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simo errore; come se fosse elezione e non necessità collegarvi a' deboli e sperare in una rivoluzione di Stato, quando i potenti vi sono nemici e l'ordine esistente è la vostra morte. A Torino il governo romano, richiamatone lo Spini, mandava per il suo legato il dottore Feliciani, che non fu neanche lui officialmente ricevuto. A Firenze andava il Maestri di Milano, al quale il Guerrazzi non facea molto liete accoglienze, avverso com'egl'era al concetto della proclamazione della repubblica e della unificazione con Roma. Ciò non ostante il Montanelli apriva pratiche. col legato romano intorno questi capitoli: unione de'due territorii togliendo le intermedie dogane; parificazioni delle tariffe doganali: unificazioni de' sistemi postale e monetario; reciprocità di corso pe' boni del tesoro e per la carta moneta de' due Stati; unità di rappresentanza presso gli stranieri potentati; istituzioni di comune dife sa; sussidio a Venezia da ripartirsi fra'due governi. Però il Guerrazzi non consentiva che ne'due ultimi articoli: e per pigliar tempo chiedea il parere del consiglio di stato, onde niente se ne conclnse, ad onta delle vivissime istanze di Giuseppe Mazzini, giunto in Firenze, appunto quando il granduca partivasi da Siena.

Ed il Mazzini se ne andava a Roma; e Roma, che gli aveva dato cittadinanza, gli die' seggio nell'assemblea costituente, insieme ad altri di altre provincie italiane, come il Cernuschi di Milano, il Saliceti di Napoli, il Garibaldi di Nizza, il Dallonghero del Veneto. Il Mazzini entrò per la prima volta in parlamento addi 6 di marzo, salutato da altissimi applausi, ed invitato dal presidente a sederglisi al fianco, a segno di onore, pronunziò queste parole: « Se le parti dovessero farsi qui fra noi, i segni di plauso, i segni di affetto che voi mi date, dovrebbero farsi, o colleghi, da me a voi, e non da voi a me,

perchè tutto il poco bene che io ho, non fatto, ma tentato di fare, mi è venuto da Roma. Roma fu sempre una specie di talismano per me: giovanetto io studiava la storia d'Italia, e trovai che mentre in tutte le altre storie le nazioni nascevano, crescevano, recitavano una parte nel mondo, cadevano per non ricomparire più nella prima potenza, una sola città era privilegiata da Dio del potere di morire e di risorgere più grande di prima ad adempire una missione nel mondo più grande della prima adempiuta. Io vedeva sorgere prima la Roma degli imperatori, e colla conquista stendersi dai confini dell' Affrica a' confini dell' Asia: io vedeva Roma perire cancellata dai barbari, da quelli che anch' oggi il mondo chiama barbari; io la vedeva risorgere, dopo aver cacciato gli stessi barbari, ravvivando dal suo sepolcro il germe dell' incivilimento; e la vedeva risorgere più grande a muovere colla conquista non delle armi, ma della parola, risorgere nel nome dei papi, e ripetere le sue grandi missioni. Io diceva in mio cuore: è impossibile che una città, la quale ha avuto sola nel mondo due grandi vite, una più grande dell'altra, non ne abbia una terza. Dopo la Roma che operò con la conquista delle armi, dopo la Roma che operò con la conquista della parola, verrà la Roma che opererà colla virtù dell'esempio: dopo la Roma degli imperatori, dopo la Roma dei papi, verrà la Roma del popolo. La Roma del popolo è sorta: non mi salutate di applausi; felicitiamoci assieme. Io non posso promettervi nulla di me, se non il concorso mio in tutto ciò che voi farete pel bene di Roma, dell'Italia e della umanità. Noi forse avremo da traversare grandi crisi: forse avremo da combattere una santa battaglia contro l'unico nemico che ci minacci, l'Austria. Noi la combatteremo, e noi la vinceremo. Io

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spero, piacendo a Dio, che gli stranieri non potranno più dire quello che molti di loro ripetono anche oggi, parlando delle cose nostre, che questo che viene da Roma è un fuoco fatuo, una luce che gira fra' vincitori. Il mondo vedrà che questa è una luce di stella, eterna, splendida e pura come quelle che risplendono nel nostro cielo. Non interrompo di più i lavori dell'assemblea »>.

La presenza del Mazzini a Roma fu un nuovo impulso alle idee che vi dominavano: l'assemblea deliberò mandare appositi commissari in Toscana per procurare e sollecitare la bramata unificazione, e questi furono il Guiccioli, il Camerata ed il Gabussi, a' quali si aggiunsero di poi Ciceruacchio ed altri popolani; ma e' vi fecero poco frutto, ed il Guiccioli se ne andò a Venezia legato della repubblica, gli altri a Roma fecero ritorno. Ma qui opportuno parmi interrompere la narrazione delle cose romane, e ripigliando più addietro discorrere del Piemonte, ed esporre quali fossero le opere ed i mu tamenti del suo governo; quali le negoziazioni di pace e gli apparecchi di guerra; con che forze, speranze e fortune si ripigliassero le armi.

CAPO VIII.

DEL PIEMONTE.

Il ministero piemontese, preseduto dal marchese Alfieri di Sostegno, esponendo i principii e concetti, coi quali intendeva governare lo Stato, avea detto nel suo programma del di 20 di agosto 1848: « Il ministero deve rispettare l'armistizio come fatto militare; ma non può riconoscere in quello un atto di politica transazione, che distrugga i fatti compiuti e che segni le basi di ulteriori negoziazioni. Però due grandi nazioni amiche, che proclamano il rispetto delle nazionalità e secondano lo sviluppo della libertà dei popoli, avendo offerto la loro mediazione onde porre termine ad una guerra che potrebbe diventare europea, e promuovere una pace onorevole, il ministero accolse con riconoscenza il disinteressato ed amichevole uffizio delle potenti mediatrici. Persuaso che esse, che conoscono e rendono omaggio alla forza della opinione pubblica ed alla autonomia delle nazioni, apprezzando giustamente le attuali politiche condizioni dell'Italia e le cause che mossero la guerra, sapranno condurre a tali accordi che siano onorevolmente accettabili e durevoli, ed evitino la necessità di una guerra che l'onore e l'ardore della nazione ed il generoso aiuto de'nostri potenti vicini renderebbe di esito non dubbio. A questo scopo e ad ogni evento il ministero provocherà con ogni alacrità l'effettuazione della lega doganale e politica degli Stati italiani. » Dopo poco giungeva a Milano il principe di Schwarzenberg

incaricato dall'imperatore di trattare i capitoli della pace direttamente col governo piemontese, secondo il desi. derio, l'Austria affermava, manifestato dal re Carlo Alberto. Maravigliati i ministri di questa novella, mandarono in tutta diligenza il Revel e il marchese Alfieri loro colleghi al re, che trovavasi in Alessandria, e ritornando di là, il detto Revel scrivea al barone Perrone ministro degli affari esterni: « Il re, avendo udita la lettura del dispaccio del signor La Cour, ov'è detto che delle aperture di pace erano state fatte direttamente da Sua Maestà al generale Radetzky, ci ha dichiarato nella maniera la più formale e la più assoluta, che nè prima nè dopo la convenzione di armistizio del 9 del corrente, e meno ancora dopo l'accettazione della mediazione franco-inglese, Sua Maestà non avea incaricato alcuno di aprire delle negoziazioni di questa natura. Che solamente nell'occasione della negoziazione dello armistizio del dì 9, il maresciallo Radetzky avea ma. nifestato al negoziatore sardo il desiderio di fare qualche cosa che fosse gradita al re, e di fare anco delle aperture di pace, offerendo d'incaricarsi di far pervenire all'imperatore d'Austria una lettera del re, se Sua Maestà giudicava di scriverla; proposta alla quale il re ci ha dichiarato non aver dato alcun seguito, e di non avere neanco dato alcuna risposta. » Fondandosi su di questa dichiarazione, allorchè il principe di Schwarzenberg, con suo dispaccio del di 30 agosto, notificava al governo piemontese il suo arrivo a Milano e l'oggetto della sua missione, il barone Perrone gli rispondea, che avendo il re accettato la mediazione offerta dalla Francia e dall'Inghilterra, non gli era possibile di aprire delle pratiche di pace dirette e parziali, sperando che i buoni uffici de'due potentati procurerebbero una pace

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