CANTO XXII ARGOMENTO. Vanno i poeti al sesto girone, ove si purga il peeeato della gola, e trovano un arbore pieno d' odoriferi pomi, volto con le radici in su: sopra il quale si spandeva un'acqua chiara, che scendeva dalla roreia del monte. A questo arbore accostati odono una voce che da quello usciva. Già era l' Angel dietro a noi rimaso, L' Angel, che n' avea volti al sesto giro › , E questa tiepidezza il quarto cerchio Cerchiar mi fe' più che 'l quarto centesme, Tu dunque, che levato hai'l coperchio, Che m'ascondeva quanto bene io dico, Mentre che del salire avem soverchio, Dimmi, dov'è Terenzio nostro amico, Cecilio, Plauto, e Varro, se lo sai: Dimmi, se son dannati, ed in qual vico. Costoro, e Persio, ed io, e altri assai Rispose'l duca mio, siam con quel Greco, Che le Muse lattar, più ch'altro mai, Nel primo cinghio del carcere cieco. Spesse fiate ragioniam del monte, Ch'ha le nutrici nostre sempre seco. ·Euripide v'è nosco, e Anacreonte Simonide, Agatone, e altri piue Greci, che già di lauro ornar la fronte. Quivi si veggon delle genti tue Antigone, Deifile, ed Argía, Di nuovo attenti a riguardare intorno, E già le quattro ancelle eran del giorno Ch'a poetar mi davano intelletto. Un'alber che trovammo, in mezza strada E come abete in alto si digrada Di ramo in ramo così quello in giuso Cred' io, perchè persona su non vada. Dal lato, onde 'l cammin nostro era chiuso, Cadea dall'alta roccia un liquor chiaro, E si spandeva per le foglie suso. Li duo poeti all' alber s' appressaro : E una voce per entro le fronde Gridò: Di questo cibo avrete caro: Poi disse: Più pensava Maria, onde Fosser le nozze orrevoli ed intere, Ch' alla sua bocca, ch' or per voi risponde: E le Romane antiche per lor bere Contente furon d'acque : e Daniello Dispregiò cibo, e acquistò savere. Lo secol primo quant'oro fu bello: Fè savorose con fame le ghiande, E neltare per sete ogni ruscello. Mele e locuste furon le vivande, Che nutriro 'l Batista nel deserto: Perch'egli è glorioso, e tanto grandė, Quanto per l'Evangelio y'è aperto. PURGATORIO, CANTO XXH. v. 36. Migliaja di Iuuari hanno puuita. Un lu nare comprende trenta dì; l'altro ventinove; sicchè l'anno solare ae dodici lunari, e soperchia di undici, e più alquanto; onde dodici via cinquecento fa seimila lunari, e rimangono undici dì e un quarta, che fanno undici e un quarto via 500, 4 partire in ventinove, ed avrai la somma de' lunari An. ). Lunari, cioè periodi lunari, lunazioni. cosa, V. 37-42. E se non fosse ch' io drizzai mia cura ec. Dice che certi versi, che Virgilio scrisse nell'Eneida, quando egli tocca di Polinestore, che per avarizia uccise Polidoro figliuolo del re Priamo, il fecero correggere del vizio della prodigalità Vir gilio sgrida contro il vizio dell' avarizia, dicendo: malarletta fame dell' oro, che egli non è neuna che tu non faccia fare alli mortali ! Dice Stazio certo, però ch'io m' avvidi, che s'io per prodigalità gittassi tutto ciò ch' io poteva congiugnere, che poi, per avere di che potere fornire la impresa prodigalitade, all'acquisto della moneta sarei venuto per inlicito modo, come venne Polinestore e altri, dice che non solo si corresse di questo male, ma degli altri ec. ( An.) Chiame, o clame, come leggono il Codice di S. Croce di Filippo Villani, oggi Laurenziano, ed altri, vale qui esclami, gridi, Clamare, per esclamare, dal Lat. clamare, è nelle Rime di S. Francesco d'Assisi, e in Francesco da Barberino. Dante få ehe Stazio, che peccò in prodigalità intenda detto contro tal vizio ciò che Virg. gridò contre ľavarizia; e però dice: perchè, o esecranda fame dell' oro, non affreni tu l'appetito dei mortali, cioè la prodigalità, che male usa il danaro, e con stringe gli uomini ad appetire, e togliere l'altrui roba, mancate le facoltà proprie? Ved. Arist. Etic. L. IV. C. I. v. 49-51. E sappi che la colpa ec. Le due colpe ehe oppositamente commettono alcun peccato, siccome avarizia e prodigalitate, che male usano il danajo, in un medesimo luogo ricevono pena. Eł è rimbeccare proprio venire di qui al becco, ovver contro al becco, rimetter nel becco ( An). Suo verde secca, cioè si consuma e si purga. v. 58. Per quel che Clio li con teco tasta; cioè suona poetando ( Piet Dant. ). Tenta, o tastando sordamente suona. ( An. ) v. 61. Se così è, qual sole, o quai candele ec. Qual lume durno, cioè di sole, o notturno, com'è di fuoco lavorato. ( An. ) v. 66. E prima, appresso Dio ec. E primo mi illuminasti; cioè, come dice l' Anonimo, dopo Dio, che è prima causa di tutte le cose e padre dei lumi, dal quale discende ogni dono perfetto e ogni dono ottimo. v. 67. Facesti come quei che va di notte ec. Pare che Dante abbia qui imitato Messer Polo, Pocta del 1230, o in quel torno, di cui abbiamo un Sonetto che comincia: Si como quel che porta la lumera La notte, quando passa per la via, Alluma assai più gente della spera ( cioè coi raggi del lume che porta ) Che se medesmo, che l'ha in balia. Ved. R. Ant. T. 1. p. 129. v. 79-80. E la parola tua ec. Le tue parole sopra accennate s'accordavano a questi predicanti Cristiani; e ai progressi del Cristianesimo, che combatteva i vizj, e pareva ricondurre l' età dell' oro annunziando la venuta del Figliuolo di Dio: Jam nova progenies ec. Ved. Virgil. Egl. IV. |