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Guglieri Ernestina. - Canto VIII Purgatorio ». [In Cenni letterarii di E. Guglieri. Cremona, tip. sociale, 1893].

Esame estetico delle due prime famose terzine del canto VIII di Purgatorio, Era già l'ora che volge il disio.... (268 Iannucci Alfonso. Teologia estetica e sociale della divina Commedia di Dante Ali ghieri: conferenze. [Recens. in Civiltà cattolica. Anno XLIV, serie XV, vol. VIII, quad. 1043]. L'opera, [Napoli, Morano, 1892, in 8'], nel suo tutto, manifesta nell'autore svariata dot trina e più svariata erudizione, fantasia vivacissima e facilità di stile. Quanto alla materia l'autore prova generalmente bene l'assunto preso a trattare. Non è bensì lodevole quel troppo diffondersi a mettere in rilievo l'ortodossìa di Dante, verità tanto evidente che niun critico, ai nostri giorni, per quanto razionalista, si attenterebbe di revocare in dubbio. Il volere poi scorgere nel dilettoso monte del II canto d' Inferno il Calvario, sarà congettura ingegnosa, ma non pare si fondi sopra solido fondamento. Maggiore esattezza di linguaggio sarebbe desiderabile qua e colà, dove il Jannucci tocca punti di teologia. Da quello, per esempio, che egli scrive a pagine 171, non potrebbe altri a ragione di logica dedurre che la Trinità in divinis può conoscersi col solo lume della ragione? Dottrina quanto falsa, altrettanto aliena dall'opinare del chiaro autore, che si mostra altrove versato nelle opere dell' Angelico. Nella conferenza IX, ove tratta della croce sabauda nel campo di Sahati e di Dogali, son parecchi concetti ispirati più dal fervore dell' estro poetico che dalla nuda verità dei fatti. Cfr. no. 26.

Inguagiato Vincenzina. Cfr. no. 304.

(269

Lajolo Gregorio. — Indagini storico-politiche sulla vita e sulle opere di Dante Ali ghieri. Torino, tipografia L. Roux e C., 1893, in 8°, di pagg. 213.

I. Guelfismo e ghibellinismo. Il Boccaccio, mentre infierivano ancora le fazioni guelfa e ghibellina, diceva di non sapere onde cotali nomi si avessero: frase che sta bene accanto a quest'altra di Gregorio X che del nome ghibellino nel 1273 esclamava Inane nomen quod quid significet nemo intelligit. Noi siamo da lunga mano avvezzi a confondere le lotte tra la chiesa e l'impero colle lotte tra città e città, confederate le une contro le altre sotto i nomi di leghe guelfe e ghibelline; tanto più che i cronisti del tempo usano per le une la frase di parte di santa chiesa per le altre di parte d' imperio; onde il più rudimen tale buon senso ne dice che, se i cronisti adoperano queste frasi, bisogna pure che ce ne sia una ragione. Tuttavia, che esse corrispondano esattamente a due ideali politici opposti, non pare all'autore: dacchè i cronisti ne fanno uso non pure quando chiesa ed imperio, essendo tra di loro in pace, continuano le lotte tra guelfi e ghibellini, ma anche quando quelle lotte non cedono contro alla volontà di papi e di imperatori. Questo fatto, anzi, induce il Lajolo ad un altro dubbio: che neppure allorquando Italia pare divisa in due parti con a capo le due autorità papale ed imperiale l'una contro l'altra armate, non si possa con fondamento ritenere che gli animi siano divisi da ideali opposti; e gli conferma il sospetto che il combattere per la chiesa o per l'impero non sia che una delle vie che avrebber condotto, come condussero, al conseguimento di certi ideali che stavano al di sopra della chiesa e dell'impero ed eran comuni alle due parti. II. Tendenze politiche di Dante in patria. Dante Alighieri fu uomo di parte? Quel poco che sappiamo di lui in patria non sembra contraddire alla narrazione del Boccaccio, la quale, sfrondata di tutte le frasi retoriche, viene a dire che

il giovane allievo di Brunetto Latini a voler ridurre in unità il partito corpo della sua republica, pose ogni suo studio. E credendo molto più di bene poter operare per la sua città, se nelle cose publiche fusse grande, che essere privato, si diede a seguire i publici offici e vedendo che per sè medesimo non poteva una terza parte tenere, la quale giustissima la ingiustizia delle altre due abbattesse, tornandole ad unità, con quella si accostò nella quale, secondo il suo giudicio, era più di ragione e di giustizia, operando continuamente ciò che salutevole alla sua patria e a' suoi concittadini conoscea. Tutto ciò non è da uomo legato ad una parte di cittadini contro l'altra, nè di una setta politica piuttosto che di un'altra; e coloro che fanno Dante guelfo in patria debbono venire al dilemma: o Dante non è quale il Boccaccio lo descrive o il nome di guelfo è nome vano. Quindi, nè gli offici sostenuti nel comune, nè le battaglie combattute per esso ci posson far venire alla conclusione cui giungono il Balbo ed i suoi seguaci. III. Condanna di Dante in esiglio. Nella sentenza di Cante Gabbrielli, fra i capi d'accusa gravanti su Dante e i suoi tre compagni, è notevole quello di essersi essi adoperati contra summum pontificem et dominum Karolum pro resistentia sui adventus, vel contra statum pacificum civitatis Florentie et partis guelforum. La prima parte dell'accusa sembra più fondata della seconda: e si potrebbe accettare non solo quale una conferma della ostilità che Dante ha mostrata contro al pontefice ne' consigli del comune, ma anche perchè non contraddice, anzi consuona del tutto colle allusioni che son nel poema a questi due personaggi, e col severo giudicio di lor torbidi maneggi contro la parte preponderante nel comune fiorentino. Ma anche non bisogna dimenticare che i neri ebber molto sospirato l'intervento di Bonifazio: e spacciandosi veri fedeli di santa chiesa tanto armeggiarono che egli, consigliato di abbattere il rigoglio dei fiorentini, promise di prestare a' guelfi neri la gran potenza di Carlo mandandolo con nome di paciaro a Firenze ma col proponimento, in realtà, di fare i bianchi nemici della casa di Francia e della chiesa. Dante Alighieri doveva essere irresistibilmente travolto nelle sventure de' bianchi, nonostante la sua buona volontà e le proteste di essere senza parte. IV. Questione cronologica e politica sul libro De Monarchia. Chi esaminasse attentamente il contenuto e la forma delle varie opere di Dante, forse potrebbe trovare una progressione di maturità di pensieri tale, da ammettere senz'altro un nesso cronologico, in cui appare prima la Vita nuova, poi il De Monarchia, poi il Convito e il De vulgari eloquio, poi le Epistole politiche e la Commedia, dove ha pieno svolgimento la sua potenzialità intellettuale ed artistica. Nel trattato della Monarchia Dante ha voluto combattere le imprese di Bonifacio interpretando così le idee ghibelline de' suoi concittadini, e porre un argine ai mali dell'umanità. V. I primi anni dell'esilio di Dante. Dante in esilio fu fatto, come gli altri bianchi, ghibellino per forza senza essere stato guelfo in patria. Che i fuorusciti bianchi avessero fatto causa comune con i ghibellini, è appunto ciò che racconta il Compagni: nè è difficile a comprendersi un tale affratellamento, dacchè tutti costoro aspiravano a tornare in patria: e se pur tra loro poteva essere una tradizione di vicendevoli rappresaglie, alimentate da odii, quelle rappresaglie, di fronte a nemici comuni potevano, se non estinguersi, almeno dimenticarsi un istante. Che Dante si sia unito ai fuoru. sciti per rientrare in Firenze non si può dubitare: chè il suo nome è tra i firmatarii del patto scritto nel congresso di San Godenzo di Mugello nel 1302. Non ugualmente sicuro è che egli si trovasse in Mugello nel 1303 e al tentativo della Lastra nel luglio del 1304: come non pare neppure essersi l'Alighieri trovato coi bianchi nel 1306 all'assedio di Monteaccinico. L'esito infelice dell' impresa della Lastra pare ad evidenza profetato nelle parole di Cacciaguida ai versi 61-66 del XVII di Paradiso: e Dante, affermando che non avrebbe avuta rotta o rossa la tempia, lascia pure intendere che non ci ebbe parte. Ciò avvenne un poco appresso che i suoi si adirarono con lui: cioè un poco prima del tentativo della Lastra ci fu rottura di amicizia fra Dante e i compagni di esilio. Questo tentativo avvenne il 22 di luglio

1304: ma le cronache ci narrano altre sconfitte non meno sanguinose e vergognose che risalgono molto tempo addietro. Probabilmente Dante, non molto dopo il congresso di San Lorenzo di Mugello [8 di giugno 1302] disgustatosi del modo con cui procedeva la guerra, si allontanò da suoi compagni, forse indottovi dall'esito del primo scontro in Mugello, quando la parte nera passò l' Alpe; ville e castella arsono; e furono nel Santerno nell' Orto degli Ubaldini e arsonlo; e niuno con arme si levò alla difesa. [Cronaca, II, 35]. Ammessa tale ipotesi, saranno spiegabili due altri fatti, cioè dell' essersi Dante ricoverato presso Bartolommeo Scaligero e dell'aver egli potuto percorrere molte parti d'Italia prima della fine del 1304. Nella corte di Verona potè l'Alighieri occuparsi di questioni estranee alla guerra che i suoi compagni di sventura facevano a Firenze, confessando anzi che in quella voleva, con buona pace dei fiorentini, riposare l' animo stanco, e terminare il tempo che gli era dato. Ma mancatogli il protettore, e succedutogli nella signoria Alboino, ignaro dell'arte non insegnata che dalla natura, e a pochissimi, di beneficare gli uomini alteri e non obbligarli ad essere ingrati, e, di più, rinata in Dante la speranza di rientrare in patria per l'intervento del cardinale da Prato, abbandona lo Scaligero e si riaccosta ai fuorusciti. Nel Convito [I, 3] com. posto indubbiamente in esitio prima del 1305 in Verona, presso lo Scaligero, si ha una riprova dei sentimenti del poeta. VI. Lo stato politico e morale d'Italia in principio del secolo XIV, secondo la mente di Dante Alighieri. Il procedere calmo che risulta nella Vita Nuova, nella Monarchia, nei primi tre libri del Convito, confrontato colle invettive che qua e là interrompono l'autore nel quarto di quel trattato, nel primo della Eloquenza volgare, nelle Lettere politiche, nella Commedia, rispecchia tutta l'anima di quell'uomo che dalla solitudine della sua cameretta di studio sente il frastuono del mondan rumore che si agita di dì in dì, rendendolo sempre più eccitato. Il cardinale Orsini, dopo aver tentato in tutti i modi di indurre i neri di Firenze alla pace co' fuorusciti, nel 1307 tornava ad Avignone, dove la sedia di Pietro erasi trasferita. Intanto le divisioni e le guerre civili si estendevano anche in Lombardia, in Liguria, in Romagna: e Dante, forse disperato e cruccioso di tutto ciò, si recava allo studio di Parigi, dove rimase, probabilmente, finchè non ebbe speranza di eventi megliori. Forse di là egli irruppe nella sublime apostrofe all'Italia, di dolore ostello: che dalle parole ivi rivolte ad Alberto tedesco, come ad un vivo, si potrebbe congetturare scritta prima del 1308. In questa apostrofe, spirante tutta l'amarezza che può provare un sincero amatore della pace, campeggia l'idea dell'impero: ma anche qui ciò che più sta a cuore al poeta, non è l' impero per sè, ma il fine di esso. [Cfr. Monarchia, III, 15]. Riflettendo che il sarcasmo dantesco tocca il colmo quando parla di Firenze, parrebbe, a prima giunta, ragio nevole la sentenza del Balbo che contro di essa egli sia portato dalla bile ghibellina. Ma Dante, come tutti gli uomini, sente meno intensamente il bene che il male presente, e va in cerca di un bene ideale che ritrova nel passato, abbellito dalla fantasia de' poeti, e nel futuro, sempre acconcio a foggiarsi ad imagini liete. E che è la Commedia, se non un contrasto del passato col presente, da cui deve nascere una vita nuova ripiena di speranze, un mondo idealmente perfetto? Inoltre si deve osservare che nei rimproveri che l'Alighieri muove alla città sua, non è la grandezza materiale di Firenze, ma il suo decadimento morale che egli deplora: e quello che disse Dante [Parad., XV, 97-133], dissero tutti coloro che non erano uomini volgari a quel tempo, e lo scrisse nella sua Cronica [III, 46] Dino Compagni, un dei pochissimi che, superiori ad ogni privato benessere, si adoperassero pel bene della città, e colui forse che più si assomiglia a Dante per ischiettezza d'animo e per nobiltà di sentimenti. Nè Dante si ferma a rimproverare a Firenze il suo decadimento morale: ma a tutta Italia, e più alle città vicine che forse meglio conosceva, egli muove le sue aspre censure [Inf., XXI, 41; XXXIII, 79-80, 151-152; Purg, XIV, 19 e segg, 41 e segg.; XVI, 115-127; Parad., IX, 25 e segg.] per le sanguinose guerre civili delle quali furon teatro. E se fosse vero, come vor

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rebbe il Foscolo, che Dante giudicava degli altrui falli da uomo di parte, da poeta che imagina perfezioni di natura e da teologo che non può mai perdonare, avrebbe dovuto egli, per lo meno, dipingere con colori men foschi le terre dove predominava la parte a cui il Foscolo suppone che Dante appartenesse. Ma ciò non è certamente: e le perfezioni di natura che Dante sogna, son quali non può possedere un uomo di parte, ingiusto appunto perche parziale e malvagio perchè ingiusto. Il confronto tra i suoi altissimi ideali politici colla realtà presente, non poteva non disgustare profondamente l'anima dell' Alighieri contro i reggitori de' suoi tempi, ai quali volgeva la nota apostrofe del quarto trattato del Convito [6]. È pure da notare come Dante non muova esplicito biasimo a tutte le regioni d'Italia: come egli risparmi, anzi, le due Sicilie, Piemonte, quasi tutta Lombardia e Venezia che, per esser soggette ad immediata autorità di principi, erano meno divise dalle discordie fraterne fomentate da gelosia e ambizione di prevalere. Ciò che potrebbe addursi come un'altra prova dell'amore per la pace e per la concordia de' popoli, che stava in cima a tutti i pensieri di Dante. VII. L'Italia nella unità politica mondiale. Le teorie politiche esposte da Dante nel libro IV del Convito, scritto indubbiamente tra il 1306 e il 1308, si direbbero una matura elaborazione dei concetti esposti nel De Monarchia [I e II]. Quivi è detto, in sostanza, che il fine della vita umana è la felicità; la felicità si ottiene nella pace, la pace colla giustizia: a questa scrivere, mostrare e comandare, è questo ufficiale posto,. . . . . cioè lo imperadore. Impero e imperatore non avevano ragion d'essere che come mezzi per conseguirla: e quando la civiltà avesse progredito a segno che la sola legge naturale bastasse a tener in freno le umane cupidigie, il mondo avrebbe potuto reggersi senza l'imperatore. Questo sistema politico potrà, se vuolsi, essere chiamato utopia; ma non si può negare che non sia un'utopìa sublime. Ai tempi dell'Alighieri ci fu anche l'uomo del suo cuore, il quale forse, senza conoscere l'utopia di lui, mostrò di avere pensato e voluto ciò che doveva pensare e volere qui dicitur romanus princeps nel trattato di Monarchia. Dopo il secondo Federico, Enrico VII di Lussemburgo è l'imperatore più romano che mai sia calato in Italia: dove, verso guelfi e ghibellini, egli non ha altro ufficio che di pacificatore o castigatore, non mai di consettario degli uni o degli altri. Dante esulta alla sua venuta: e da Cesare aspetta non la vendetta sui guelfi, come alcuni, tra i quali il Foscolo, credono, ma la punizione giusta e severa di tutti i ribelli. Dante vuole che per ciascuno sia tenuto giudice supremo l'imperatore, ma vuole, al tempo stesso, la conservazione della libertà. Le mutue diffidenze di vincitori e di vinti, donde nasceva la diffidenza verso l'imperatore, furono causa della ribellione di molte città, e specialmente di Firenze, che si fece capo di resistenza ad Enrico: onde gli inviti di Dante a scendere in Toscana, a punirvi i perturbatori della pace, domati i quali cittadini e respiranti in pace, ricorderemo nel gaudio le miserie della confusione. Fallita l'impresa d' Arrigo per mavolere degli italiaai, e, fors' anche, per la doppiezza di papa Clemente, Dante incolpava de' mali d'Italia la gente di chiesa a Cesare noverca, non cessando per questo di sperare tempi megliori auspice, forse, un pontefice adombrato nel veltro. Il moto de' fiorentini e collegati contro Arrigo non fu prettamente antimperiale: ma neppure fu un moto nazionale quello che li spinse a confortar Brescia alla resistenza perchè la sua caduta non riuscisse in vestram et nostram et totius Italiae necem et periculum. Costoro non pensavano alla indipendenza nazionale: ma temevano l'imperatore che dovunque rimetteva i fuorusciti in città; anima di tal movimento sono sospetti di cittadini oppressori che temono, alla lor volta, di essere oppressi da cittadini, e nient'altro. Ma se non era nelle menti degli italiani, il concetto della unità politica era bensì in quella di Dante, che fu primo a pensarla e a volerla [Vulg. eloq., I, 18, ecc.) e l'Italia era nel suo cuore, oggetto delle sue speranze, cagione degli impeti più alti dell'ira sua. La politica imperiale del grande fiorentino non è, in conclusione, quella di un fazioso che invoca lo straniero per desiderio di vendetta: ma, dati i tempi in cui egli

visse, quella di Dante potrebbe ancora sembrare, piuttosto, la megliore delle utopie, il più bel sogno politico che potesse fare chi desiderava sinceramente di sanare le piaghe d'Italia e trarla di servitate a libertate Per tutte quelle vie e tutti i modi Che di ciò fare hanno podesta te. VIII. Il papato e Dante. Nella lotta tra chiesa ed impero Dante non ci appare come imperialista piuttosto che come papista; corregge gli eccessi in cui diedero certi imperatori e papi, volendoli entrambi indipendenti l'uno nel regno temporale e l'altro nello spirituale. Concilia l'impero colla libertà dei popoli: sotto l'alta magistratura dell' imperatore, le genti vivono con leggi proprie; le controversie tra nazione e nazione sono definite dal supremo arbitrato imperiale, impedendo così il turbamento della pace universale indispensabile al pieno svolgimento della civiltà umana. Quanto alle lotte sanguinose de' suoi tempi, lotte di interessi municipali, di gare cittadine, sotto le denominazioni di guelfi e ghibellini, Dante vi ha una parte più passiva che attiva; ci si vede l'uomo che le abbomina, che rifugge quanto sa e può da tutto ciò che possa dar sospetto di essere uomo di parte, compiacendosi di essere in odio tanto agli uni come agli altri, quale cittadino che ha fatto parte per sè stesso. IX. Del soggettivismo di Dante politico e partigiano supposto nella rappresentazione storica del poema. L'avere Dante scritto un'opera in favore del sacro romano impero gli ha procacciato impropriamente il nome di scrittore ghibellino. Tutt'al più, gli si poteva dare quello di imperialista, se nelle questioni trattate egli avesse mostrato una tendenza decisiva a favorire l'imperatore contro i papi: ma neppure ciò si avvera mai nè nella Monarchia nè altrove. Egli ha costantemente la sua idea fissa in colui dal quale, come da un punto, si biforca la podestà di Pietro e di Cesare; in Pietro a cui mette capo il mondo spirituale, in Cesare al quale è commesso il mondo materiale; concede al primo una preminenza sul secondo, ma non concede che il secondo nasca e dipenda dal primo: Cesare e Pietro non si debbono contrastare, ma agevolarsi la via l'un l'altro nel guidare l'umana famiglia. Segnato nettamente il còmpito dell'uno e dell'altro, i suoi giudizi sono sempre rigidamente e scolasticamente scientifici tanto nella calma delle sue opere filosofiche, come negli impeti della sua ira. Se contro i papi egli inveisce più che contro gli imperatori, ciò non dipende da lui, e lo fa nonostante la reverenza delle somme chiavi, senza riserve, senza eccezioni, perchè i papi gliene danno maggiori e più frequenti motivi. Il soggettivismo storico di Dante si potrebbe intendere come involontario, secondo pare lo intenda il Bartoli: ma che nella storia ci metta di suo propo sito qualche cenno più conforme alle sue tendenze politiche e partigiane, alle sue passioncelle personali che alla verità, od a quello che credeva essere la verità, non è riuscito al Lajolo di vederlo nè dietro le tracce del Foscolo, nè del Balbo, nè del Bartoli, nè d'altri: e, quel che è più, a scoprire cosa non conforme alle dicerìe del tempo e alla veridicità storica. Dante non si presta, dunque, al giuoco di certa critica e nel diluvio delle antiche e delle nuove censure a suo carico, la sua fisionomia appare sempre più raggiante di quell' aureola che suole circondare il volto di coloro che non sono al ver timidi amici, anche colla certezza di crearsi odi, pericoli e stenti. La divina Commedia non fu il carme Che allegrò l' ira al ghibellin fuggiasco, ma il canto del poeta che, sciolto da tutte le misere gare di parte, si solleva in un suo mondo proprio, dove l'uomo virtuoso, dimentico dei mali che lo travagliano, contempla il trionfo della giustizia, mentre ancora prova gli effetti della nequizia di coloro che tutto manomettono Calcando i buoni e sollevando i pravi. Di questo libro è una lunga ed accurata recensione del nostro M. Barbi nel Bullettino della Società dantesca italiana, nuova serie, I, 1. (270

Legnani Enrico. Il papa secondo la teologia e la storia: catechismo. Trento, tip. edit. Artigianelli d. f. d. M., 1893, in 16o, di pagg. 384.

Vi si parla, fra altro, del dominio temporale, del potere dei papi nel medio evo, delle

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