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male e legittimo del cj originario, si potrà per un' apparente analogia rifoggiare, da una parte saccio, io so, in sazzo, e dall'altra, poniamo, mazzo in maccio; sebbene in questi non s'abbia più un cj originario, e le forme sazzo, maccio non si sentano realmente in nessuna regione.

Appartenendo a codesto periodo d'ibridismo, Dante, che meno d'ogni altro ne abusò e più d'ogni altro contribui a farlo cessare, teoricamente se ne compiacque e se ne creò un proprio sistema, secondo il quale sta da una parte il latino, la grammatica, immobile e irrigidita nelle sue forme; dall'altra il Volgare, dalle libere movenze e dalla grande varietà. Benchè nel De vulgari eloquentia egli vada intorno per la penisola, cercando se a qualche dialetto si possa attribuire la preminenza sugli altri, la tentata dimostrazione è più che altro un artifizio retorico e un pretesto per esporre certe sue osservazioni o per sfogare certe sue bizze personali; ma il sistema è già ben stabilito a priori, ed è ricavato dal confronto delle condizioni del latino con le condizioni letterarie dell'Italia e probabilmente anche della Francia. Al concetto d'una lingua unica, fissa, identica per tutta la Penisola, d'una nuova grammatica, egli non poteva arrivare, nè gli italiani ci arrivarono se non dopo lunghe prove e riprove; mi pare anzi probabile, che se un tale concetto gli fosse balenato, egli ne sarebbe rifuggito istintivamente, poichè una tale lingua doveva presentarglisi con tutti i caratteri d'un secondo latino, quel venerato ma uggioso latino, che si mostrava così poco pieghevole, cosi sordo e restio a tutti i suoi sforzi, mentre il mutabile e variopinto volgare si foggiava nelle sue mani, come una duttile cera.

I. SUONI

Vocali accentate. 1. Scambi fra I ed E, fra U ed O. Di miso messo Inf. 26, 54, Par. 7, 21, commisa Purg. 6, 21, di sorpriso Purg. 1, 97 e ripriso 4, 126 basti far menzione. Per dispitto Inf. 10, 36, e per rispitto Purg. 30, 43 si può vedere lo Zingarelli 123, 132 sg. (1). Il primo si trova

(1) Lo Zingarelli nega, seguendo il D'Ovidio, che sieno gallicismi; e dovrebbero invece avere il loro suffisso da diritto, rifatto a sua volta su dirizzare. Ma pel curioso diritto è forse meglio vedere ciò che dice il MEYER-LÜBKE, Ital. Gramm., 39, e conviene anche tener conto di scritto ditto fitto afflitto delitto, in special modo di quest'ultimo. Che poi diritto e delitto abbiano facilitato l'importazione di dispitto respitto profitto sta bene; ma che questi fossero in origine vocaboli francesi, mi pare dimostri anche la sparizione dei due primi. Una parola sull'interpretazione del dantesco rispitto. L'espressione di fiducia non è veramente quella che ho notato nei bambini, che corrono stizziti o spaventati dalla mamma; ed io penso che Dante abbia voluto piuttosto alludere all'atteggiamento e direi quasi alla curiosa contrazione e ai sussulti del loro volto lagrimoso, che suscita nella madre un intenerimento, misto di riso. In tal caso sarebbe

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anche in Fazio degli Uberti, Dittam. II 27; nel verso del Petrarca 'Per isfogare il suo acerbo despitto' Son. 81, vale però, non disprezzo, ma 'dispetto, e così nell' Orl. Fur. xxx 79. In prosa ricorre anche dispittare, e dispittose leggesi nel Fiore (1) xcv. Più frequente è rispitto, o nel senso di rispetto' 'riguardo' Boccaccio (2), Amor. Vis. XXXVI, o di solito con quello di 'indugio' (ant. franc. sanz nul respit), cfr. il Vocabolario e i Deput. al Decamer., 176 sgg. (3), per esempî di prosa, e per esempî di poesia anche il Boccaccio, Filostr. II 91, Iv 105, vii 105, Caccia di Diana vi, ecc. Nel Fiore LX respittare, forse 'concedere indugio.' Il povero accisma Inf. 28, 37, così crudelmente accismato dai commentatori, è senza dubbio per accesma acconcia, di cui abbondano esempî antichi; e probabilmente Dante, rifoggiatosi dal franc. acesmer un infinito accismare, di fisonomia fiorentina pel mutamento di e atono in i, ne estrasse poi anche un accisma coll'i accentato. Così il popolo da aze(s)mar trasse fuori il suo azzimare e da questo, pare, anche azzíma; così da corrucciare ha fatto corruccio, invece del regolare corroccio. Per flailli num. 42 c, per meschite 42 e. Non ho toccato di Corniglia Inf. 4, 128, Par. 15, 129, perchè così e non altrimenti si diceva allora e si dovrebbe dire tuttora, secondo le leggi fonetiche del dialetto fiorentino; le quali giustificano pienamente. anche Sardigna Inf. 22, 89 e, fuor di rima, Inf. 29, 48, Purg. 23, 94. L'i si deve all'azione del nesso palatale che segue, cfr. famiglia consiglio benigno gramigna ecc., pei quali il senese e l'aretino dicevano e in parte dicono tuttora fameglia conseglio benegno gramegna (4). Lasciando da parte esempî di poesia, come Corniglia Dittam. 111 6, Oniglia III 5, paesi della Liguria, e Sardigna Petrarca, Tr. d. Fama 1 87, che pure è fuor di rima,

tornato al lat. respicere e significherebbe sguardo', o, con senso un po' più generale, atteggiamento del volto'.

(1) Ediz. MAZZATINTI, nei Manoscritti ital. delle Bibliot. di Francia, III 614 sgg.

(2) Per le opere in verso del Boccaccio seguo di solito l'edizione del MOUTIER; solo pel Ninfale fiesolano ho preferito la nuova stampa, alquanto migliore, del TORRACA, Poemetti mitologici de' secoli XIV, XV e XVI; Livorno, 1888. Ivi si trova pure il Driadeo, che avremo frequenti occasioni di citare.

(3) Annotazioni e Discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron di M. Giovanni Boccacci, fatte da' Deputati alla correzione del medesimo; Firenze, Le Monnier, 1857.

(4) È adunque di tipo senese-aretino, del tipo cioè comune a tutto il resto d'Italia, benegno Vita Nuova, Canz. III 34, che ricorre pure, a tacer dei poeti anteriori, nelle Rime di Cino (ediz. CIAMPI, Pistoja, 1826), Canz. xv 25, Son. 106, e in quelle del Boccaccio, Son. 52; cfr. malegni Filostr. vII 75. E così possiamo dire di veschio e di meschio, che rimano fra loro e con teschio nel Petrarca, Tr. d'Am. III 59 e 61; perchè il fiorentino muta, a quanto pare, in i un antico e chiuso, anche davanti al gruppo schj. Nel Boccaccio è pure il senese vesco, Son. 38.

ricorderò esempî di prosa, come Corniglia o Cornillia Ces. (1) 7a, 11a, 116, Sardignia Miliadus (2) 61, Ces. 11b, Fior. (3) 39b, ecc.

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Si trova u invece dell'o normale, in agugna Inf. 6, 28, che si potrebbe spiegare a un dipresso come accisma, e in di butto Inf. 24, 105, Purg. 17, 40, esempio anche più somigliante, come estratto da buttare. La stessa relazione che fra botto e il dantesco butto (cfr. butto colpo Intelligenza 126) è fra groppo e gruppo. Troppo noti sono i meridionalismi nui Inf. 9, 20, e vui 5, 95. Caso inverso: lome Inf. 10, 69, brollo brullo 16, 30, così fatto colto Par. 5, 72, agosta 30, 136. I due ultimi, a dir vero, simulano la più schietta popolarità, di fronte ai letterarî culto ed augusta; ma è tuttavia probabile che si devano a Dante stesso, il quale li avrà, non infelicemente, dedotti dai partic. colto raccolto, e da agosto. Invece i due primi sono casi della cosiddetta rima bolognese (4). Non ho aggiunto soso Inf. 10, 45, perchè soso nella magione si legge nel mio Tristano (5) 353, 2, e so pegli albori 364, 15. È probabile adunque che vivesse in qualche parte della Toscana, se però non risale al fondo umbro primitivo del romanzo; ed è rifatto sul regolare gioso, ben noto dal toscano occidentale e meridionale e frequentissimo nel Barberino e in Fazio degli Uberti. Per contro, il fiorent. giù è foggiato sul regolare su.

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Non rimangono adunque nella Divina Commedia se non rarissime tracce della rima o sicula o bolognese; e anche rivolgendoci al Canzoniere non troveremmo se non paurosi in rima con chiusi, nel sonetto Dagli occhi della mia donna si muove'. Certo, Dante non ricorreva a tali artifici se non di rado o quasi a malincuore; o almeno il più delle volte non vi s' induceva, come ho cercato di mostrare, se non sorretto da legittime analogie. Ma neppur queste sarebbero bastate, come non bastano a noi, se le incertezze o gli ibridismi della rima non avessero trovato larga accoglienza, non solo presso i poeti anteriori a Dante, ma anche presso i suoi contemporanei. Per i primi basta rimandare al Caix, Origini della lingua poetica italiana, 54, 80 sgg., 89 sgg.; sebbene egli non insista abbastanza su quel curioso poemetto, che è l'Intelligenza, nel quale le rime di e con i, di con u formano, non l'eccezione, ma si può quasi dire la regola. Dei contemporanei di Dante il Caix ricorda il Cavalcanti, che

(1) Cito così il cod. Riccard. 2418, dei Fatti di Cesare, scritto da un fiorentino nel 1313.

(2) Ricordi di cose familiari di Meliadus Baldiccione de' Casalberti, pisano, dal 1339 al 1382, pubblicati nell'Arch. stor. ital., S. I, vol. VIII Append. (3) Cito così il cod. Riccard. 1623, che contiene i Fioretti della Bibbia. (4) Nel Vocabolario aretino del Redi si trova però sbrollare sfrondare, che dovrebbe darci sbrolla alla 1a pers.

(5) Il Tristano Riccardiano, edito e illustrato da E. G. PARODI; Bologna, Romagnoli-Dall'Acqua, 1896.

ha, non solo priso, ma vedite Son. 17 (1), e poi lome Canz. I 17, come rima interna, lome: costome: fiome Son. 34; inoltre il Barberino, con tegnire Docum. 161, 9 (2), e con ascusa: chiusa 14, 6, chioso: nascoso 142, 9, aviloppa: stoppa 302, 15, ciascono: pono 3, 22 (3). Più ricco di siffatte rime è Cino, anche lasciando da parte i soliti nui vui; ancide: procede: mercede Canz. XXIV 44 sgg., m' ancidi: vedi Canz.-XXVIII 68 sg.; inoltre far mutto: corrutto: distrutto Canz. XXVII 34 sgg., lassuso: astioso Canz. XI 22 sg., sono: alcuno Canz. XXVIII 50 sg., persona: alcuna : perdona Son. 9, allora: creatora Canz. VII 47 sg., ancora: paora Canz. Ix 64 sg. e altrove, buono: sono: alcuno Son. 128 (4). Qualcuno anche nel Dittamondo: oltre al francesismo impiro 1 24, II 14, al senesismo vense vinse II 7, e al pseudo-latinismo biastimia v 18, ricorderò, non tanto espolsi 11 7, spolse III 12, quanto alonna (: colonna) III 16, Iv 18, adolti vi 13. Più ancora corrivo il Boccaccio, a cui la rima dava gravi pensieri; e se vincisse Teseide IX 30, tacisse Filostr. vII 88 e il dantesco colto culto Teseide XI 41 possono considerarsi diversamente, devon bene mettersi qui impetuoso chiuso: suso Son. 15, spinusi: chiusi Caccia di Diana v, fone fune: rinnegone Canz. 1 61, tumolto Teseide II 24, alconi: doni Caccia XVII; però invece di altroi (: poi) Filostr. II 28, sarà da leggere altrui: pui. Il Petrarca stesso, come già osservava l'Ubaldini nella Tavola ai Documenti d'Amore, aveva scritto, in un Sonetto che non fa parte del Canzoniere (Ediz. Mestica, p. 663) Ch'ogni vil fiumicel m'è gran distorbo'; e qualche cosa significa pure veschio, che ho citato in nota poc'anzi, e divolga Son. 77, sebbene sia rifatto su volgo. Infine Lorenzo de' Medici ha un adonca adunca (: tronca), Selve d'Amore I 6 (5). Pel significato che si deve attribuire a siffatto genere di rime, si veda la nota al num. 17; ma si confronti il Gaspary, Die Sicilian. Dichtersch., 144 sgg.

(

2. Dittonghi IE ed UO. La forma cria crea Inf. 11, 63, Purg. 16, 80

(1) Adopero l'edizione di PIETRO ERCOLE, Livorno, 1885.

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(2) Il Caix cita pure sciso A le membra del viso, Non deritte ma sciso' Docum. 234, 12 sg., ma si dovrà leggere schiso, cioè a schisa a schiancio, di sbieco, avverbio che è pure a p. 273, 16, a schisa menarla' (la galea), ed è ben documentato negli antichi.

(3) Ho lasciato da parte longo, perchè è forma senese-aretina, e perchè probabilmente così pronunciava il Barberino stesso.

(4) Qui pure trascuro le rime del tipo gionto ponto ecc., che si trovano talvolta anche senza necessità.

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(5) Adopero l'edizione del CARDUCCI, Poesie di Lorenzo de' Medici; Firenze, Barbera, 1859. Non ho citato marturi Inf. 14, 48, perchè credo sia meglio leggere maturi, ottenendo così un' imagine; del resto l' u potrebbe considerarsi come una trascrizione dell' y greco, scritto talvolta anche nel Medio Evo con u. Quanto a saracine Purg. 23, 103, che lo Zingarelli 157 dice non toscano, è, insieme con saraino, toscanissimo.

5. - Bull. Soc. Dantesca.

(e Par. 3, 87) è comune alla poesia e alla prosa toscana dei primi secoli, e si trova ancora nel Petrarca, Son. 107 (cfr. Sonn. 4, 9). Sta per *criea, colla stessa normale evoluzione, che mostrano mio mia mie, per mieo miea miee, che appajono nell'umbro, Dio per *Dieo, die deve e dia deva, forme di preferenza senesi, per *diee e *diea; cfr. Arch. glottol. ital., 1x 33 sgg., e Romania, xxv 140 sg. Più notevole è furi fuori Purg. 19, 81, che è stato sempre riguardato o come una storpiatura o come un falso meridionalismo. Ma nel toscano più schietto e più popolare i dittonghi ie ed uo passavano in i ed in u, non solo nell'iato colle vocali a, e, o, come nei vocaboli pur ora citati, e come in bue per *buoe, sibbene anche fuori di jato, davanti ad una sola consonante, per motivi e dentro limiti che finora non conosciamo bene. Si trovano adunque, da una parte adivina, priga, insime ecc., cosicchè non è necessario di riguardare come un mezzo latinismo un prima prema del Barberino, Reggim. 315; dall' altra, con frequenza straordinariamente maggiore, buno, cure cuore, fuco, giuco, lugo, figliuli, pizzicaiuli ecc. ecc., e il nostro stesso furi. Noto è il nome dei Cavicciúli, per *Cavicciuoli, che si conservò sempre in tale forma. Sarebbe inutile citare qui esempî nuovi, e basterà rimandare al Giorn. stor. d. letter. ital., x 193, alla Zeitschr. f. roman. Philol., 1x 524, 542, alla Romania, XVIII 599 sg., al Tristano CXXXIII sg.

Vocali disaccentate. 3. Qualche caso di e finale, in luogo di i. Lasciando da parte pare pari Par. 13, 89, frequentissimo ne' primi secoli, Tesoretto (1) 4, 577, 1787, Petrarca ecc., ricorderò l'avv. quive Par. 14, 26, che ricorre, insieme con ive iveritto, nel dialetto senese antico, e si trova ancora nel Dittam. Iv 13, v 5, insieme a quince III 8; e così nel pistoiese, nel lucchese, ive, quinde ecc. Dovrebb'essere la forma originaria, poichè l'i finale di ibi era breve. Meritano appena un cenno i frequentissimi avante Inf. 5, 138; 18, 128 ecc. e davante Inf. 9, 103 ecc.; inoltre diece Inf. 25, 33; 29, 118, Par. 6, 138, che è la forma usata sempre dall'Ariosto, come femminile di dieci; ricorrono in tutti i più antichi testi toscani, e se al tempo di Dante erano a Firenze caduti in disuso nel popolo, certo i vecchi se ne ricordavano bene. Quanto a fuore, Purg. 3, 138; 24, 49 ecc., che è meno legittimo di fuori, si trova esser la forma predominante anche nel toscano occidentale e meridionale, per analogia di altri avverbî in -e; cfr. sopre Petrarca, Tr. d. Fama II 37. Resta cal-me Purg. 8, 12; altrove sempre -mi -ti ecc., mentre il Petrarca adopera, per latineggiare, sempre le forme con e, che del resto erano pur quelle del toscano meridionale. Per l'uso dell'e finale nei poeti anteriori si veda Caix, op. cit., 56 sgg.; Dante non ha preso da loro quasi nulla. Delle seconde persone di presente in -e parliamo al num. 31 a.

(1) Ediz. WIESE, nella Zeitschr. f. roman. Philol., VII 334 sgg. In fine c'è pure il Favolello.

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