tica ammirazione di Virgilio, come altrove nel poema, protratto, a dir cosí, per ben cinque versi (Inf., V, 108-112), varrà ad esprimere efficacemente l'intenso dolore di Dante Dinanzi alla pietà de' duo cognati. Ma Hanno ben ragione adunque i difensori della lezion comune. come non compresero essi che quest'argomento può venir contro loro ritorto? Se dall'una parte infatti Beatrice poteva osservare: E che vuo' ch' io ti esprima più oltre il mio talento se ci ho già speso intorno tante parole?; dall'altra poteva pensare, ché non sarebbe stata cortesia il dirlo: Or ti credesti tu dunque ch' io avessi dell'altro a dire? Perché tanto delira lo ingegno tuo?... Insomma, dopo quanto Beatrice ha già detto e dopo quel "Tacette allora il far soggiungere a Virgilio: Non c'è bisogno che tu me ne dica di più, Piú non t' è uopo aprirmi il tuo talento, è ozioso o ingenuo almeno da quanto il Non altro ti bisogna ora che dirmi quello che desideri, Piú non t' è uo' ch' aprirmi il tuo talento, da quanto cioè la nostra lezione, se accompagnata da cotesta errata interpretazione. Or qual è dunque l'interpretazione esatta? Io potrei qui semplicemente richiamarmi a quanto ne scrissi, circa sett'anni sono, esaminando alcune lezioni del codice bartoliniano (I codici friulani della Divina Commedia, Cividale, 1887, p. XXXIV); anziché ripetermi però, credo opportuno riprender in nuovo esame la variante e accompagnarla di quella maggior illustrazione che è qui piú specialmente richiesta. Ma ora, poiché abbiam udito le ragioni universalmente addotte contro la lezione nostra, udiamo pur quelle de' due soli che, per quant' io mi sappia, con qualche ragionamento la difesero (de' commentatori antichi non è qui a far parola, poiché questi chiosarono, qual ch'essa fosse, la lezione che avevano sott'occhio, senza sospetto quivi cioè di varianti e per ciò senza discussione). De' due soli, che presero a difendere la lezione nostra, l'uno soltanto anzi, lo Zani de' Ferranti (Di varie lezioni da sostituirsi nell' " Inferno,,, Bologna, 1855), è ricordato dal Blanc e dal Campi; io principierò adunque dal riferire tosto la chiosa dell'altro, che è lo Scarabelli. Strenuo propugnatore dell'uo' ch'aprirmi nel testo del poema, ebbe questi il torto di non vedervi altra interpretazione che la oppugnata a buon dritto dal Moore: "Quelli che respingono il che [scriss'egli nell'edizione del Lambertino] dovrebbero accorgersi dell' inutilità in rimare il verso [?]. Se in quella vece il che resta, viene ad esprimere: Se altro hai a dire, pur che di qualunque แ 66 66 cosa ti talenti, io volo a servirti No, adunque, no: non almeno di coteste patenti contraddizioni. E leggiam ora la chiosa di Marcaurelio Zani de' Ferranti, il quale fu tenuto dal Witte, dal Barlow e dal Blanc in maggior conto ch'altri non abbia creduto farne (FERRAZZI, Manuale dantesco, II, 564). Dopo avere osservato che "la Volgare e l'Edizioni tutte quante leggono „...uopo aprirmi.... e "il Vellutello chiosa: il FerPiù non t'è di bisogno dichiararmi il tuo desiderio ranti, con innocente arguzia soggiunge: "Ed io credo anzi che un po' piú di dichiarazione non faccia male; e infatti si vede che Beatrice la dà,,; ricorda quindi i codici da lui veduti che leggono opo od uopo ch'aprir, e, per ultimo, l' huo' ch' aprirmi dei codici vaticano e Caetani; a proposito della qual ultima lezione continua: "e il Bembo leggeva a questo modo: e, salvo il debito rispetto, io non credo col " celebre Foscolo che sia questa una di quelle tante prepostere emenda"zioni de' filologi del secolo XIV, né che il Bembo leggesse stranamente. Anzi, a me sembra la migliore e sola vera lezione, perché qui non "si tratta di filologia, ma sí di logica; e in vero, seguitiamo il filo " del discorso. Virgilio dice che è pronto ad ubbidire sol che Beatrice "gli apra il suo desiderio. E poi crede di poter egli pure far la sua แ piccola domanda; e chiede infatti a Beatrice perché non tema di vi"sitar l'uscio dei morti. Allora che cos' accade? Beatrice gentilissima "soddisfa in prima alla curiosità di Virgilio, poi si fa a tessergli tutta “la storia della sua discesa, e finalmente gli dice che si fida del suo parlare onesto, per salvar Dante dal pericolo nel quale si trova. Ora qual è la buona lezione, e qual sarà la vera chiosa? Quella di Gui"niforte, che ha quattro secoli: - A te altro non bisogna che aprirmi "il tuo talento 99. Ecco qui: la chiosa di Guiniforte può esser la vera, ma soltanto se non vada intesa in cotesto modo; quando in fatti Beatrice tacette, aveva già chiarito o aperto tutto il suo talento, e quel che essa disse appresso per soddisfare in prima alla curiosità di Virgilio e tessergli poi tutta la storia della sua discesa, tutto questo, dico, risponde proprio ed esclusivamente alla piccola domanda che pur Virgilio credette di poter fare. Se questi infatti avesse chiesto col nostro verso alcuna nuova o piú ampia dichiarazione, avrebbe continuato: Dimmi inoltre, oppure Dimmi anche, o almeno E dimmi la cagion, ecc.: l'avversativo Ma dimmi esclude invece ogni relazione di quel che precede con quel che segue e prova, cioè, che del talento di Beatrice non si richiede né si aspetta verun'altra dichiarazione. Né la risposta di Beatrice consta di parti distinte come vorrebbe il Ferranti, ma è tutta e soltanto rivolta a soddisfare la speciale curiosità di Virgilio; senz'essa, cioè, Beatrice non avrebbe piú guari parlato, come si può con sicurezza arguire, anzi tutto dal Tacette allora che abbiam notato, e quindi, e meglio assai, dal tòno che dà Beatrice al principio della sua risposta. Bisogna ricordare infatti ch'essa aveva proprio allora accennato all'imminente pericolo di Dante, affrettando il chiesto soccorso con le parole: E temo che non sia già sí smarrito, ch'io mi sia tardi al soccorso levata; non parrà dunque inopportuno al solo Castelvetro che Virgilio, qui, "fuori "di tempo, e senza necessità niuna le faccia una domanda e la tenga a parole, come, per rassomigliare le persone plebee, s'usa di fare nelle " comedie quando ci è maggior fretta, (Sposizione, p. 42). E Beatrice ha certo più che un lieve accenno a cotesta inopportunità [o non anche importunità?] del poeta latino quando si fa a rispondergli principiando: Dacché tu vuoi saper cotanto addentro dirotti brevemente... No, adunque: il nostro verso non vuol essere inteso né meno al modo del Ferranti, che è poi, a un di presso, il modo degli altri. Ed ora, scusatomi per avere sí ampiamente, pur non senza ragione, esaminato le chiose altrui, torno, come dissi, alla mia di sett'anni sono. Virgilio mostra di gradire siffattamente la preferenza concessa a lui, fra tutti gli spiriti magni, da Beatrice, che ha la costei preghiera in luogo di un comando: ei risponde quindi ad essa non altrimenti che, nella Gerusalemme liberata, Aladino alla preghiera di Clorinda (II, 48): Sovra i nostri guerrieri a te concedo lo scettro, e legge sia quel che comandi; non altrimenti che Armida (ivi, alla dichiarazione di Rinaldo, XX, 136): Ecco l'ancilla tua; d'essa a tuo senno dispon', gli disse, e le fia legge il cenno; e, non altrimenti, nella Resurrezione del Manzoni, i fedeli diranno alla Vergine: Egli prescrisse che sia legge il tuo pregar (cfr. pure VIRGILIO cit. e OMERO, Iliade, XIV, 196). Il poeta latino vorrebbe anzi non aver posto tempo in mezzo fra l'espressione dell'ordine e l'esecuzione di esso: Tanto m'aggrada il tuo comandamento che l'ubbidir, se già fosse, m'è tardi; quindi, non che breve, per sommo di cortesia, e' vuol significare che cotesta espressione della volontà di Beatrice fu soverchiamente lunga: e tale è rispetto alla disposizione dell'animo di lui all'obbedienza; e' vuol significare che soverchio a ogni modo ne fu il laudativo esordio ; O anima cortese mantovana, di cui la fama ancor nel mondo dura, e durerà quanto il mondo lontana,... e soverchia la lusinghiera perorazione: Quando sarò dinanzi al Signor mio, di te mi loderò sovente a lui. Non molto diversamente, o diversamente soltanto perché non in gara di cortesie come Virgilio qui, Catone avrà altrove per soverchio il gentile accenno a Marzia rivoltogli, pure a mo' di perorazione, dal poeta latino (Purg., I, 83): Grazie riporterò di te a lei, se d'esser mentovato laggiú degni; e come trova quindi ragione la frase dell' uticense che suona rimprovero (ivi, 92): non c'è mestier lusinghe; bastiti ben che per lei mi richegge; cosí l'allusione al soverchio ch'è nelle parole di Beatrice appare nel Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento soggiuntole da Virgilio. Il quale viene dunque a dire: Sappi che a te non d'altro è uopo ch'esprimermi la tua volontà, come già facesti; superfluo è tutt' il resto e specialmente superflua la preghiera nel nome altrui: anche qui in una parola si ripete il non c'è mestier lusinghe; bastiti ben che per te mi richegge. Insisto su questa corrispondenza, fra la risposta di Virgilio a Beatrice e quella di Catone a Virgilio, senza temere di cader quivi nelle esagerazioni altrui a questo riguardo e senza dimenticare le sagge osservazioni del Moore sulla "consistenza o inconsistenza delle varianti le"zioni con sentimenti altrove espressi dal medesimo autore,, (Textual Criticism, p. xxxvii). Se Catone dichiara esplicitamente vano l'elogio di lui a Marzia promessogli da Virgilio, questi non ha per men vana la lode che presso Dio gli promette Beatrice; l'uno risponde: ben ti basti richiedermi in nome di lei che scese a te dal cielo, l'altro: a te scesa dal cielo basta bene richiedermi in nome tuo soltanto, o esprimermi cioè semplicemente il tuo talento, com'hai già fatto. Nel nostro verso adunque v'ha solo un lieve accenno a quel concetto che ricorrerà, con maggior o minor evidenza esplicato, frequentemente per tutto il poema, dalla fine cioè del canto stesso: Or va che un sol voler è d'ambedue, fino all'ultimo canto del Paradiso: La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate concetto anzi che nel Convivio (I, 8) è fatto argomento di dissertazione, e vi sarebbe stato più ampiamente esaminato se l'opera non rimaneva imperfetta. E pur sempre a proposito della frase di Catone a Virgilio: "Bastiti "ben che per lei [Beatrice] mi richegge, perché i critici non cercano la richiesta quivi accennata, ciò insomma che Virgilio richiede, in quel che segue, ma riferiscono tutti il richegge a quel che precede? o non è il caso del nostro Più non l'è uo' ch'aprirmi il tuo talento? Nell'un caso la richiesta s'era già fatta, e bastava bene; nell'altro il talento s'era già espresso, e accompagnato anzi da tale esuberanza di frasi cortesi che, al cor del poeta disposto all'obbedire, parve superfluo lenocinio d'arte. E il Blanc, inoltre, e il Moore, che ricordano opportunamente il luogo virgiliano, qui a dietro riferito, perché non cercano pur quivi ne' versi che seguono quel labor di che parla Eolo a Giunone? Perché la costei volontà era pur quivi già stata espressa, cosí che Eolo, soggiunta appena cotesta sua risposta, corse ad obbedire, senz'altro indugio, agli ordini ricevuti. Anche il Monti, imitando Virgilio, nella Feroniade, fa dire all'Ufente (I, 678): A te l'esaminar conviensi, o diva, e fa che poi tosto l'oratore e gli altri fiumi corrano ad affrettare la distruzione del regno di Feronia invocata da Giunone. Or non è pur simile a questi il caso nostro? Virgilio, è vero, intrattiene o tiene a parole Beatrice ancor un tratto; ma sempre, come, pur con l'usata asprezza, nota il Castelvetro, come anzi, dallo Zani de' Ferranti infuori, intendono tutti, per ragioni affatto estranee al talento di Beatrice e solo riguardanti la curiosità del poeta latino. Non guari dissimile da quel di Eolo e dell'Ufente a Giunone ed in tutto rispondente a quel di Catone a Virgilio, è dunque il concetto che questi, come le circostanze esigono, accenna, meglio che chiaramente esprima, a Beatrice col verso: Piú non t'è uo' ch' aprirmi il tuo talento; |