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qualità soggetti ad una pena aggravata pe'delitti che potessero commettere nell' esercizio di loro funzioni, come sarebbe più grave dell'ordinaria quella di coloro che gli offendessero.

Negli antichi Codici era distinto il caso degli ufficiali pubblici, propriamente detti, quelli che rappresentano ed esercitano la pubblica autorità, dagli incaricati de' pubblici servizi, e dagli agenti della forza pubblica (§ 240). Ma siamo sempre li; determinazioni, definizioni, casi concreti non se ne vollero. Se non che, fosse per la non ancora dimenticata abitudine, nel parlare della diffamazione si venne a distinguere il pubblico ufficiale dall' incaricato di un pubblico servizio, art. 396.

La Corte di Cassazione si affrettò ad appigliarsi al pretesto che gli dava questo articolo per distinguere fra il pubblico ufficiale, e questo incaricato del pubblico servizio per tornare all'antica ragionevole dottrina, che fa differenza fra un' offesa fatta ad un pubblico spazzino, anche temporaneo, e quella fatta al Presidente di una Corte di Appello o di un Tribunale (1).

Se non che la Corte ammise che vi fosse differenza, nel caso d'ingiuria, ma non ancora ha giudicato se è possi bile in altri casi, anzi ha detto il contrario, perchè ha dichiarato pubblici uffiziali le guardie municipali, anche quando riscuctono una tassa non dovuta che per consuetudine, le guardie daziarie, i guardafreni delle ferrovie, i commessi de' dazii di consumo, i distributori della posta, infine gl' incaricati de' più umili servizi.

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Ma quel che è nuovo è che questa definizione del pubblico ufficiale che ha si gran braccia, che prende dal Ministro all'usciere del Ministero, dal Presidente della Corte di Cassazione all'addetto di una Cancelleria di Pretura, e dal Prefetto della Provincia al semplice manuale, incaricato temporaneamente di qualche opera nella casa del Municipio, lascia da fuori i membri del Parlamento.

Ed è indubitato: negli art. 146, 187, 194, 195, 204 e 365 n. 2o i pubblici ufficiali sono distinti da' membri delle due Camere del Parlamento, nè si è fatto per aumentarne la responsabilità e la pena, perchè questa è sempre eguale o che si offendano gli uni o gli altri.

Per venire a questo concetto, si è dovuto ritenere che i membri del Parlamento non esercitano funzioni pubbliche in pro dello Stato, delle Provincie o de' Comuni.

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Diffamazione ed ingiuria Uno de' reati che ha dato più luogo a dubbii è quello della diffamazione, specialmente quando è fatta con la stampa. Dal modo com'è scritto. l'articolo nel nuovo Codice, pare che non si possa aprir la bocca e dire male di taluno, senza diventar colpevole di diffamazione. Si ha diffamazione nell'apporre ad un tale un fatto che l'espone al disprezzo, all'odio pubblico, o che ne offende l'onore e la reputazione; apporglielo parlando con una o più persone, in pubblico od in privato; il che è addirittura vietare ogni giudizio sulle persone.

La Corte di Cassazione specialmente per la stampa, ha tenuto quasi sempre l'opinione più rigorosa, senza por mente che quel giorno che confermava la condanna di un autore o di un infelice gerente di giornali, per un

fatto di diffamazione o d'ingiuria ne correvano pubblicati altrettanti non puniti che riferivano simili fatti. E non è possibile che sia altrimenti.

Applicare alla stampa l'elastica definizione della diffamazione e dell'ingiuria, anche senza tenersi nessun conto se vi fosse l'animus iniuriandi, come parecchie volte ha ritenuto la Corte, può giungere fino a sopprimere la stampa, elemento organico di ogni governo libero, ed impedire che si raccolgano i materiali della storia (1).

Contravvenzioni Il Codice distingue queste dai delitti, in quanto non si offende con esse un vero diritto, ma solo si minaccia o si pone in pericolo. Senonché, questo criterio è più volte violato nel Codice stesso. Chi p. e. fabbrica o semplicemente detiene istrumenti destinati alla contraffazione od alterazione delle monete è colpevole di un delitto, art. 260. E pure della falsificazione della moneta non ci è principio, è solo minacciata o messa in pericolo. Chi è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte o di stromenti atti ad aprire o sforzare serrature, è contravventore, art. 492, benchè la violenza alla porta, od il furto che si vuole commettere sforzandola, non siano cominciati, ma ve n'è solo pericolo.

E d'altra parte in quasi tutte le contravvenzioni del Cap. IV del Lib. III del Codice, il danno non è solo minacciato, ma è avvenuto, e con tutto ciò non cessano di essere contravvenzioni (§ 347).

Intanto è detto nelle Disposizioni per l'Applicazione del

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Codice che per vedere se un reato preveduto da leggi speciali sia delitto o contravvenzione, si ha a guardare non alla pena, ma al carattere del reato, secondo la distinzione fatta nel Codice Penale, fra delitti e contravvenzioni. Ed è ben naturale perchè seguendo l'antico semplice e chiaro sistema della pena, per la strana nuova disposizione che un delitto può esser punito con tre giorni di reclusione ed una contravvenzione con due anni di arresto, non si avrebbe modo di distinguere e raccapezzarsi quale delle due pene fosse più grave.

Ma se il criterio buono od insufficiente che sia, è rimasto nella mente dei compilatori del Cod. ma in questo non si è osservato, come di sopra, non è maraviglia che la Corte abbia proceduto tentennando a trovare il caraltere del delitto o della contravvenzione, riuscendo alle più inaspettate e spesso non giustifica bili differenze fra i due reati, oscillando per sapere che cosa sia questo carattere del delitto.

Un'altra controversia che la Corte si è trovata a decidere è l'intervento della volontà nelle contravvenzioni, cioè la ricerca se il fatto materiale dichiarato contravvenzione basti da se alla condanna, senza bisogno di provare se fu volontario.

Il principio ragionevole è che nelle contravvenzioni che avvengono per negligenza, o per non uniformarsi alle regole poste per evitarle, il fatto da sè costituisce la contravvenzione senz'altro. Ma questo non esclude che l'imputato non possa provare che non fu negligente, o inosservante de' regolamenti.

E per le contravvenzioni che consistono nel fare qual

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che cosa, niuno può negare che non basta il fatto se non a presumere la volontà, ma questa può essere esclusa da una prova in contrario che non si può negare all'imputato.

Inteso sempre che si parla del fatto per cui si cade in contravvenzione, non dell'altro che provviene dopo come conseguenza di questo primo (§ 347).

L'art. 473 ha due casi di contravvenzio ni, uno in omittendo di collocare i segnali o ripari prescritti da' regolamenti per impedire i pericoli di opere fatte o di oggetti lasciati su luogo di pubblico transito. L'altro in faciendo, cioè rimuovere i segnali già posti, e quindi facendo risorgere il pericolo.

Qual'è la legge, la logica giudiziaria che può vietare al primo di questi contravventori la prova che egli mise bensi il segnale, ma che questo fu abbattuto dal vento, dalla pioggia, od anche rimosso da quell' altro contravventore di cui è parola nella seconda parte dell'articolo, tanto il caso è possibile?

E chi può impedire a quest'ultimo di provare, si creda o no, che rimosse il riparo perchè non lo stimò una precauzione contro un pericolo, ma che esso stesso costituisce un pericolo al pubblico transito?

Quel che non si può ammettere a provare, nelle contravvenzioni come in ogni altro reato, è l'errore di diritto, cioè di non sapere che negligendo od operando, si contravveniva ad una disposizione legislativa. Certo se non secondo equità e giustizia naturale, è secondo giustizia legale, o meglio fiscale, tener colpevole una domestica cui il padrone di un fucile, scarico, di cui ha licenza, per

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