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mente col favore dei conti di Bagnacavallo : da quel tempo però il decadimento della famiglia procedette rapidissimo; gli Anastagi non ebbero più parte nelle cose pubbliche, e il loro nome non risuonò più nelle carte dei cronisti nel 1300, l'anno della visione dantesca, in un catalogo di coloro che pagavano pensioni, forse per investitura di terreni, all' arcivescovo di Ravenna, furono registrati parecchi, Rustico, Androne, Isacco, Pepolo e Domenico, figliuoli in parte o nepoti di Anastagio 2; ma dovevano essere ridotti a basso stato: e tutti poi erano finiti, e della lor casa appena rimaneva il nome e la memoria delle antiche virtù e cortesie, allorchè l'esule priore di Firenze mise il piede nella vecchia città imperiale.

(Continua).

T. CASINI

1 II Rossi, p. 431, pone al 1257 la pacificazione: noto che nel 1258 troviamo podestà di Ravenna quello stesso conte Ruggero di Bagnacavallo che nel 1249 aveva avuto parte nella sommossa contro gli officiali ecclesiastici.

2 FANTUZZI, V, 176.

NOTA

1. 4

Nella prima parte di questo scritto, pubblicata nel quaderno I del Giornale, occorsero, perchè io non ne ebbi le bozze, i seguenti errori di stampa che desidero corretti: p. 21, l. 16 del Tronto leggasi dal T.; p. 22, 1. 5 di quei fatti leggasi dei suoi fatti, e nella nota 1, de' Ducis leggasi chè Ducis; p. 24, 1. 6 asseruns leggasi asserens; p. 26, 1. 19 in cepto leggasi incepto e 1. 28 intrantens leggasi intrantes; p. 27, l. ultima alla mano leggasi in pugno.

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A PROPOSITO DI VARIANTI

Devo ringraziare il prof. Adolfo Borgognoni e il canonico Ferdinando Savini che si sono occupati della mia recensione sull' invidioso fummo, il primo con un articolo in questo giornale, l'altro con una lettera a me diretta.

Con questa lettera il can. Savini, pur mostrando accettare il sistema penale dell' Inferno da me proposto, mi fa bensì la difficoltà che « come nell' Inferno non ha luogo la superbia, così non debba averlo l'invidia, le cui manifestazioni, come quelle della superbia, ben si possono trovare in più dannati ». Mi pareva però d'avere accennato che la superbia incontinente ben potea trovarsi negli eretici; ma poichè tutta questa materia è stata veramente da me svolta con troppa fretta, non sarà male che ci ritorni sopra alquanto, a completare, e rettificare anche in parte, quello che da me fu scritto precedentemente.

Il mio assunto in conclusione era questo. Nell' Inferno i sette peccati capitali si trovano puniti secondo i tre aspetti che presero, d'incontinenza, di violenza, di frode; eccetto solo l'accidia che, come negazion di passione, Dante non poteva collocare sotto nessuna di quelle tre categorie, ma per la quale creò invece, con sublime invenzione, un riparto speciale nell'antinferno; ed eccetto la gola, la quale, pel suo rapporto più con la materia che con lo spirito, ammette solo la forma della incontinenza, escluse quelle della frode e della violenza. Un peccato capitale è il movente di ogni colpa; ma finchè questa rimane entro certi limiti, non avvi che incontinenza; se li varca, si entra necessariamente nei dominii o della violenza o della frode. I lussuriosi adunque, gli avari e prodighi, gli irosi, gl'invidiosi e i superbi trovano il loro luogo non solo nel riparto degl' incontinenti, ma anche nel successivo o in tutti due gli altri, compreso il subriparto dei traditori: basta solo per ciò, che ognuno di quei vizi abbandoni il puro aspetto passionale, per assumere quello di violenza in qualsiasi de' suoi tre aspetti, contro il prossimo, contro sè, contro Dio, natura od arte, ovvero di fraudolenza e di tradimento, soli esclusi qui, Per la contradizion che nol consente, prodigalità ed ira. Per siffatto modo riesce naturale che i lussuriosi, dopo essere stati collocati tra gl'incontinenti in genere, si ritrovino poi anche tra i violenti contro il prossimo, come quel Sesto, violatore di Lucrezia, non che tra i violenti contro natura; e tra i frodolenti, nei seduttori e nelle meretrici, e in Mirra, falsaria della persona, e Putifarre, della parola; e potrebbe anche essere che per isfogare sue voglie lascive uno divenisse persin traditore; ma Dante non ne dà esempio. Anche gli avari, prima si ritrovano fra gl'incontinenti; ma è certo che altri esemplari se ne ritrovano pure in quei violenti contro il prossimo Che dier... ne l'aver di piglio, e Che fecero alle strade tanta guerra, e nei violenti contro l'arte o usurai; e poi nei fraudolenti, sotto le molteplici forme dei mezzani, dei lusinghieri, dei simoniaci (che con gl' indovini che li seguono potrebbero ben dirsi fraudolenti contro Dio), e barattieri e ladri, e Schicchi, falsario della persona, e Mastradamo delle cose; e nei traditori, da quel Buoso da Duera che piange l'argento dei Franceschi, insino a Giuda, dai 30 danari. I prodighi (una sotto forma dell'avarizia) sono puniti fra gli incontinenti: ma non per questo sono esclusi dai violenti, facendosene

anzi una sotto classe speciale, tra i violenti contro sè stessi. Seguono gli irosi, ma anche questi, benchè collocati tra gli incontinenti, non v'è ragion di escluderli dai violenti sia contro il prossimo, sia contro di sè; e dei primi sarà (se pur di lui deve intendersi) quell' Alessandro di cui il Petrarca disse che Vincitore Alessandro l'ira vinse, dei secondi quella Amata di cui nel Purgatorio Dante dirà Perchè per ira hai voluto esser nulla? O quale difficoltà adunque, che anche gli invidiosi possano trovarsi fra gl'incontinenti, quando il vizio in essi non varcò le soglie dell'interno dell'animo, quantunque non possa dubitarsi che, presa invidia, com'è anche in Purgatorio, nel suo senso ampio di malanimo verso il proprio simile, essa deva essere ugual mente colpita in taluni dei violenti contro il prossimo, e tra i frodolenti, negli ipocriti, ne' mai consiglieri, nei Seminator di scandalo e di scisma nel falso Sinon greco da Troia, e in molti dei traditori fra cui certamente in Caino?

L'unica vera difficoltà nasce dalla superbia, della quale sebbene non sia dubbio poter cagionare atti violenti e fraudolenti, pure non la vediamo colpita fra gl'incontinenti, almeno nella sua forma più comune, di superbia contro il prossimo. Potrebbe darsi però, come dissi, che Dante si fosse contentato di mostrarcela dal solo suo aspetto di superbia contro Dio, nell'eretico incontinente, al quale così contrapporrebbesi e il violento bestemmiatore che spre giando Dio col cuor favella (Inf., XI, 51) e il fraudolento indovino Che al giudicio divin passion porta, vuole cioè renderlo passivo, sottoponendolo alle sue previsioni (XX, 30). E la cosa potrebbe forse spiegarsi come una dimenticanza del poeta; ma meglio assai con quello che può di frequente avvertirsi, che Dante non ama la simmetria fredda e rigida, uso tavole geometriche, bensì quella a larghi tratti, che è anche nella natura delle cose. Basta che vi sia un nesso, una dipendenza logica qualunque, perchè le concezioni del poeta come le opere del Creatore appaghino la mente; lasciando pur sempre luogo ad un vago, ad un indefinito, che possiamo bensi spostare, ma non sopprimere, rendere sempre più alto, ma raggiungere non mai. Così qui Dante avrebbe per il rigoroso ordine del suo poema dovuto collocare fuori della città di Dite un cerchio pei superbi: preferì, come più consono ad altre esigenze della sua fantasia, creare, subito entro la citta roggia, un cerchio per gli eretici, che pur senza rompere l'ordine organico del poema (chè anche negli eretici la superbia è fondamentale) gli permetesse dare esito a tanti concetti poetici che gli fremevano in petto, a quella figura di Farinata fra l'altro, ove la superbia è quasi magnificata.

Un'altra osservazione che mi fa il canonico Savini è là ove io accenno non potersi dare significato caratteristico alla nudità degli ignavi, essendo questa nota comune a dannati e purganti; al che egli oppone l'O in eterno faticoso manto del XXIII d' Inferno e Di vil cilicio mi parean coperti del XVIII di Purgatorio. Ma va da sè che io intesi della nudità degli spiriti, in genere, senza escludere che taluni potessero essere puniti precisamente mediante una copertura. Chi volesse tuttavia chiarir meglio la cosa, e rettificare insieme qualche errore di stampa che è trascorso nel mio articolo precedente, così potrebbe leggere il capoverso relativo:

A pag. 44 dovrebbe essere provato che gli ignavi, girando rapidissimamente dietro un' insegna, rimangano sempre, come il paleo, al luogo medesimo; nè parmi che l'esser nudi possa significare come fu nudo il loro animo, chè nudi, tranne i sospesi del Limbo, e tranne naturalmente tutti quelli in cui il vestito è pena, come gl'ipocriti incappati, i mai consiglieri avvolti nel foco, e i purganti invidiosi coperti di cilicio, sono tutti gli abitanti dell' Inferno e del Purgatorio.

Al capoverso successivo, ove io osservo, nei sospesi del Limbo soli essere il desiderio di Dio, egli mi fa acutamente avvertize che un po' di questo desiderio par quasi di vedere in Francesca quando dice Se fosse amico il re dell'universo; e che gli altri dannati pur devano sentirlo, ma lo tacciano perchè più superbi nell'animo.

Quanto ai lussuriosi, sono con lui: è un fatto che verso di questi (come verso i superbi)

il poeta, forse per solidarietà, si mostra più indulgente: essi peccarono per amore, e Dio è amore: essi sono i meno rei e più prossimi al limbo ove questo desiderio è cocente; è naturale che rimanga in loro questa reminiscenza della terra; con una influenza subiettiva introdotta nel poema, analoga a quella che scorgesi per esempio nelle anime appena sbarcate al Purgatorio, che quasi obliano d'ire a farsi belle, la quale distingue dagli altri i beati nella Luna, alla terra più prossimi, e conservanti quindi l'effigie del viso che negli altri è tutta assorbita dalla luce. Estenderlo però a tutti i dannati mi parrebbe un guastar troppo la linea logica e severa che dee distinguerli dai redenti, un far perdere all' Inferno la sua espressione, il suo carattere, il suo tipo, di regno delle tenebre in antagonismo al regno del cielo.

Venendo al professor Borgognoni, egli può star sicuro che non essendo mai stato tenero della variante congetturale Ne solcar lampo nuvole d'agosto (peggio poi dell'altra, sgrammaticata, Nè solca, ctc.), non mi curai davvero di attribuirla piuttosto all'uno che all' altro, ma accettai per buono quello che ne scrisse il Faucher. Se di una cosa piuttosto vorrei maravi gliarmi, si è ch'egli tenga ancora a quella che mi permetto di chiamare un gioco d'ingegno, una bizzarria giovanile. Io capisco questo genere di varianti, o, come le chiamano, restituzioni, quando si possono intendere dirette a eliminare trascorse o alzate d'ingegno di copisti, quali sarebbero al VII, Co d'Inferno Qual ella sia, parole non ci affulcro. (Zani); XVII, 123 di Purgatorio, E tal convien ohi 'l male altrui impronti (Ronchetti, ne l'or cessata Rivista dantesca); XII, 142 di Paradiso Ad inneggiar cotanto paladino (Andreoli); XIII, 104 Regal prudenza quel vedere impari (Dionisi; ove la Crusca: e quel vedere impari; il Buti, e quel, vedere impari; il Lombardi, è quel vedere im-pari; il Giusti, è quel vedere impari); ma che diavolo di copista può mai, se Dante avesse anche scritto solca lampo, avere copiato sol calando? La similitudine poi così modificata avrebbe forsanco due difetti: uno, che sarebbe una ripetizione dell'altra al XVIII, 35 di Paradiso E quel ch' io nomerò, lì farà l'atto Che fa in nube il suo foco veloce; l'altro, che il solcare, più che del lampo, parrebbe proprio della folgore.

Ma alla mia interpretazione (che ho poi visto al solito che non sarebbe neppur mia, sibbene dell'edizion dell'Ancona, che la propone sotto forma alternativa; e a quanto mi dicono, anche del Monti, nelle postille al Biagioli) il Borgognoni oppone: 1° che il fenomeno in essa accennato non è frequente; 2.° ch' essa equivarrebbe al dire che un tale entri in casa colla stessa velocità con che entra la luce in una stanza oscura allorchè s'aprono d'improvviso le finestre. - Piano un poco. Io non ho parlato del sole che riappare dallo squarcio di una nuvola, ma dei raggi del sole che squarciano una nuvola, dietro la quale il sole sta ancora nascosto, i quali raggi si slanciano nell'atmosfera luminosa e dentro di essa si scorgono per lo stesso effetto che Dante così ben descrisse al XIV, 112 di Paradiso con la nota similitudine Così si veggion qui, diritte e torte...; io ho parlato dello stesso fenomeno che Dante, da altro punto di vista dipinse al XIII, 79 con l'altra similitudine: Come a raggio di Sol che puro mei Da fratta nube, già prato di fiori Vider, coperti d'ombra, gli occhi miei (e Sole per i suoi raggi non dev'essere modo singolare, se Dante stesso dà a quella voce contemporaneamente i due significati nel luogo di Purgatorio III, 16 Lo Sol che dietro fiammeggiava roggio Rotto m'era dinan71).

Le due similitudini che io ho citate rispondono poi anche alla prima obiezione, senza ch'io deva addurne tante altre a dimostrare come in esse il più delle volte Dante. anzichè il fenomeno comune, tenda a mettere in mostra la circostanza inavvertita, il movimento psicologico sottile, l'osservazione originale, come quegli pel quale la similitudine non era già un esercizio di rettorica, ma un bisogno di far sentire vive al lettore imagini non di per sè evi. denti e che pur voleva che fossero nettamente e profondamente percepite.

Del resto la interpretazione da me preferita non pretendo già che sia trovata ammirabile nè che non ve ne possano essere delle migliori; a me basterebbe fosse ritenuta la meno irragionevole di quelle messe fuori finora, e sufficiente a non lasciar desiderare nessuna restituzione del testo.

Voglio sperare che la mia franchezza non sarà per dispiacere all'illustre professor Borgognoni, col quale dopo tutto sono ben lieto di trovarmi d'accordo per quanto riguarda la restituzione dell' invidioso fummo; dolente solo che mi sia sfuggita la priorità della sua proposta, contenuta in un opuscolo del "63 ora probabilmente esaurito; e che non abbia mai avuto il bene di fare la sua personale conoscenza, nel qual caso, conversando, potrebbe anche darsi che tutta questa polemica si sarebbe volatilizzata.

Ma giacchè siamo a discorrere di varianti, mi siano permesse ancora due parole a proposito di quella che da alcuni codici desunse il prof. Franciosi all' VIII, 5 di Purgatorio. E per maggiore chiarezza, riporterò qui tutto il passo per disteso.

Era già l'ora che volge il disio

A' naviganti e intenerisce il core

3 Lo di ch' han detto a' dolci amici: addio; E che lo novo peregrin, d'amore Piange se ode squilla di lontano

6 Che paia il giorno pianger che si more.

Era l'ora nella quale il desiderio d la terra lontana ritorna a naviganti, e il di ripensato dell'addio intenerisce il loro cuore;

l'ora nella quale il peregrino, il primo o secondo giorno di viaggio, piange d'amore, se ode di lontano squilla che paia piangere il giorno morente.

È questa la lezione che piace al prof. Franciosi, con la interpretazione corrispondente; nella quale, a solo fine di renderla più chiara, mi permisi sostituire due espressioni, prendendole però dal suo comento. In luogo di volge, posi ritorna, perchè uno potrebbe domandare: volge, che cosa? forse il core? il disio volge il core, e il dì lo intenerisce? non va. A spiegazione di novo egli avea posto novello, ma è una parola anche questa suscettibile di più significati.

L'intendimento suo lo trovo giustissimo, ed è quello di non limitare il ritorno dell' ora del disio pel navigante al solo giorno della partenza, ciò che avverrebbe leggendo Punge, e facendo l'ora soggetto di entrambe le proposizioni. Peccato però ch'egli lo indebolisca alquanto limitando poi la puntura (secondo lui, il pianto) del peregrino, ai soli primi giorni di viaggio.

Ma per raggiungere questo intento sarà egli necessario attaccarsi ad una variante che è di soli tre codici, nè so di quanta autorità? Già quel piange d'amore, col pianger che vien dopo, sebbene Dante ami le ripetizioni, ha un non so che di affettato che non mi pare suo. Quasi a diminuire la sdolcinatura, vorrebbe il Franciosi intendere, piange senza lagrime; ma su che fondamento poi?

Un altra sua ragione in appoggio è che, se peregrin si fa oggetto di punge, esso non può dopo diventare soggetto di ode. Ma è una libertà che l'uso ammette pienamente; e la riproverebbe nel solo caso che potesse nascerne equivoco; ora chi mai qui potrebbe intendere che sia l'ora quella che ode?

Molto tempo addietro mi era, in quell'intento, balenato l'espediente, non potendo adottare quello di dare al primo che il senso di, nella quale, al secondo, di, la quale, di tradurre Punge, per si punge, vien punto (ciò che lo stesso Franciosi quasi autorizzerebbe, dando a volge il significato di, ritorna, che è quanto dire, si volge); ma sebbene non manchino esem pii (più frequenti bensì nell' infinito, come Paradiso X, 67 Così cinger la figlia di Latona Vediam talvolta, l'orecchio non ne rimaneva sodisfatto.

Mi parrebbe ora invece più naturale fare addirittura soggetto di tutto il periodo Lo dì;

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