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di opere tristi e vituperose. Posto a confronto col precedente periodo della stessa Volgare Eloquenza, dove male si parla del marchese Azzo, l'autore conchiude che Dante rivolge biasimo a costui personalmente, non alla intiera famiglia da Este, e che l'Azzo rimproverato è l' VIII, e il lodato è, invece, o l'avo e predecessore di Obizzo, Azzo VII, di cui fu ministro e favorito l'Aldighiero Fontana, o potrebb' essere anco Azzo VI, uno tra i principali fautori di Federigo II.

Nel canto VIII del Purgatorio si allude, ancora una volta, ad una persona della casa di Este. Al quale proposito, l'autore sostiene che il rimprovero di Nino Visconti giudice di Gallura [.... Se l'occhio o il tatto spesso nol raccende] più che alla moglie Beatrice d'Este, in particolare, è rivolto a tutte le donne in generale. Ed ancora, in tutti questi versi egli non trova, e ne dà le ragioni, che il poeta si dimostri troppo sfavorevole a Beatrice d'Este, e neppure che n'abbia tratto argomento per sfogare il proprio malanimo contro gli estensi.

Dal complesso di siffatte analisi, all'autore non risulta per nulla provato che Dante non menzioni gli estensi se non a titolo di sfregio o scherno, e se non ad esempio di opere tristi e vituperose, come si è da altri voluto sostenere: egli ammette che l'odio politico, per l'importanza assunta negli avvenimenti dell'epoca da Obizzo e da Azzo d'Este a favore degli Angioini e de' guelfi e contro gli svevi e la parte ghibellina, nonchè le addotte ragioni di famiglia non siano state estranee all'animo di Dante nel giudizio di Obizzo e di Azzo VIII, ma che nessun preconcetto ostile, nessuna prestabilita mala intenzione lo ha dominato contro la famiglia de' signori d'Este.

L'opuscolo, piccolo di mole, ma denso di contenuto, riesce una dissertazione storica molto notevole e importante, sia come contributo agli studi danteschi, che nel campo storico per le vicende dei signori d'Este e per gli avvenimenti del loro tempo. Non tutte le conclusioni dell'autore potranno essere accolte così com' egli le presenta, senza riserve e contestazioni; ma è innegabile che, nel complesso, l'indagine storica è condotta con rara efficacia. L'opuscolo, tuttavia, avrebbe molto guadagnato, a mio credere, se non si fosse presentato con l'apparenza di una quasi-polemica, o di una dissertazione a tesi; se non vi abbondassero le ripetizioni, talvolta enfatiche, a confutazione degli oppositori; e se non vi avessero luogo frasi che possono sembrare irriverenti verso scrittori che godono meritamente fama di critici e letterati fra i più valorosi ed eminenti.

NOTIZIE.

G. GORRINI.

Il 20 del corrente mese si publicherà il dodicesimo volumetto [ultimo della prima serie] della Collezione di opuscoli danteschi inediti o rari diretta da G. L. Passerini. In questo vol. Edoardo Alvisi ci darà per la prima volta, traendolo da tre codici, il testo del Commer cium paupertatis, pel quale son mirabilmente illustrati i versi 43 a 75 del canto XI del PaNei mesi di settembre e di ottobre saran ristampate le Note a Dante di G. De Cesare per cura di N. Castagna e le Osservazioni di N. Villani intorno alla divina Commedia raccolte dal prof. Umberto Cosmo.

radiso.

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- L'editore Hoepli ha publicato, tra i suoi Manuali, la seconda edizione, corretta, rifatta e ampliata dall'autore della Dantologia [Vita ea opere di Dante Alighieri] del nostro illustre collaboratore dr. G. A. Scartazzini.

La Collana di buoni scrittori, del Paravia, si arricchirà presto di una nuova edizione della divina Commedia, annotata di brevi note ad uso delle nostre scuole secondarie, dall'egregio amico nostro prof. Felice Martini

Proprietà letteraria.

Venezia, Prem. Stab. tipografico dei Fratelli Visentini, 1894.

LEO S. OLSCKнI, edit. e propr. G. L. PASSERINI, direttore. MASSAGGIA LUIGI, gerente respons.

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La gioconda impressione di chi fugga un tratto la dotta uggia della città per chieder ristoro alla libera semplicità della campagna, la stessa gioconda impressione provai io quando di tra le sapienti contraddizioni delle stampe corsi a chieder fede alla modesta insipienza delle pergamene; e da queste mi parve movesse contro la civiltà dei torchi il coro stesso di lamenti che move eterno dalle campagne contro le soperchierie delle città. Fra i codici tutti però, che ci serbarono gli antichi tesori dell' intelligenza umana, quelli della Commedia di Dante, io credo, hanno il triste vanto di maggior diritto a sí fatti lamenti; non occorre varcar quivi né meno la soglia (Inf., I e II) per trovar esempi di cotesti soprusi della tipografica civiltà. Dalla nidobeatina e dalla aldina infuori, per esempio, tutte le edizioni de' secoli passati rifiutarono la lezione originale del verso (Inf., I, 28):

Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso,

perché l'ei od hei per ebbi aveva il torto d'esser diventato un arcaismo, né Dante l'usò altrove mai! Che valore potevano avere, contro cotesta critica, e l'autorità dei codici e l'uso del tempo? Eppure il Bembo aveva scritto nelle Prose della volgar lingua: " Dalla ho, prima voce " del presente tempo [di " avére,,] molto usata, formò m. Cino la prima altresí del passato ei quando e' disse:

Or foss' io morto quand' io la mirai,

ché non ei poi se non dolore e pianto....„;

e il Castelvetro nelle Giunte a quelle Prose (Napoli, 1714, III, 254) aveva osservato: "Non credo che messer Cino fosse il formatore della voce

Giornale dantesco.

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"hei; perciocché, senza dubbio, egli la trovò usata dai più antichi di lui, e specialmente da Dante; ed era voce comune del popolo.... e "si usa ancora oggidí in composizione dello infinito, come in amerei, "varrei, leggerei.... „. E fra que' "più antichi troviam almeno Guittone d'Arezzo e Brunetto Latini che usarono tal voce in verso e Bono Giamboni che l'usò perfino in prosa. Che piú? Non altrimenti che a' tempi di Dante, in qualche contado toscano essa è "voce co"mune del popolo,, anc'oggidí! Tuttavia, pur di contendere al maggior poeta un diritto a minori e minimi assentito, si deturpò in non meno di trentasei differenti maniere il verso dantesco; il quale non ha né men oggi (dopo che il Dionisi, il Foscolo e il Witte l'accolsero) non ha sí allegra la vendetta da venir sempre accettato (tutt'altro !), né da esserlo anzi mai senza premetter le scuse per il proprio ardire di far capolino (v. N. CAIX, Storia di un verso di Dante, nell' Antologia della critica letteraria di L. MORANDI, p. 290).

Ma non è di questo verso, al cui grido in ogni modo non tutti furono insensibili, non è di questo verso ch'io voglio oggi tener discorso; bensí d'un altro che, pur esso in sul limitare dell'edificio dantesco, ebbe anzi la sorte peggiore, quella cioè di vedersi sempre finora reietto: alludo al v. 81, c. II dell' Inferno:

Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento,

dagli editori tutti mutato sempre per lo addietro e continuato a mutar sempre oggidí nel

Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento.

Gli è dunque del grido che questo verso leva a buon dritto contro lostrazio disonesto,,, gli è di quel grido ch'oggi io mi fo interprete, disponendomi ad esaminare le ragioni della diuturna inescusabile proscrizione impostagli dalle edizioni tutte. (Le riproduzioni di codici dateci dal Fantoni e dallo Scarabelli non voglion esser qui prese in considerazione se non come un argomento a nostro favore). Mi correggo: dalle edizioni tutte ne va eccettuata una, quella cioè di Iesi, ch'è del 1472, l'anno si noti in cui apparvero le prime edizioni della Commedia di Dante; da quest'ultima infuori, adunque, tutte le altre, che oggi superano le tre centinaia, quelle che avvennero cioè nello spazio di oltre a quattro secoli, tutte si piacquero di proscrivere la lezione (che diremo qui nostra) del verso:

Piú non t'è uo' ch' aprirmi il tuo talento.

I.

IL SENSO.

Mettiamoci subito innanzi il piú formidabile forse degli oppositori, il primo di tutti a ogni modo che abbia trattato la questione e il solo poi che per la conoscenza profonda della "volgare lingua, fosse in grado di dettare al tempo suo un competente e spassionato giudizio a questo riguardo. Ho nominato il Castelvetro; il quale adunque, nella Giunta alla Prosa relativa del Bembo (Op. cit., p. 51), riferí anzi tutto le costui osservazioni: "Huopo è latina voce; tuttavolta è molto prima " usata da' provenzali, che si sappia, che da' toscani; perché da loro si "dee credere che si pigliasse; e tanto piú ancora maggiormente, quanto " avendo i toscani in uso quest' altra voce bisogno che quello stesso può, di questo huopo non faceva loro huopo altramente. Quantunque "huopo si è ancora più provenzalmente detta, che si fe' huo', invece "di huopo, recandola in voce di una sillaba, sí come la recò Dante, "il quale nel suo Inferno disse:

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"Piú non t'è huo, ch' aprirmi 'l tu' talento

.... ..

Il Castelvetro, cui non parve qui vero di poter pigliare due piccioni ad una fava, riferita questa nota del Bembo, vi appose dunque una lunga chiosa, ch'io vedrò d'abbreviare: "Uopo è voce latina, come "scrive il Bembo; ma non so perché egli vi premetta un h, né credo "che valga quello che vale bisogno e non possa esser toscano; né che "Dante abbia usato uo' in luogo di uopo; né che uo' sia più proven"zale che uopo: Bisogno in molti casi non può stare in luogo di uopo (come altri può provare e veder chiaro)...... Ultimamente io non veggo come voglia il Bembo che Dante abbia usato uo' in luogo "di uopo (il che nondimeno non niego io aver veduto scritto nel luogo "addotto dal Bembo in alcun libro) guastandosi fieramente il sentimento, se ritegniamo la predetta scrittura. Perciocché Beatrice aveva commesso a Virgilio che dovesse andare a soccorrer Dante; a cui egli risponde, che è tanto disposto ad ubbidirla, che non fa mestiere che si distenda in più parole, per indurlo a ciò, dicendo: Piú non "P'è uopo aprirmi 'I tu' talento. Ma se leggeremo: Piú non t'è uo' ch'aprirmi 'I tu' talento, le parole suoneranno che Virgilio di nuovo domanda che gli sia commesso quello che già gli era stato commesso; "il che poi non si fa punto....e perché uo' non si trova usato né da Dante altrove, né dagli altri, crediamo che Dante in questo luogo non l'abbia usato: né può essere uo' reputato piú provenzale che uopo, poiché i provenzali scrivono, non uo', ma ops in luogo di

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иоро "

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Prendiamo subito nota di due tra le osservazioni del Castelvetro: anzi tutto l'uo' per uopo non fu usato mai da veruno scrittore (non è ancor detto però che di que' tempi non fosse in uso presso il popolo in qualche parte d'Italia: ha certo un qualche valore il fatto costante che vedremo piú innanzi onde ne' codici i copisti non lo mutarono altrimenti che nella corrispondente voce piana uopo); in secondo luogo, cotest' uo' fu veduto "in alcun libro o testo a penna, anche dal Castelvetro. Se fosse proprio necessario adunque ricorrere agli aлağ ɛionueva, perché, pur di restituire il verso dantesco alla originaria lezione, si dovrebb'esitare? Ma intanto procediamo nel nostro esame. Per veder trattata di nuovo e di proposito la questione bisogna ora fare un salto di tre secoli e dal 1563 cioè venire al 1861, quando il Blanc avendovi il De Romanis (edizione di Roma, 1815 segg.) e il Foscolo (Discorso sul testo, CCIV, Londra, 1825) appena accennato la riprese in esame. Nel Versuch einer philologischen Erklärung d. Göttl. Kom. (Halle, s. 27) leggiamo infatti e traduciamo come ci riesce, non avendo l'edizione italiana: "Quella di Iesi è l'unica fra tutte le “antiche edizioni principali che offra la lezione ch'aprirmi e, fra gl' interpreti, Benvenuto da Imola e Guiniforto sono i soli (lo Scarabelli vi aggiungerà il Lana, e il Moore, come vedremo, il Buti) che la "adottarono e s'accostò a loro Zane de' Ferranti. Tutti gli altri leggono aprirmi e, o non ne offrono veruna dichiarazione, o ne danno แ questa ch'è la sola esatta: Beatrice non ha bisogno cioè di parlare piú oltre per esprimere il proprio desiderio, poiché ha infatti già chiesto tutto che le abbisogna, e alla domanda di Virgilio la quale prova pure com'egli, che chiede informazione d'altre cose, sia di ciò "a bastanza istrutto a quella domanda essa dà un'ampia risposta, "in cui però non è più il menomo accenno a quant'essa desidera da "lui Qui il Blanc ricorda che il Bembo avrebbe preferito per l'edizione di Aldo (1502) la lezione ch'aprirmi, qual è nel suo manoscritto del codice vaticano (3197); ma vi si opposerɔ ripeterò col Foscolo i pareri dell'Accademia ch'essi [il Manuzio e il Bembo] aveano "fondata allora a promovere la emendazione dei codici nelle stampe „ (Discorso, ecc., CCIV e cfr. LXIX).

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Io non so chi abbia inventato la storiella; so bene che pur quivi, come da per tutto altrove afferma il Witte, il manoscritto del Bembo (vaticano 3197) ha la lezione dell'aldina: debbo la notizia alla cortesia de' preposti agli Archivi vaticani. Mentre adunque il codice vaticano 3199, ch'è quello regalato dal Boccaccio nel 1359 al Petrarca e trascritto dal Bembo, con piú o men leggiere differenze, per l'edizione aldina, mentre questo codice legge quivi huo' caprirmi, quello, che dovrebb'esserne la copia, di mano del Bembo, il vaticano 3197, ha nel testo üop' aprirmi, dove üop' è fregato col richiamo alla postilla marginale uopo; e infatti nell'edizione di Aldo fu riprodotto perfino il richiamo, poiché

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