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mosso, può piangere o ridere di qualche cosa: non per ciò egli è un poeta. E la forma è solo del poeta. In fatti, nella pagina seguente, lo stesso De Sanctis ritrae con perfetta consapevolezza il processo della fantasia, la forma vera: << Poiché la forma di questo mondo è la caricatura, uscita da una immaginazione abbondante, minuta disegnatrice, hai innanzi non punte e rialzi, ma l'oggetto intero nelle sue piú fine gradazioni ». E questa è proprio la forma.

Un altro problema non risoluto, ma illuminato di lampi presaghi dall' intelletto veggente di Francesco De Sanctis, è quello del brutto in natura ed in arte. Il critico napole

tano non riuscí mai a liberarsi dall'ombra della coscienza comune cosi da discernere che «bello > e << brutto non son già nelle cose, ma nella nostra interpretazione estetica delle cose; e che quanto noi chiamiamo bello e brutto in natura non è se non il piacevole o lo spiacevole, il morale o l'immorale, l'attraente o il repugnante, valori pratici insomma, non valori poetici. Di guisa che egli, trovandosi in cospetto di rappresentazioni tenute per brutte in natura, non riesce poi a capacitarsi come in arte diventino belle. E allora inciampa,

Che cosa è dunque ciò che il De Sanctis chiama brutto in Mefistofele o nell'Inferno? Il cinismo del primo; le colpe, i delitti, le pene, gli orrori ei terrori del secondo: valori pratici, non estetici; immoralità, abbiezione, dolore, non bruttezza; contenuto, non forma; l'antecedente del l'arte, non l'arte. Ma l'arte annulla in sé, nel proprio valore, tutti i valori del contenuto; ed è per codesto che la crudeltà di Riccardo III, il cinismo di Mefistofele, la lussuria del prete da Varlungo, la criminosa coscienza di Vautrin si convertono in pura bellezza nella fantasia dei loro poeti, mentre i preti pii e i papi eroici del padre Bresciani, i generosi protettori e le fanciulle innocenti del buon Federici appariscono in veste di desolante bruttezza: è

per codesto che i mostri dell'Orcagna nel camposanto di Pisa son belli e la piú leggiadra creatura del mondo dipinta da un imbrattatele diventa brutta.

Del resto, quasi tutti i più importanti quesiti d'arte e di critica sono agitati in questo libro mirabile, la cui fortuna comincia adesso, e che certamente, nella storia della coltura, avrà uno dei luoghi più degni. Perché dalla Storia della letteratura e da tutto il resto dell'opera di Francesco De Sanctis ha preso le mosse un rinnovamento del pensiero che oggi è a pena all'inizio, ma che si andrà svol.

esita, almanacca, sofistica. « Il brutto è ele- gendo a grado a grado nell' avvenire e pro

mento necessario cosí nella natura come nell'arte; perché la vita è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto. Togliete la contraddizione, e la vita si cristallizza... Non è dunque maraviglia che il brutto riesca spesso nell'arte più interessante e piú poetico. Mefistofele è più interessante di Fausto, e l'Inferno è più poetico del Paradiso ». Ma, insomma, Mefistofele è brutto? L'Inferno di Dante è brutto? Manifestamente no: son belli appunto perché son arte, vera poesia, creazione, forma.

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LA RIVELAZIONE DI BEATRICE *

Il Canto trentunesimo del Purgatorio non è esteriormente vario di episodi, né concitato di azione, che anzi, tranne il passaggio di Matelda e Dante dall'una all'altra sponda della riviera e la danza delle sette donne simboliche, i personaggi numerosi, adunati nel Paradiso terrestre per assistere al grande fatto della confessione di Dante e della rivelazione di Beatrice, stanno immobili e taciti a somiglianza del coro greco, quando lo svolgersi di una tragedia regale tende al suo culmine.

Tutti aspettano che si compia quanto è già prestabilito, e frattanto la parola di Beatrice velata scende dal carro a rampognare e ad ammonire il predestinato alla gloria, il quale piange e sospira, ed ha ritratto gli occhi all'erba dal chiaro fonte tanta vergogna gli grava la fronte.

Ogni moto, ogni atteggiamento è qui d'indole psicologica e, trattando di questo Canto, non si può tentare di meglio che scrutare l'anima di Dante e seguire la traccia per cui il poeta dall'amore di Beatrice terrena è assurto, attraverso riprovevoli soste e colpevoli traviamenti, alla comprensione di Beatrice immortale.

Il Canto è nettamente diviso in due parti: la prima che arriva fino al verso novantunesimo comprende i diretti rimproveri di Beatrice e la dolorosa confessione di Dante; la seconda comprende il bagno di Dante entro la sacra riviera e la rivelazione di Beatrice al suo fedele. Cerchiamo, interpretando Dante dietro la scorta dei sentimenti e delle vicende di Dante,

*Lettura fatta a Padova, nel maggio 1912,

Alla signora Bona Viterbi Benvenisti. di spiegarci per quale virtú egli è pervenuto a toccare con i suoi piedi mortali le soglie dell'immortale soggiorno, e perché stia ancóra in atteggiamento di sconsolata sommessione.

Dante, che porta con sé di quel d'Adamo e che non si è ancóra tuffato nelle acque del fiume Lete ad attingervi l'oblio delle passate colpe, soggiace tuttavia alla rapida e alquanto scomposta mobilità d'impressioni per cui gli umani ondeggiano con moto perenne dal timore alla speranza, dall'esultanza di un bene finalmente conseguito, dopo ansiose vigilie, allo sconforto di trovare la gioia mista di amaro.

Quando il Poeta crede di poter appagare la decenne sete, rivedendo circonfusa di gloria e rivestita di alta nobiltà la pargoletta che gli era apparsa, adorna di ogni vaghezza, prima che egli fuori di puerizia fosse; quando egli ode nuovamente quella voce soave e piana che lo aveva tratto per le vie della salute e che lo aveva già inebriato di dolcezza, il Poeta non osa fissare lo sguardo nella immagine della sua donna, e non osa protendersi verso di lei nell'atteggiamento ansioso di chi ascolti parole a lungo desiderate ed attese. Lo strale del rimpianto gli punge il cuore.

Avanti che Beatrice parlasse, Dante, conoscendo i segni dell'antica fiamma, aveva ricercato di Virgilio per confidarglisi e dirgli :

men che dramma

di sangue m'è rimaso che non tremi.

Ma Virgilio, padre dolcissimo, duce, signore, maestro, Virgilio che lo aveva incuorato nelle asperità delle infernali baratte fra

dannati e demoni, che aveva rinvigorito il suo coraggio talora presso a mancare, che lo aveva sorretto di bolgia in bolgia, poi guidato nell'ascesa di girone in girone, Virgilio luminare della ragione e voce della coscienza, lo ha lasciato scemo di sé, né tutte le bellezze del Paradiso terrestre riescono a trattenere il pianto sulle ciglia del devoto e riconoscente discepolo,

Né quantunque perdeo l'antica madre
valse alle guance nette di rugiada,
che lagrimando non tornasser adre.

Se non che Beatrice, ragione pura, perché raggio della ragione prima, scienza limpida, perché vena dell'eterna fonte, giudicio fermo, perché riflesso del giudicio immutabile, Beatrice, nella cui mente si rifrange e si colora, come in diamante, il pensiero superno, non vede più nel fedele amatore l'uomo sul punto di smarrirsi entro la selva selvaggia. Ella vede in lui lo spirito redento, fortificato dalla conoscenza del male, deterso dal contatto delle anime purganti, coronato e mitrato sopra di sé stesso dall'umana ragione, onde non ammette in lui dolore che non sia per i passati trascorsi, non tollera pianto che non sia lavacro definitivo.

E lo apostrofa sdegnosa in vista:

Dante, perché Virgilio se ne vada, non pianger anco, non piangere ancóra, ché pianger ti convien per altra spada. Poscia,

Regalmente nell'atto ancor proterva, eretta sulla divina basterna, si rivolge alle virtú cardinali, che Dante ha misconosciuto, alle virtú teologali, che Dante ha trascurato, ai seniori, che Dante non ha saputo bene interpretare e, sfavillante di giusta ira, ella chiama a testimoniar contro Dante tutte le cose create ed increate; gli alberi della divina foresta spessa e viva, l'aura pregna d'indistinti odori, tutto ciò che il Poeta tenuto in basso dal fardello delle umane passioni, aveva posto in oblío, e gli formula contro un terribile atto di accusa. Che cosa gli aveva fatto difetto per la sua salvezza? Nulla.

Non virtú informatrice delle ruote magne, non divina predilezione, non visioni incitatrici; per lui campare aveva dovuto muoversi Lucia, la grazia, e Beatrice aveva dovuto scendere dal suo beato scanno e visitare l'uscio dei morti. Ch'egli paghi dunque lo scotto del pentimento prima di gustare la celeste vivanda.

All'inizio del Canto trentunesimo intorno a Dante è festevolezza ed è armonia. Il mondo è nuovo, rivestito d' immutabile primavera, quale uscí dalle mani del sommo Fattore. L'aria è senza mutamento, mite, benigna, odorante; tra i rami che tremano e si piegano docilmente, corre la doppia melodia delle foglie canore e degli augelletti cinguettanti, una riviera solca le erbe con onde trasparenti, i fioretti vermigli e gialli screziano il suolo di amena varietà! Ma Dante non può essere ancóra partecipe di tanta letizia, egli non può ancóra esaltarsi nella contemplazione di Beatrice, giacché, vergognoso e sopraffatto dalla coscienza che gli rimorde, tiene gli occhi fissi al suolo, ha il petto oppresso dai sospiri e la sua virtú è confusa cosí che la voce gli si muove e gli si spegne prima

Che dagli organi suoi fosse dischiusa,
Beatrice oramai lo rampogna di punta:

O tu che sei di là dal fiume Sacro
di', di', se questo è vero. A tanta accusa
tua confession conviene essere aggiunta.

Dante non pensa a scagionarsi. I ricordi pungenti delle colpe, cui egli si era attardato con brutta tenacia gli fanno ressa nella memoria. Egli è stato reo di fellonía verso sé stesso, tradendo in sé la virtú informatrice; è stato reo di oblío verso la gentilissima, che presso la soglia della vita nuova gli era apparsa adorna di tutte gentilezze umane e che, salita di carne a spirito, gli aveva lasciato a scorta un raggio della sua luce; era stato nemico della propria fama, trascurando per il mondan rumore la contemplazione, era stato nemico della propria salvezza, anteponendo le indagini filosofiche alle intente e trascendentali aspirazioni cui è guida la scienza delle scienze: la teologia.

A Beatrice peraltro non è sufficiente ch'egli ricordi e si rammarichi. Beatrice vuole ch'egli parli e si faccia l'accusatore di sé stesso:

Poco sofferse, poi disse: Che pense?
rispondi a me; ché le memorie triste
in te non sono ancor dall'acqua offense,

e soggiunge:

Quai fosse attraversate o quai catene trovasti per che del passare innanzi dovessiti cosí spogliar la spene?

Quai fosse attraversate o quai catene? Ma le insidie del mondo, i lacci delle passioni, le parvenze ingannatrici delle gioie terrene, i tumulti del sangue, gl'impeti del cuore e dei sensi. Per iscagionarsi di fronte a Beatrice, Dante avrebbe dovuto narrare la storia propria e l'altrui, scrutare in sé e ricercare l'origine de' suoi traviamenti. Egli non può farlo, schiacciato sotto il pondo dell'ambascia e della reverenza. Interroghiamo dunque noi il cuore di questo esule, bandito dalla sua patria per accuse di baratteria, obbligato dalla dura necessità a mendicare la vita a frusto a frusto, silenzioso e schivo fra motti e scede intorno alle bene imbandite tavole dei signori, alle prese con la sorte villana, con l'odio della parte avversa, con la infamia de' suoi stessi compagni d'esilio, quasi mendico eppure gentilescamente superbo, rivestito del lucco, eppure con le tempie idealmente cinte di lauro, non inteso dalle menti grosse de' suoi vicini, eppure consapevole che al divino poema han posto mano e cielo e terra, in cosí pieno modo sicuro della superiorità propria da farsi dire da Virgilio

a te fia gloria
averti fatta parte per te stesso.

A bene intendere Dante io credo giovi anzitutto avvicinarsi a lui con attento intelletto e acceso spirito; sopratutto io credo sia necessario interrogarlo non solo entro le navate del tempio ch'egli ha edificato a sé stesso e di dove ci largisce i suoi responsi; ma credo sia utile, a bene intenderlo, attingere luce da lui direttamente, dalla vicende della sua vita e dalle sue passioni, seguirlo perciò con fidi passi prima nelle vie della gaia Fiorenza, tra

gli amori e le çortesie, tra le risse e le canzoni a ballo, poi tra il cozzar delle armi a Campaldino, poi nel tumulto delle discussioni infiammate, in cui egli portava l'empito della sua ira, poi attraverso città e castelli, dov'egli portava, dolorando, la irrequieta anima solcata di bagliori e fosca di ombre, poi nella pace austera della pineta in sul lito di Chiassi, poi nella ineffabile melanconia della città di Ravenna, dove l'impero di occidente si era sommerso in misero modo, in misere acque e dove il Poeta imperiale reclinò all'ultimo sonno la fronte grave di visioni ultraterrene.

Quai fosse attraversate o quai catene?

Ma in religione l'antitesi fra la semplicità della primitiva chiesa di Cristo e l'ambizione smodata dei suoi presenti reggitori; in polilitica l'antitesi fra la rigida figurazione geometrica disegnata nel trattato De Monarchia e la scomposta furia delle parti; in amore l'antitési fra le esigenze del suo frale e le aspirazioni del suo spirito.

Perché sul carro dove Beatrice trionfa, e dove ella sola dovrebbe tener signoria, il Gigante e la Meretrice si mescono in osceni abbracciamenti?

Perché la Chiesa di Roma, traviata, travia le anime.

Giovacchino da Flora,

il calavrese abate Gioacchino

di spirito profetico dotato,

aveva bensí voluto riportare le menti cristiane verso l'orizzonte minaccioso dell'Apocalisse; Francesco, serafico in ardore, aveva bensí fatto balenar la serena letizia de' suoi occhi lucenti e aveva diffuso intorno la gioia placante del suo rider soave, e, menando in isposa madonna Povertà, aveva donato per un istante al cristianesimo la fresca bellezza ond'esso era tutto rorido, allorché uscí col Galileo dalle acque del Giordano.

Ma il gran manto ricopre in veste di pastor lupi rapaci; il gran manto ricopre il figliuolo dell'Orsa

cupido sí per avanzar gli orsatti
che su l'avere e qui sé mise in borsa,

ricopre l'eremita Piero Morrone che farà per viltade il gran rifiuto; ricopre il fiero e astuto Caetani, in cui violenza usa il suo soperchio! E la Chiesa parteggia; la Chiesa, sotto colore di pace, fa pontare contro Firenze la lancia di Carlo di Valese, onde l'odio di Dante ne diviene cosí cruccioso ch'egli nei cerchi dell'Inferno oscuri, come nelle piú eccelse sfere, sempre insaziato di collera profetica, scocca frecce dal teso arco a colpire la Chiesa di

Roma che

Per confondere in sé duo reggimenti cade nel fango e sé brutta e la soma.

Le anime contemplative si erano, in conseguenza di ciò, distratte dalle contemplazioni religiose, e l'ira contro gl'indegni pastori aveva tratto il gregge lungi dai campi della ferace pastura.

Né basta. Il male è una catena, di cui ogni anello entra nell'altro per vincolare i buoni propositi e renderli inattivi. Le prevaricazioni dei pontefici provocano le manchevolezze degl'imperatori, provocano gli odi acerbi di città a città, di parte a parte, di fazione a fazione, per cui ogni ordine è sconvolto nelle sue basi e l'Italia, il giardin dell' imperio, fatta fella, non più corretta dagli arcioni vede fra loro in guerra quei che un muro ed una fossa serra, nutre per ogni centro un focolare di rancori e di discordie, che tutto travolgono, che strappano Dante fuori del suo nido, lontano dal suo bel San Giovanni, avvelenandogli le fonti della vita spirituale coll'odio che corrode e corrompe.

Quai fosse attraversate o quai catene? Ma in amore il temperamento stesso di Dante, e qui sostiamo più a lungo, poiché ciò si connette piú strettamente alla materia del nostro Canto.

Non bisogna dimenticare che l'amore è, fra tutte le passioni umane, quella che più s'informa e prende colore dai singoli temperamenti. L'amore, norma eterna che regge il mondo, perché alla fattività di tale norma è connessa la conservazione della specie, l'amore che piove sua virtú dal cielo e che perciò nella sua essenza è uno ed è perenne, attuandosi

transitoriamente e individualizzandosi in noi assume tanti e diversi aspetti quante sono le varietà non solamente degli esseri, presi a uno a uno, ma quante sono le varietà dei moti fuggevoli a cui, sotto l'impero delle circostanze e delle disposizioni, ciascun essere è obbligato a soggiaccre.

L'Alighieri, come quasi tutti gli uomini di altissimo intelletto e di fervidi sensi, a un modo praticava l'amore, in altro modo lo intendeva; onde Beatrice, donna anche nella sua simbolica apoteosi e il suggello della grandezza di Dante sta appunto nel fatto ch'egli, elevando le sue creature a dignità di simbolo non menoma in loro nessuna delle umane caratteristiche Beatrice, offesa dalle infedeltà del Poeta, lo incalza di spietate argomentazioni.

E se il sommo piacer sí ti fallío per la mia morte, qual cosa mortale dovea poi trarre te nel suo disío?

Ben ti dovevi per lo primo strale
delle cose fallaci levar suso

di retro a me che non era piú tale.
Non ti dovea gravar le penne in giuso
ad aspettar più colpi o pargoletta

o altra vanità con si breve uso.

Già, Beatrice forse ha ragione, ma Dante possiede ne' suoi sensi strumenti di una sensibilità pungente nel percepire tutto ciò che alletta.

Alla sua vista non isfugge la piú tenue screziatura di fiore o la piú fugace tinta di nuvola che s'indori e dilegui; l'udito è vigile a cogliere e scernere tutt'i rumori, dal rombo dell'acqua scrosciante al suono lontano di una squilla

che paia il giorno pianger che si muore ; il suo olfatto non può sostenere, senza esservi prima un poco abituato, il lezzo infernale, il suo palato quasi diventa arido come quello di maestro Adamo, immaginando i ruscelletti, che

del Casentin discendon giuso in Arno,

e quanto al tatto basterebbe a farne testimonianza la pronta perspicacia con cui egli indovina, anche prima di soffrirne o goderne, tutte le sensazioni dolorose o gradite.

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