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Legioni innumerevoli stanno o ai luoghi elevati della città dolente o in diverse parti, e ricevono dilettamento dallo spettacolo terribile che reciprocamente si danno (Inf. VIII, 28; XXI. Cfr. S. Tommaso, 1, 9, 63, art. 9). Ma queste legioni dipendono da un solo padrone, che è il primogenito, già il più bello tra' spiriti, e che ora è la pura volontà, che cerca soltanto il male, la fonte d'ogni dolore, il vecchio nemico della umanità (Inf. XXXIV, 6). Trista e bugiarda parodia della divinità, imperatore del regno de' dolori, egli ha il suo trono di ghiaccio in un punto che è il mezzo e il fondo dell'abisso, attorno al quale stanno in diversi ordini le nove geracchie de' reprobi; sul quale posa tutto il sistema dell' iniquità (Purg. XIV, 49; Inf. XXXIV, 10, 13, 15). Il peccato e il dolore, che per le anime sono ciò che è la gravezza del corpo, lui hanno precipitato dove è il centro istesso della terra, a cui pendono tutti i corpi. La generale gravitazione lo avvolge, pesa sovr' esso, da tutte le parti lo stringe; il suo delitto fu di voler attirare a sè tutte le creature; la pena è di essere oppresso sotto il peso della creazione » (Inf. XXXIV, t. 7, 10, 30; Parad., XXIX, 19).

E anche oggi nel rileggere questa pagina esclamo: stupenda !

In questa ardita immagine (annota il traduttore) che Dante traccia di Lucifero, dob. biamo notare le tre facce che gli attribuisce e che richiamano la triplice Ecate dell'antica mitologia ».

È una ipotesi che ho esclusa, perchè la triforme Dea (Cinzia, cioè, nel cielo, Diana ne' boschi ed Ecate nell' inferno) è concezione pagana; e Dante invece, su le ale dell' ontologia cristiana, poggia su le vette più eccelse della rivelazione.

Pure, una più profonda intenzione (il traduttore ripiglia) pare si riveli ne' tre colori che dà a questa triplice figura, opposti a' tre colori de' cerchi misteriosi, dove vedremo raffigurata la divina Trinità. Il commento di Jacopo da Dante offre su questo punto una spiegazione simbolica, che nella sua originalità ci parve degna d' interesse ». (Nota a pag. 84). E le parole testuali di Jacopo, figliuol di Dante, suonano così:

Queste tre facce significano le tre impotenzie che ha Lucifero, da cui nasce ogni male, e sono contrarie alle tre parti che ha Iddio. La prima parte che ha Iddio si è prudenzia, per la quale provvede e coordina ogni cosa: contro questa ha Lucifero ignoranza, cioè che niuna cosa conosce e discerne; e questo significa la faccia nera. La seconda parte che ha Iddio si è amore, lo quale gli fece fare tutto il mondo e reggere e mantenere: contro questa ha Lucifero odio e invidia, per la quale tutto il mondo corrompe a mal fare; e questo significa la faccia rossa. La terza cosa che ha Iddio, si è la potenzia, colla quale l'eterne cose e tutte quelle del mondo governa come a lui piace e siccome vuole ragione e giustizia: contro questa si ha Lucifero debolezza e impotenzia, cioè che non può fare niente; e questo significa la faccia tra bianca e gialla » »>. (Ivi).

Ecco il vero Satana! io dissi nè vi può essere alcuua altra spiegazione. E la opinione di Jacopo è altresi avvalorata da due padri e dottori della Chiesa, che sono san Bonaventura nel suo Compendium (II, 23) e san Tomaso nella sua Somma (1 q. 64 art. 4). È un cumolo di prove evidenti ed ineluttabili, contro cui si frangono tutte le chimere, più o meno paradossali ed inconcludenti. E dinanzi a tanta sapienza poetica e teologica, conviene che ogni critico, sia pure il più schivo, umilmente s'inchini, dappoichè con si chiaro modo di argomentare non si lotta.

Non fu dunque una semplice congettura la mia: è storia di fatti e di dottrine, quali risultano limpidamente da uno studio comparato del decimoterzo secolo.

Vi fu chi disse: Satana fu da Dante così collocato nel centro della terra, quasi per fare un riscontro alla statua del monte Ida: opinione da me egualmente ripudiata, dappoichè, per concetto e forma, sono a distanza immensa fra loro, nè punto conciliabili. Ed invero: che cosa simboleggia la statua del monte Ida? Lo stesso Jacopo così ce ne ammaestra ;

....

« Da considerare è che questo vecchio significa e figura tutta l'etade e 'l corso del mondo e tutto lo 'mperio e la vita degl' imperatori e de' principi dal cominciamento del regno di Saturno infino a questi tempi.. Vuol l'autore dimostrare come lo 'mperio, essendo tra gli pagani e nelle parti d'Oriente, fu trasportato tra gli Greci .... poi fu trasportato lo 'mperio dagli Greci nelli Romani; e però dice l'autore che questo vecchio volge il dosso inver Damiata, la quale è in Oriente, e guata Roma, cioè verso Occidente» (in nota a pag. 78). Jacopo, anche per l'Ozanam, è « l'erede delle tradizioni paterne» (pag. 56); e quindi, allorchè parla il figlio a me pare di sentire il padre, che spiegando il significato simbolico delle sue dottrine a tutti se ne fa rivelatore e maestro. Come dunque non aggiustargli piena fede? Al modo stesso, Riccardo da san Vittore (nel suo libro De Erudit. int. hom., lib. I, cap. I) spiega il sogno di Nabuccodonosor, da cui quella immagine dantesca è tolta. Anche qui v' ha dunque consonanza ed armonia perfetta. Se non che, la statua del monte Ida non ha nulla di comune col Satana di Dante, dappoichè, se questa è l'antitesi della divinità, quella invece è la esemplificazione di tutto l'uman genere, ch'è rimasto come pietrificato nella memoria de' tempi.

Oneglia, Giugno, 1893.

GIUS. DE LEONARDIS.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI

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Dante e il potere temporale dei papi. Trapani, tip. Messina, 14..

L'autore combatte con questo interessante opuscolo gli scrittori clericali che hanno tentato di snaturare le teoriche dell' Alighieri intorno al potere temporale de' papi, per togliere dal numero degli avversari l'autorità del sommo poeta.

A sostegno del proprio assunto, il Buscaino-Campo raccosta passi degli Evangeli con altri della divina Commedia e del De Monarchia, dall'analisi de' quali riesce al commento del noto passo del canto XVI del Purgatorio: Soleva Roma, che il buon mondo feo. Risolve e respinge le obbiezioni sollevate in proposito, che Dante non abbia accennato per nulla al poter temporale; che abbia invece soltanto deplorato la confusione delle due autorità supreme (papato ed impero) in un'unica persona; che il minuscolo dominio pontificio non desse ragione di attribuirgli impedimento a Cesare di ben governare l'Italia; che Dante, fra le altre cose, abbia lodato Carlo Magno di avere soccorso la Chiesa contro le invasioni longobarde, etc. L'autore invoca eziandio l'autorità de' contemporanei o de' poco posteriori, ripor

tando per intiero l'importante brano della notissima lettera 209 di santa Caterina da Siena a papa Gregorio XI sedente in Avignone; e dimostra, per tal modo, che l' Alighieri avversò sempre, con grande coerenza, il potere temporale de' papi, e che volle invece l'impero latino civilmente e politicamente ricostituito per intiero e a sè, lasciando libera la sovrana autorità spirituale, preannunziando, quasi sei secoli prima, la formula cavouriana: libera chiesa in li

bero stato.

G. GR.

Ruggero Della Torre. - La pietà nell'Inferno» dantesco. Milano, Hoepli, 1893, in 8o, di pagg. 236.

Misterioso il fecondarsi e lo svolgersi d' un' idea!

Come lampo si sprigiona da un cervello infiammato, trova nell' aria l'ossigeno per vivere e, quasi raggio ardente, accende, brucia altri cervelli, suscitando nuove idee, pensieri nuovi. Ma altre volte non è, si può dire, ancor nata, che è già avvizzita : l'ambiente le è contrario, il terreno non è stato dissodato, ed essa non può attecchire. Se ne giace come installizzata in un libro, aspetta che un cervello bene disposto al suo contatto s'infiammi e sia alla sua volta causa che s'allarghi e propaghi. E a poco a poco, per la cooperazione d'altre energie, d'attività diverse, per l'intima vigorìa propria della costituzione sua organica, l'ambiente si viene modificando, s'adatta al clima nel quale essa può vivere e dessa rispunta fuori bella e immortale. Svolge allora tutte le sue energie latenti, lotta contro tutte l'altre idee, contro tutti i pregiudizi che si oppongono al suo sviluppo e si propaga e trionfa.

Così del Dantes Xristi Vertagus.

Ne lancia il primo accenno il Missirini; ma l'ambiente è ancora contrario, l'idea non si fa strada. Quand' ecco a un tratto il Pasqualigo, il Passerini, il Claricini a raccoglierla; ecco Ruggero della Torre a svolgerla in tutte le sue parti con libri poderosi, che sono tante battaglie. L'ambiente si va mano a mano modificando, il terreno si viene preparando a ricevere la sementa; ed ecco nel mezzogiorno molti giovani accogliere entusiasti la nuova idea, e farsene strenui campioni.

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Ma perchè essa si svolge più nella patria del Vico, del Vera, dello Spaventa non a caso rammento questi nomi che nell'altre terre d'Italia? E perchè più i giovani l'accet tano che i vecchi? Che gli abiti mentali di costoro non si possano più modificare? Che le idealità sviluppatesi ne' loro cervelli non possano essere soppiantate da altre più nuove e feconde? Ma a tutte queste cose io non posso che accennare è materia però degna che il critico positivista ci pensi e studi scpra. Io ne dovevo almeno toccare, volendo con onesta franchezza manifestare alcune osservazioni, che m'è venuto di fare nel leggere un nuovo libro di Ruggero della Torre.

Pensatore forte è certo il Della Torre: ma arruffato, confuso. Lampi d'ingegno vero e sottigliezze di logico formalista; periodi per concisione e vigoria di pensiero potenti, pagine intere aggrovigliate, contorte. Si vede in lui una mente vasta, ci si sente lo studio profondo sui padri e dottori della chiesa. Eppure - curioso a notare questo studio se forma per un lato la forza dello scrittore è anche per un altro causa della sua debolezza. La conoscenza

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del pensiero teologico e filosofico medievale è certo a lui aiuto potente a intendere la Commedia, a penetrarne i sensi riposti; ma il vivere sempre in mezzo a quelle mille sottili quistioni teologiche, a quelle disquisizioni metafisiche, nelle quali pur che sia salvo il rigoroso formalismo logico la realità nulla conta, ha conformato così gli abiti suoi mentali, ch'egli molte volte cerca il sottile e paradossastico più che il vero, s'accontenta più dell' acuto che del reale, vivo e fecondo. È l'effetto triste che la scolastica produce su tutti gli ingegni che non se ne sanno guardare con uno studio assiduo, intenso del pensiero naturalistico moderno. E nuoce anche al Della Torre quell' essere suo di credente: i fenomeni della psiche vogliono essere studiati come ogni altra manifestazione della natura e anche il genio si chiami pur Dante è sottoposto alle grandi e fatali e immanenti leggi che regolano il cosmo universo. Analizzare scientificamente una psiche il credente non può; del genio non si può fare concetto sicuro; certo è esagerato se non falso addirittura quello che del genio dantesco il Della Torre s'è formato. Bello l'immaginare che Dante, tutto conscio della sua grandezza, tutto pieno delle idealità bibliche e cristiane, pensasse l'opera sua vindice delle infamie di quaggiù. Un rinnovamento morale doveva pure avvenire e il poema avrebbe cacciato la lupa maledetta nell'inferno, onde prima invidia dipartilla. Dante fu uno di quegli uomini potenti, che assommano in se tutte le energie del passato e contengono in potenza quelle dell'avvenire: di qui quel suo genio profetico, nel senso che l'intende la critica positiva moderna.

Ma fare di lui quasi un più che uomo e, a furia di circonfondergli attorno nimbi d'ideale, trasfigurarlo in un santo, questo no. Dante è grande perchè gli affetti e le passioni umane urlano terribili nel suo cuore e quasi lo schiantano: vive eterno appunto perchè affetti e passioni sono umani. Prosegue un ideale grande di giustizia: ma credere, come fa il Della Torre, che ad esso egli subordini ogni suo sentimento è troppo davvero. Potrà darsi forse che il Bartoli in quel suo capitolo, magistrale del resto, La politica e la storia nella divina Commedia (v. VI, p. II) abbia, a volte, esagerato; ma come, per portare solo un par d'esempii, il Della Torre non sente ruggire l'odio, e odio terribile, nell' episodio di Filippo Argenti, in quello di Vanni Fucci? E non mi dica, odio si, ma al peccato: troppe volte Dante mostra d'odiare il peccatore, proprio lui, il peccatore. Nell' opera sua egli ha portato tutti i suoi sentimenti e le pagine sue or mugghiano d'ira, or muggiscono d'odio, come ridono d'amore, come piangono di compassione. Le idealità astratte e supermondane possono fare il santo, non fanno l'artista.

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Dunque il poeta nella scelta delle persone, onde popolò i tre regni, non obbedì sempre ad un concetto di severa giustizia oggettiva?» Alla fama e all' altezza morale di lui basta ch'abbia creduto di obbedirvi; l'oggettività lasciamola se è possibile - agli uomini di scienza: non andiamo a cercarla nell'artista che canta quando la passione gli freme in petto. Ma da quel suo misticismo filosofico negli scolastici naturale altri e più gravi danni derivano al Della Torre. Anzitutto, quella mal celata noncuranza, per non dire addirittura quello sprezzo, per quanto è storia. Sta bene che il poema è « prima di tutto opera letteraria» ma credere che ad intenderlo basti studiarne lo stile, è troppo poco davvero. La Comme. dia è anch'essa uno de' tanti fenomeni del medio evo e senza la conoscenza del tempo nel quale esso si svolge, non lo si può comprendere, se comprendere vuol dire avere d'una cosa nozione chiara ed esatta. E badi il Della Torre, egli che e giustamente - dà tanta parte alla conoscenza del pensiero medievale: conoscere il pensiero del medio evo che altro è se non conoscere una parte della storia di esso? E come si fa, ad esempio, affermare che il poeta fu sempre giusto, se prima d' ogni uomo ch'egli esalta o condanna non si è esaminata la storia, non si sono criticamente vagliati tutti i fatti?

Il Della Torre mi risponderà: c'è l'arte, si, ma è appunto cotesta arte grammatica, cotesta sua faticosa ricerca dello stile, che l'ha portato dato l'indirizzo de' suoi studi

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alle stranezze cui è arrivato. Curioso il concetto che dell'arte dantesca, e per conseguente poi della vergiliana, ha il Della Torre! Buttati là in sul bel principio tre o quattro grandi concetti il poeta non avrebbe poi fatto che elaborarli e svolgerli a passo a passo, carezzandoli, dilucidandoli, dando loro in sulla fine piena e propria individualità. Così ad ogni piè sospinto referenze, richiami, un diluvio d'attinenze e di relazioni col testo precedente.

Ma che proprio Dante, quando, coi polsi tremanti, colla febbre addosso traduceva nella parola il pensiero che gli bruciava il cervello, che proprio allora badasse a tutta codesta roba sottile, misera e pedantesca? Perchè se l'arte della Commedia consistesse in ciò che il Della Torre vuole, ben gretto artista sarebbe Dante Alighieri. Rispondenze, referenze in alcuni luoghi capitali, più dottrinali che affettivi ci sono, e molte di queste il Della Torre ha acutamente notato; ma che quasi ogni parola sia in rispondenza con le precedenti, che ognuna dalla collocazione, dal contesto abbia un valore speciale, via, questo è un esagerare bello e buono. Curioso che il Della Torre di cotesta sua arte grammatica creda di trovare la controprova in Vergilio; anche Vergilio nell' Eneida e nell'altre opere sue ha tessuto un'allegoria non dissimile dalla dantesca: anche il mite poeta de' campi s'era prefisso su per giù lo scopo che consumò la vita agitata dell' esule fiorentino.

Ecco che Dante vedesse in Enea una missione da compire, che nell'opere del suo maestro e del suo autore egli trovasse allegorie molte e confacenti al suo gusto, all' indirizzo de' suoi studi, questo io ammetto volentieri. Ma che proprio Vergilio si proponesse ciò che pensa il Della Torre, che i fini e i modi suoi artistici fossero quelli che egli ama di attribuirgli, questo nessun critico serio gli potrà concedere. Il Vergilio del Della Torre è il vecchio Vergilio medievale, non il poeta di Roma pagana e imperiale; ecco i frutti della scolastica. E si vegga stranezza: lo stile vergiliano che « grandeggia nel poema dantesco.......... ne è la chiave degli enigmi, come, a sua volta, il poeta (Dante) è la chiave vera ed unica di tutte le opere vergiliane, che aspettano ancora chi le apra del tutto e rifaccia di Vergilio una figura meno strapazzata dai rimproveri frequenti dei suoi critici e commentatori » (p. 146).

Sicchè l'uno è la chiave dell'altro: Dante spiega Vergilio e.... viceversa. Davvero che se avessi voglia di piacevoleggiare e stesse bene in argomento così serio, vorrei domandare: ma e la toppa che aprono qual' è? L'egregio critico mi potrebbe rispondere che sono chiave e toppa insieme, e vada pur così. In ogni modo resta sempre che Vergilio due soli finora l'hanno capito bene: Dante prima, il Della Torre poi.

Peccato davvero che pensatore così geniale immiserisca l'ingegno forte in arzigogoli di tal fatta; e' non s'accorge quanto noccia alla causa buona che sostiene. Perchè i più non sanno nell'opera sua separare le esagerazioni scolastiche da quanto è vero e profondo e il suo sistema presentato in modo e in forma così strana a' più riesce ostico ed impossibile.

Vera ad esempio nella sua sostanza la tesi dominante nel libro, che m' ha fornito il modo di fare queste poche e amichevoli osservazioni: il poeta ci si mostra tanto benigno quando cade per l'infinita pietà de' due cognati, quanto ci appare crudele allora che strappa una ciocca da' capelli di Bocca, il traditore della patria là a Montaperti. «Ma fra l'apparire primo di questa sua pietà e il cessare di essa, cioè il mostrarsi spietato, corre una scala ben graduata, per la quale i due sentimenti, l' uno degradante, l'altro ascendente s' intrecciano senza mai offendere la logica e la verità, senza turbare mai, colla più piccola incoerenza o contraddizione, sia pur apparente, il soggetto trattato » (p. 9).

Se si fosse sempre tenuto stretto alla sua tesi, se con troppe e troppo lunghe digressioni non avesse nociuto all'economia del libro, e non avesse voluto trarre conseguenze impossibili o per lo meno troppo ardite, il Della Torre si sarebbe certo meritato il plauso di tutta la critica italiana.

Cosmo,

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