzo questa grave difficoltà, noi crederemo ora, contro l'opinione pur sempre ferma del B., che i tre versi appartengano proprio alla nostra poesia; e ricorderemo, senza vagare in considerazioni generali e tenendo pur conto di tutte le differenze, che non siamo poi troppo lontani dal tipo, che ci presenta la fine dell' egloga VII di Virgilio. Io tengo adunque per l'autenticità di tutto il componimento; e colgo volentieri l'occasione, per osservare che gli argomenti, finora addotti, contro la paternità dantesca, non sono poi troppo serî, come quelli che si fondano in special modo sopra certe espressioni, venerande senex, hoc illustre caput, ecc., che pajono strane, se rivolte da Dante a sè stesso. Ma si è dimenticato, mi pare, che i personaggi dell'Egloga allegorica vivono d'una doppia vita, fondendo insieme come due esseri, uno reale ed uno fittizio; e che il poeta, per colorire meglio il suo quadro, può indugiarsi amorosamente intorno all'essere fittizio, il quale solo, in fondo, rappresenta l'arte e la poesia. E. G. PARODI.

ODDONE ZENATTI, La « divina » Commedia e il « divino » poeta. Bologna, Zanichelli, 1895; 8°, pp. 44.

Dell'epiteto ormai inseparabile dalla Commedia si dice generalmente e si ripete, che per la prima volta apparve in fronte all'edizione del poema uscita in Venezia, per il Giolito, nel 1555, a cura di Lodovico Dolce; e spesso, per maggiore erudizione, ch'è viceversa un' inesattezza più grossa, si aggiunge, che anche prima era stato detto divino il poeta, nell'edizione del 1481 col commento landiniano. Questa seconda data non ha ragion d'essere; si la prima, ma non col valore assoluto che le attribuiscono i più; e ciò bene avvertiva, più di cinquant'anni sono, il Fraticelli in una nota all' Epistola a Cangrande, ricordando a coloro che parlano del Dolce e del 1555, come fin dal trecento si trovi la divina Commedia nella Vita di Dante del Boccaccio. Poi il Giuliani ripetè le parole del Fraticelli, e ultimamente il Gaspary citò il Giuliani; ma tutti gli altri, pare, le aveano dimenticate; sicchè lo Zenatti non fece cosa superflua rinfrescando un po' la memoria del passo boccaccesco, e benissimo fece, raccogliendovi intorno e discorrendo con molto garbo le altre testimonianze della varia fortuna dell'epiteto, ch'è pure una parte, sebben minuscola, della gran storia di Dante.

Resta dunque fermo, fin che il fortunato aggettivo non esca da qualche copia inesplorata della Commedia o da nuovi commenti o documenti anteriori al Boccaccio, che a lui dantista, spetta, con tanti altri ben più importanti, il merito di averla per il primo così chiamata, nel Trattatello in laude di Dante, composto circa il 1366; e più precisamente nel capitolo che narra di alcuni accidenti avvenuti intorno al poema, e della visione che mostrò a Iacopo « dove fossero i tredici canti i quali alla divina Commedia mancavano ». Qui l'epiteto osserva giustamente lo

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