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di Clemente VI [1342-1352], se bene sarebbe impossibile determinare precisamente in quale anno e in quali anni: non però dopo il 1348. Non possiamo menar buono al sig. Cesareo il discorso con cui vorrebbe assegnare questi tre sonetti babilonici tra il 1352 e il '57, per che fare gli conviene anche spostare e rimandare a dopo morta Laura gli altri due anteriori [CXIV e cxvII] ove si accenna a Babilonia e Babel.

CXXXVIII

Attribuisce la reità della corte di Roma alle donazioni fattele da Costantino (Md). - L'AIfieri nota tutto.

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Fontana di dolore, albergo d'ira,

Scola d'errori e templo d' eresia;
Già Roma, or Babilonia falsa e ria,
Per cui tanto si piange e si sospira:
O fucina d'inganni, o pregion dira
Ove 'l ben more e'l mal si nutre e cria,
Di vivi inferno: un gran miracol fia,
Se Cristo teco al fine non s'adira.

Fondáta in casta et umil povertate,
Contra tuoi fondatori alzi le corna,
Putta sfacciata: e dov'hai posto spene?

Ne gli adulteri tuoi, ne le mal nate

2. tempio, A. - 4. piagne, A.

2. Mentre la corte fu in Avignone, nacquero alcune discordie tra' cristiani che scismati chiamano, né senza qualche eresia (G°). Crederemmo che piú particolarmente accennasse alla opinione di Giovanni XXII circa la beatifica visione. Egli, fondandosi sur un passo dell'Apoc. VI 9 « Vidi subtus altare animas interfectorum propter verbum Dei, teneva, e voleva della credenza sua far dogma della Chiesa, che le anime dei giusti non fossero per avere la intuitiva di Dio, non potessero cioè veder Dio a faccia a faccia, se non dopo il giudizio universale e la resurrezione dei corpi, e che per intanto elleno rimanessero sotto la protezione dell'umanità di Gesú Cristo. E cotesta opinione fu condannata, vivente quel pontefice, dai dottori della facoltà di teologia di Parigi, e poi definitivamente, dopo la morte di lui, dalla Chiesa il 29 gennaio del 1336. Ora il P. non amava cotesto pontefice il quale non amava l'Italia; e scrivendo al card. Giov. Colonna (Famil. II 12) accennava opinio illa quae beatifica visione dei, in qua con

stenitrice del decoro ecclesiastico romano (P). or Babilonia. Città di confusione. (G°). - 5.0 fucina d'inganni. Abraam giudeo (Decam. I II) diceva di Roma, ove era andato per avere esperienza della fede cristiana, « Io ho piú tosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine ». o pregion dira. Non crudele, come interpr. i commentatori e i lessigrafi, ma orribile a vedere o a patire, come in lat.: Virg. Aen. VIII 194, della spelonca di Caco, facies quam dira tenebat: Ovid. Trist. III III « Quid mihi nunc animi dira regione iacenti Inter Sauromatas esse Getasque putes? >>> - 7. Di vivi inf. Il Guidiccioni, dell' Italia al tempo suo (son. Vera fama) « Questo di vivi doloroso inferno». 9. Cfr. cxxXVI 12-13. - 10. alzi le corna. Cfr. XXVII 3. Il G°, e non forse senza ragione, vuol che la proposizione sia interrogativa. - 11. putta. Purg. XI 114 « La rabbia fiorentina che superba Fu a quel tempo sí com'ora è putta». - 12. Ne gli adulteri t. Intendono de' simoniaci e malvagi prelati. Ma la Chiesa simoniaca e corrotta

summata felicitas hominis consistit, defun-e i prelati simoniaci e malvagi sono una

cosa sola. Non si potrebbe intendere dei re fornicanti con la Chiesa? Apoc. XVII « Veni, ostendam tibi damnationem meretricis magnae quae sedet super aquas multas, cum qua fornicati sunt reges terrae». E Dante inf. XIX 108 « Di voi, pastor, s'accorse il

ctorum animas tandiu carituras adstruebat donec corpora resumpsissent, e aggiungeva súbito quamvis illa sententia multorum saniori iudicio victa et cum auctore suo (da veniam, quaeso, qui valde eum sed non errores illius dilexisti) sepulta iam pridem sit». - 3. Già Roma. Già corte buona e so-vangelista, Quando colei che siede sovra

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Ricchezze tante? Or Costantin non torna,
Ma tolga il mondo tristo che 'l sostene.

l' acque Puttaneggiar co' regi a lui fu vi-
sta. O non dovrebbe forse leggersi adul-
terii, adultèri, come alcuni testi hanno?
E consentirebbe meglio a ricchezze. Inf. XIX
1-1 O Simon mago, o miseri seguaci, Che
le cose di Dio, che di bontate Deon essere
spose e voi rapaci Per oro e per argento
adulterate». - 13. Or Cost, non torn. Il quale,
se ritornasse e vedesse in che uso son poste
le ricchezze che egli, secondo l'opinion di
molti, lasciò alla Chiesa, le si torrebbe in
dietro. Onde Dante [Inf. xIX 115] « Ahi Co-
stantin, di quanto mal fu matre Non la tua
conversion ma quella dote Che da te prese il
primo ricco patre» (D). Il Ginguené tradu-
cendo in francese il son. pres. (Hist. litt.
d'It. ch. xiv), intende e dichiara questo pas-
so cosí: Costantino non tornerà piú ad ac-
crescere quelle ricchezze. 13-4. Il L nella
prima ediz. della sua interpretazione scrisse
intorno a questo passo cosí: Pare a me che
il p. abbia voluto dire: Or già Costantino
non può tornare in sulla terra e ritôrsi le
ricchezze che ti dond; ma il mondo misero
che sostiene, cioè sopporta i tuoi scellerati
modi, provvegga esso medesimo di tôrli via,
di rimediarvi, o vero ti tolga esso le tue
ricchezze. Dico, mi par che abbia voluto dir
questo, non che l'abbia detto; perché in ve-
rità queste sue parole non significano nulla».
Certo, non significano nulla interpretate in
quel modo, e né meno significano qualche
cosa di piú o di meglio nell'altra interpre-
tazione, che il L chiama ingegnosa, a lui
proposta da un giovane assai letterato in
Firenze, la quale esso L non ardiva né ab-
bracciare né rifiutare ma la riferi nella se-
conda ediz. del suo commento. Ricordava
egli, cosí il L, quei versi di Dante sopra
Vanni Fucci nel xxv dell'Inf. Al fine delle
sue parole il ladro Le mani alzò con ambedue
le fiche, Gridando: Togli, Dio, ché a te le
squadro. Dove il verbo togli, che non regge
alcun caso espresso, significa: Pigliati que-
ste fiche che io ti fo in sul viso: maniera
di estrema contumelia. Congetturava dunque
che il presente luogo debba presupporsi ac-
compagnato da quell'atto di cui parla Dante
o da qualche figura che in sul foglio stesso
lo rappresenti, e che il senso sia questo:
Ora Costantino non può tornare in sulla
terra e ritôrsi le ricchezze che ti dono, come
credo certo che farebbe se ritornasse; ma

il mondo vile e dappoco, che sostiene, cioè sopporta, tanta tua scelleratezza, tolga, cioè piglisi queste fiche. La qualità satirica del son., e la materia sua scandalosa, potrebbero scusare la stravaganza di questo modo di scrivere, il quale non sarebbe però senza qualche esempio antico». Anche il Bgl aggiunge tutt' altro che chiarezza a questi versi con quel suo voler mutare che 'l sostene in chi 'l sostene e col rimetter fuori ritinta a nuovo una vecchia interpretazione del V, che nelle parole di esso Bgl suona cosí: Ma, se Costantino non torna, Cristo che sostiene il mondo tolga via il mondo stesso. Con tali nuove interpretazioni certo il P. pareva dir cose che non significano nulla; ma la interpretazione della maggior parte degli antichi commentatori è cosí chiara, naturale e spedita, che non sembra vero che il L, se la conobbe, non l'approvasse. Eccola in poche parole: Ora Costantino non torna né può piú tornare a vedere i tristi effetti della sua liberalità, e con ciò a ritôrti i suoi doni: ma abbiasi e godasi quel che tu sei, tolgasi su in pace le tue nefande opere, il mondo tristo che ti comporta tale, che non ti spoglia delle ricchezze mal nate. Ultimamente il prof. L. Pieretti (Nuova interp. di alc. passi oscuri del cans., Ariano, 1889) ha proposto di spiegare « Or Costantin non torna a mirare questi tristi effetti della sua donazione ma egli abbiasi, in mercede di essi, l'inferno, dove si trova». Interpretazione osservabile, benché a prima vista possa parere strana: poiché nell'ecl. vI, ove si hanno gli stessi lamenti che nel son. per gli stessi effetti della donazione di Costantino, il P. medesimo finisce i suoi lamenti imprecando per simile modo a Costantino l' inferno: Aeternum gemat ille miser pastoribus aulae Qui primus mala dona dedit: e in quanto a quel sostiene nel significato proprio materiale di ritiene, alberga, il Pieretti lo suffraga con esempi latini di Gioven. (s. I IV 40) «Ante domum Veneris quam Dorica sustinet Ancon e di Catull. (III 3) «Nec quas terrarum sustinet orbis opes, e con esempi italiani foggiati sull' uso familiare, oltre che su questo de' Fior. di S. Franc. (xXVI) « Voi non siete neppur degni che la terra vi sostenga [si parla a tre micidiali ladroni].

Di tutti insieme questi tre sonetti bisogna fare un po' di storia.

Giovanni di Nostradama nelle Vite dei più celebri poeti provensali (appr. Crescimbeni Coment. int. alla ist. d. volg. poes., Venezia, Basegio, 1730, 11, 137) riferisce, come scritto da alcuni, che il P. gli compose non contro la corte romana d'Avignone, ma contro una donna, la quale avea nome Roma ed era anche detta la cortigiana d'amore, madre del trovatore Marco Brusco e poetessa ella medesima. Piú curiosa e, secondo l'uomo e i tempi, piú lepida è la esposizione che del primo (CXXXVI) fece il Filelfo, il cui commento finisce con esso sonetto. Eccola: In questo sonetto biastema e vitupera una donna fiorentina di cui non si sa certo il nome né anche di che famiglia si fosse. Dicono alcuni quella esser chiamata mona Contessina, e che fu del casato o vero famiglia de' Medici. La quale, essendo maritata ad uno mercadante fiorentino che era in Avignone, piacque al Petrarca; il perché la ricercò di battaglia. Né a lei dispiacque l'esser appellata, ma li domandò sessanta ducati per farsi una cotta: la quale risposta tanto al P. dispiacque, che in vituperio di lei fece súbito il presente sonetto». Il Filelfo s' era rotto allora con Cosimo de' Medici.

Il primo indice dei libri proibiti dalla Congregazione romana sopra gli studi, impresso in 8° in fine del S. Concilio di Trento da Paolo Manuzio in Roma e dai Giunti in Firenze l'anno 1564, registra tra i vietati Liber Inscriptus: Alcuni importanti luoghi tradotti fuor delle epistole latine di m. Francesco Petrarca ecc. ecc. con tre sonetti suoi e 18 stanze del Berna avanti il 20o canto. E un padre del concilio tridentino, secondo riferisce il Volpi nel Catalogo di molte delle principali ediz. del canzon. di F. P. in fine a Le Rime di F. P. stampate in Padova dal Comino nel 1722 e nel 1732, scrisse in certo suo libro che súbito dopo il concilio i tre sonetti furono fatti radere anche dal canzoniere. E veramente nelle edizioni pubblicate su la fine del secolo XVI, nel xvII e nei primi anni del XVIII, mancano essi tre sonetti, e in alcuni anche l'altro che incomincia De l'empia Babilonia (σχιν); e in molte copie delle edizioni anteriori alla chiusura del concilio tridentino e al primo indice dei libri proibiti furono da poi stracciate le pagine che contenevano quei sonetti, o essi sonetti si veggono cancellati con freghi a ogni verso e per il lungo e per il largo. Primo il Volpi nelle due già citate edizioni cominiane dimostrò che proibito dalla Chiesa era soltanto il libretto intitolato Alcuni importanti luoghi, ma non i tre sonetti e né meno le epistole latine i cui importanti luoghi erano stati in quel libretto tradotti: e da allora in poi i tre sonetti furono ristampati sempre anche nelle edizioni fatte in Roma in Bologna e in altre città già dominate dai pontefici. L' opuscolo proibito nel primo indice della romana Congregazione è di Pietro Paolo Vergerio. Antonio Panizzi, che ne vide un esemplare posseduto da lord Grenville, lo descrisse e riprodusse nelle note al canto xx dell' Orlando innamorato del Boiardo (London, Pickering, 1830: vol. III, pp. 359-68]. È, secondo lo descrive il Panizzi, un solo foglio di stampa, in piccolo 8°, in carattere corsivo, eccetto il frontespizio: non ha nome di stampatore né indicazione del luogo ove fu pubblicato, che del resto, secondo tutte le apparenze, è Basilea; ha per altro la nota dell' anno, 1554, e non 55, come afferma il Fontanini, il quale anche afferma che fu stampato più volte. Ecco il luogo ove si discorre del P. e de' suoi tre sonetti: «Già intorno a dugento cinquant'anni, quando visse il Petrarca, le piaghe di quella meretrice babilonica erano brutte ed orribili senza fallo, perché già era fatta la inundazione dei culti falsi ed insieme delle lordure di tutti i piú brutti vizi e peccati, i quali, come l'ombra del corpo, vanno sempre in compagnia con le idolatrie e false dottrine. Ma pur non erano ancora né tanto sozze né tanto incancherite quanto son nei giorni nostri, ne' quali esse sono ascese a quell' altissimo colmo di corruzione e di puzza che sia possibile immaginarsi; e nondimeno insin allora a quei principii quel valente uomo scrisse di lei questi tre sonetti, che qui descritti vedrete, acciò che si vegga che il Berna e gli altri nostri non sono né primi né soli che abbino di que' papi e di quella Roma voluto gagliardamente dire quello che è in effetto. E se il Petrarca, che tanto in pochi versi ne disse, fosse oggi al mondo e vedesse quei tanti e tanti acerescimenti si de' culti e dottrine falsissime come de' vizii e scelerità orribilissime che a noi tocca vedere, quanto dobbiamo credere ch' egli vorrebbe piú alzar la voce e piú a lungo adoprarne quel felicissimo suo stile e quasi andar per tutto l'universo contro que' diavoli esclamando? Ver è che, per grazia di Dio, il quale in ogni età sa ritrovarsi di quei soldati che a lui paiono necessari, non mancano oggi di quei che scrivano ed esclamino: e se non lo sanno fare con tanta vaghezza di parole toscane e con tanta rettorica quanto un Petrarca, vi so ben dire che parecchi di essi lo fanno con molto maggior lume delle cose di Dio e con molto piú spirito che colui non ebbe (quella fu una scintilletta, ed ora ve n'è un buon fuoco acceso); e conseguentemente con molto maggior frutto».

CXXXIX

Questo son. non è oscuro di per sé, rimaniamo noi all'oscuro del caso e del tempo in che fu scritto e delle persone a chi fu scritto. Basti a pena accennare che VGOD Br De, tratti in inganno da quella valle aprica del v. 6, lo tennero mandato dal P. a certi amici suoi, secondo Ve G°, o a Laura e alle gentildonne sue amiche, secondo D Br De, che si diportavano o conversavano in Valchiusa, mentre egli, per servigio della corte romana o del cardinal Colonna, dovea rimanersi in Avignone o andare ad Acquamorta: come poi sappiano riferire il v. 7 ad Avignone o ad Acquamorta, chi ne sia curioso, vada e legga; c'è da divertirsi. Il Fo vuole che fosse indirizzato ai cortigiani del vescovo lomberiense, Giacomo Colonna, i quali erano in Guascogna, e propriamente a Tolosa, quando il P. venuto a Roma per la laurea credea di trovare ivi il vescovo e loro; e arruffa una matassa di date e citazioni sbagliate. Il dV e il dC credono anch' essi che il son. fosse composto in Italia; e il primo pensa che i vv. 6-7 descrivano la Toscana, dove il mar nostro da Piombino fino al promontorio di Luni con grandissimo seno abbraccia la terra, e il secondo, che descrivano il padovano o piú largamente le provincie attigue al seno adriatico. Secondo il Cv « la contenenza di questo son. è tale. Alcuni amici del P. camminarono con lui in viaggio infino a certo luogo, poscia, lasciatolo, andarono a Vinegia, ed egli altrove, cosi convenendogli di necessità fare. Or dopo tre dí, nel quale spazio di tempo dovevano esser giunti a Vinegia, scrive loro, dolendosi della partita che fece da loro, ancorché il cor suo venisse con loro a Vinegia. Poi conforta essi e sé a sostenere fortemente questa lontananza e spezialmente dall' usanza di trovarsi rade volte insieme». Il T séguita l' opinione del Cv, supponendo a tutte spese della sua imaginazione l'itinerario del P. Solo il Des ha piú probabilmente saputo trovare il come e il quando, e sarebbe cosi. Dopo la partenza da Parma (23 febbr. 1345: vedi il disc. dopo la canz. Italia mia, pag. 126 del Saggio), dopo le fermate in Modena e in Bologna, il P. passò la primavera e la estate di quell' anno in Verona, ove scopri le lettere famigliari di Cicerone e scrisse la prima delle sue epistole intitolate all'orator romano. Da Verona parti su 'l finir di novembre, avviandosi ad Avignone per la parte di Svizzera; e Guglielmo da Pastrengo lo accompagnò fin dove il veronese confina al bresciano. Staccatosi da lui con molto dolore, un giorno di poi, in viaggio, indirizzò a lui e agli amici di Verona questo sonetto (Cfr. DeS. II 239). Stanno col Des il Men il Fweil Fr: il Bgl il Keil L si accostano al Cv. Noi inchineremmo alla attribuzione del Des, anche per il luogo che il presente son. tiene nell' antica e original distribuzione del canzoniere, ove séguita, dopo i tre sonetti su la corte di Roma, non lontano dalla canzone Italia mia. L'Alfieri nota i vv. 1-7, salvo le parole quella valle, e 12-14.

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1. 1' ali spando. È dichiarato da quel di Dante, Purg. II 28, «qui convien ch' uom voli: Dico con l'ali snelle e con le piume Del gran disio». - 2. schiera. Compagnia. Altrove, CCLXXXVII «... saluti... Franceschin, nostro e tutta quella schiera. - 3-4. Impedisce il suo andare. Sta nella metaf. delle ali (G°).-4. gir mi face errando, in viaggi diversi, qua e là. 5-6. mal suo grado. Della fortuna. a torno. Fuori di me, in cerca di voi (L). Diversamente dagli altri il dc: Con voi, amici, son tutti i miei pensieri e la mia fantasia: la quale benché sia con voi, a forza e contra mia voglia io la mando in altre parti. 6. in q. valle aprica. Il Cv e quelli che intendono con lui vogliono che qui valle sia detto per golfo, come in L 43: anche Dante, Par. Ix 81, del bacino del Mediterraneo dice: «La maggior valle in che l'acqua si spanda ». Ma in questo luogo del P. aprica non pare aggiunto conveniente a golfo ed è

un aggiunto che non aggiunge nulla. - 7. '1 mar nostro. Cosí i romani chiamavano il Mediterraneo. Il p., altrove, LXXV « vertú d'erbe o d'arte maga O di pietra dal mar nostro divisa». piú la terra implica. Mar nostro è quarto caso. In niun luogo, secondo me, è il mar nostro d' Italia piú circondato da terra, che il mar di Vinegia. Oraz, carm. IxXXIII «fretis acrior Adriae Curvantis calabros sinus (CV). Per queste parole accenna il p. il luogo ove sono gli amici dai quali lo divide fortuna. Ma non si può con certezza dire se questo luogo sia piú uno che altro; perciocché, chiamando mar nostro il Mediterraneo, e questo venendo dalla prominente terra implicato più che altrove nell'Adriatico, di qualsivoglia delle città che in su quella marina siedono si può intendere (Bgl).-8. Soggiugne che due giorni innanzi si partí da esso core lagrimando: dove mostra che due giorni innanzi si parti da' suoi 11

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14. inseme, 4.

I' da man manca, e' tenne il camin dritto;
I' tratto a forza, et e' d'Amore scòrto;
Egli in Jerusalem, et io in Egitto.
Ma sofferenza è nel dolor conforto;
Ché per lungo uso già fra noi prescritto
Il nostro esser insieme è raro e corto.

Oraz. o. I XXIV « Durum: sed levius fit patientia Quidquid corrigere est nefas ». - 13. Cioè uso che non si può trasmutare: ché prescrivere alcuna cosa è possederla tanto tempo che la signoria divenga del possessore (CV). -13-4. fra noi e nostro. I piú lo intendono del poeta e del cuore suo: noi intenderemmo piú semplicemente del poeta

amici mal volentieri (dC). - 9. Non certi |
de' luoghi, è inutile che ricerchiamo questi
viaggi del cuore e del poeta a destra e a
sinistra. 10. d'amore. Dall' amore di voi
(L). 11. Egli verso un luogo di libertà,
ed io verso un luogo di schiavitú, che do-
vrebbe essere Avignone (L). Postilla ms. del-
l'ediz. pad.: «Hoc adagium ecclesiasticum
est, quia ipsi ponunt Hierusalem pro feli-e degli amici suoi.
citate et Aegyptum pro miseria».

12.

CXL

Non avendo ardire di manifestare a Laura l'amor suo, delibera di amarla in silenzio fino alla morte. - Michelang. Bonarroti il giovane vi fece su una lezione (Pr. fiorent. Lez. vol. III). L'Alfieri nota tutto.

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1. pensier, 4.

Amor, che nel penser mio vive e regna

E'l suo seggio maggior nel mio cor tene,
Tal or armato ne la fronte vène,

Ivi si loca et ivi pon sua insegna.
Quella ch'amare e sofferir ne 'nsegna,
E vòl che 'l gran desio, l'accesa spene,
Ragion, vergogna e reverenza affrene,
Di nostro ardir fra sé stessa si sdegna.
Onde Amor paventoso fugge al core

Lasciando ogni sua impresa, e piange e trema;
Ivi s'asconde e non appar piú fòre.
Che poss' io far, temendo il mio signore,

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1. vive e regna. Per essere continuo il suo pensiero d'amore (Bgl). - 2. nel mio cor. Fa residenza in quello, come luogo principale del suo regno (D). - 3. armato. D'arditezza (CV). ne la fronte. Per ne gli occhi (Bonarr). All'aperto (T). Come in campagna (D). - 4. Ivi si loca. Sta nella metafora del nemico armato il quale suole il suo campo locare [locare castra (Cv)] in luogo alto e forte (G°). pon s. insegna. Mette il suo segno, la sua bandiera: cioè si manifesta e sfida. - 5. Quella. Laura (G°). am, e soff. ne 'nsegna. Ammaestra, comanda, che io ed Amore amia- |

PETRARCA Rime

mo e sopportiamo in pace, tacendo, le pene amorose. - 6-7. Intendi col Bonarr. «E vuole che lo sfrenato desiderio e l'ardente speranza nell'amante siano rattenuti dalla ragione, dalla vergogna e dalla reverenza ». 8. nostro. D'Amore e mio. - 9. paventoso. Pauroso, spaventato (L). - 10. Lasciando o. sua impr. Cioė, ritirandosi dalla intrapresa di scoprirsi e manifestarsi a Laura (L). -12. L'Alfieri: verso inutile che ripete il già detto. L'Alfieri s' inganna, e procede l'inganno dal credere che temendo il mio sign. significhi, com'egli scrive in nota, se io temo il mio

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