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Orbene: noi siamo disposti a riconoscere, nelle varie forme di reato rinchiuse nella decima chiostra, la comune caratteristica indicata dal Kohler - ma ciò non ci dispensa dal chie. dere se il comune tratto caratteristico industriosamente determinato sia proprio quello che ha servito di criterio al Poeta per la colloca. zione di questi dannati.

L'avere ingegnosamente trovato una caratteristica comune alle varie figure delittuose che Dante qualificò come « falsità », non dimostra ancora che anche al Poeta tale caratteristica sia apparsa.

Si tratta sempre di sapere (questo è il problema!) se quel comune punto di vista che l'interprete ha rilevato possa essere riconosciuto come proprio del Poeta, o se invece debba dirsi che esso appartiene esclusivamente a colui che lo ha scorto e determinato !

In riguardo a tale ricerca, noi, pur compren. dendo quanto possa apparire seducente l'attribuire a Dante la percezione di un criterio giuridico, atto a spiegare la comune classificazione da lui adottata, non crediamo di poter affermare, con sicurezza, che a quel criterio egli siasi ispirato e ciò sopratutto per la ragione che se cosí fosse stato detto criterio avrebbe avuto, nei canti che descrivono la decima bolgia, uno speciale rilievo, il quale invece vanamente vi si cercherebbe.

Ché anzi - per quanto riguarda Sinone e la moglie di Putifarre si deve dire che esso, o rimane affatto nell'ombra, o non ha comunque la parte preponderante, dacché ciò che il Poeta fa risaltare rispetto a questi due dannati è la parola menzognera, onde non vi è interprete che giustamente ad essi non apponga l'epiteto di << bugiardi » o di «< falsatori della parola ». Né vale richiamarsi come fa il Kohler 1 - al mantello della moglie di Putifarre, del quale essa si serví per rafforzare l'accusa (ciò che costituirebbe, anche in di lei riguardo, l'esteriore artificio fraudolento). Non bisogna di menticare, difatti, che l'episodio del mantello è bensí nel racconto della Genesi, 2 ma non è af fatto nel Poema: mentre invece vi avrebbe verosimilmente trovato posto, se fosse vero che Dante

abbia visto nella mise en scène ingannatoria il legame, il nesso, il tratto caratteristico comune alle varie figure delittuose complessivamente qualificate come « falsità ».

In conclusione: questa interpretazione del Kohler, oltre ad apparire stiracchiata, non trova nell'opera dantesca nulla che la accrediti, ma anzi ciò che la mette in dubbio.

A noi sembra men lontana dal vero quella spiegazione, piú facile e semplice, che abbiamo propugnato nel testo.

NOTA SESTA.

Come i peccatori della decima bolgia si distinguano da quelli delle altre nove.

1. Dato che i « falsarj» sono dei peccatori per frode, vien spontanea la osservazione che sono pure peccatori per frode tutti gli abitatori delle bolge dell'ottavo cerchio: i seduttori, gli adulatori, i simoniaci, gli indovini, i barattieri, gli ipocriti, i ladri, i consiglieri fraudolenti, i provocatori di scandali e scismi:

Ipocrisia, lusinghe e chi affattura,
Falsità, ladroneccio e simonia,
Ruffian, baratti e simile lordura.

Sono queste, per il Poeta, tante forme, tante varietà della frode -e, precisamente, della frode <«< in quei che fidanza non imborsa » (cioè, in colui che non si fida).

Come si distinguono dunque i peccatori per frode della 10a bolgia, i falsarj, dai peccatori per frode delle altre nove?

Intanto è da osservare, che, fra questi ultimi, vi sono alcune categorie di dannati che non sono degli ingannatori, degli impostori, se non in un senso speciale, in quanto si fanno credere diversi da quel che sono, come gli ipocriti, o espri mono delle lodi che non sentono come gli adulatori - ma che non ricorrono, o almeno non è necessario che ricorrano, a manovre fraudolenti: trasgressori delle leggi etiche più che di quelle penali.

-

Similmente: ai delitti di simonia e di barat. teria e alla provocazione di scandali e scismi la frode non è elemento proprio ed essenziale: - noi ricordiamo bensí Ciàmpolo di Navarra che « avea

1 Pag. 336. Un accenno a ciò era già nel nostro NICOLINI, Procedura penale. Parte seconda, 904 lacciuoli (cioè spedienti e insidie) a gran do

(vol. 6o, pag. 178) (Napoli 1829).

2 Capo XXXIX, vv. 12 e sgg.

vizia »; noi ricordiamo Frate Gomita« vasel d'ogni froda» (cioè ricettacolo d'ogni intrigo);

ma l'uso degli inganni non è necessario al delitto di baratteria, come non lo è a quelli di simonia, agli scandali e agli scismi.

L'inganno è invece proprio agli indovini, ai ladri frodolenti, ai seduttori di donne, ai consiglieri fraudolenti - ma, quanto ai primi, il mezzo speciale di cui si servono, le malie e i sortilegi, ne fa una categoria a parte, come il fine specifico cui mirano i ladri e i seduttori fa anche di costoro due classi a sé, che non possono confon. dersi con i peccatori della decima bolgia, le cui falsità non s'indirizzarono né al furto né alla conquista delle donne.

2. Le maggiori affinità come si è detto nel testo (pag. 223) si riscontrano in riguardo ai cosí detti consiglieri fraudolenti dell'ottava bolgia.

Ma già abbiamo avvertito che la luce divina dell' ingegno che brillò nei loro spiriti li distingue nettamente dai falsatori.

E la pena rispettiva corrisponde del tutto al diverso modo di considerare gli uni e gli altri. È bensí terribile il castigo di essere avvi luppati dalle fiamme, ma non è, né schifoso, né ripugnante, come quello dei morbi che consumano e trasfigurano i corpi dei falsarj. 1

Il vallone dove furono posti i consiglieri fro dolenti è, almeno, illuminato dal bagliore delle fiamme; la bolgia dove languiscono i falsarj non è che caligine e oscurità, non solo nel senso che nessun bagliore vi penetra, ma anche in quello che nessuna imagine del mondo esterno viene, come il viaggio di Ulisse, o la visione della Romagna, a rischiarare il racconto.

A guardar bene l'unica categoria di « fal

-

1 Veggasi, su ciò, il D'OVIDIO, il quale, nel mirabile saggio su Dante e la magia (pag. 76 e sgg), pubblicato nel volume di Studii sulla « Divina Commedia » (Milano-Palermo 1901), illustra, da par suo, l'atteg giamento di Dante innanzi ai consiglieri fraudolenti (pagg. 88-89). Intorno ad essi e, segnatamente, intorno ad Ulisse, è da segnalare altresí la bellissima lettura dantesca di A. CHIAPPELLI, Il canto XXVI dell' Inferno. (Firenze s. d.)

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Sí la qualifica di magnanimi peccatori, come quella di astuti maliziosi è del D'OVIDIO (Loc. cit.). ? THOMAE AQUINATIS, Summa theologica Secunda Secundae Partis, Quaestio CX, art. IV.

Cfr. su ciò FILOMUSI GUELFI, Loc. cit.
3 Pag. 223.

4 Inf. XXX, 118.

5 THOMAE AQUIN. Summa theologica. Secunda Secundae Partis, Quaestio LV, art. III.

FILOMUSI GUELFI (Op. cit., pag. 97) riporta anche le parole del Convivio (IV, 27): « Non è da dire savio nomo chi con sottratti e con inganni procede, ma è da chiamare astuto »,

VARIETÀ

Per la storia della fortuna di Dante.

1

Il culto, che Dante ebbe presso i posteri, in Italia e all'estero, è dovuto principalmente alla fortuna della Divina Commedia. La Monarchia non godé pari accoglienza. E non poteva accadere diversamente. Se all'opera maggiore del grande Poeta fu fatta poca buona cera nei secoli, in cui piú possente era l'autorità civile della Chiesa romana, e piú debole era la coscienza nazionale degli Italiani, la Monarchia doveva essere ripudiata, quando venne riconosciuta la supremazia morale e civile del papato su i diversi popoli della cristianità. Codesta egemonia fu consentita financo dallo stesso Enrico VII di Lussemburgo, poco prima che fosse rotto l'accordo già esistente con papa Clemente V. La teoria separatista propugnata con tanto ardore e con tanta fede dall'Alighieri era professata, per lunga tradizione, dalla glossa romanista del diritto positivo giustinianeo; ma essa teoria era rimasta relegata nel campo astratto e teoretico della dottrina ri

1 Assai doviziosa è la letteratura, che si riferisce alla fortuna della Divina Commedia. Il Carducci, il Rocca, il Pellizzari, il Carrara, il Melodia, il Rossi, il Barbi, G. B. Marchesi, lo Zacchetti, lo Zamboni, il Micocci, l'Arullani, G. Chiarini, e recentemente il Livi ed altri ancòra si sono occupati della fortuna dell' immortale poema dantesco in Italia. Si veda pure ANTONIO PANELLA, Firenze e il secolo critico della fortuna di Dante. in Arcbivio storico ital., Firenze, 1921, pag. 97 sgg. Si veda ancóra: G. VANdelli, G. Boccaccio editore di Dante, in Atti della R. Acc. della Crusca, 1921-22; PIETRO TOESCA, Sandro Botticelli e Dante, Firenze, 1922; T. LUCREZIO Rizzo, Sulla guida dei « Trionfi », in Giorn. stor., 1923, pagg. 272-285. Ed ancora LUIGI PICCIONI, La fortuna di Dante nell'opera del Baretti, in Dante e il Piemonte. Bocca, 1921.

costruttrice di un condendo diritto pubblico imperiale.

Ma nel periodo storico assai movimentato della discesa in Italia del Lussemburghese, dopo che questi la ruppe non solo col guasco ingannatore, ma anche con la lega guelfa toscana, e, in genere, col partito guelfo europeo, rappresentato dagli Angioini di oltr'Alpe e da Roberto di Napoli, la formola dualista dei due supremi poteri della terra venne discussa e sostenuta con molto vigore dal partito ghibellino, che, decaduto fin dal tramonto della potenza sveva, ora rialzava la testa per reclamare il suo presunto diritto alla direzione della vita pubblica e alla preponderanza effettiva nel governo civile del mondo. Gli ultimi sforzi, operati dal partito ghibellino per affermare la sua superiorità sul partito avversario, hanno il loro epilogo poco fortunato nel periodo delle lotte acri, agitatesi tra Ludovico il Bavaro e Giovanni XXII. Da allora in poi ogni tentativo sperimentato dagli Imperatori tedeschi per restaurare l'autorità del proprio ufficio, è reso vano anche dalla debolezza dei Cesari succes sori di Giustiniano, che non riuscirono giammai, per le mutate condizioni dei tempi, a ri chiamare in vita l'antica dignità imperiale incarnata nelle persone fisiche degli Ottoni.

Nel periodo rivoluzionario del Rinascimento classico, era affermato, nella dottrina, il prin cipio della plenitudo potestatis del pontefice, detentore delle due spade, di cui la temporale egli commetteva al braccio seeolare, all' imperatore. che dipendeva dall'autorità del pontefice stesso. signore del mondo, perché vicario di Dio in terra e successor di Pietro. Nell'epoca dell'umanesimo, la teoria del coordinamento e della indipendenza reciproca delle supreme autorità della terra perdette anche la sua efficacia scien

tifica. Bartolo di Sassoferrato, romanista autorevolissimo, è il rappresentante piú illustre della nuova filosofia del diritto pubblico imperiale.

La Monarchia dantesca non poteva avere fortuna se non nella circostanza della lotta tra il Bavarese e il Cahorsino; quando non soltanto i ghibelliui, ma anche i frati minori francescani, sostenitori del principio della povertà assoluta, invocavano la categorica separazione delle due supreme potestà del globo terraqueo, aventi natura ed uffici diversi e sfere diverse di azione e di competenze. Ed infatti, dalle testimonianze rese dal Boccaccio, sappiamo che Ludovico il Bavaro, disceso in Italia nel 1327, per farsi incoronare a Roma, nolente papa Giovanni, << trovato il libro de Monarchia di Dante Alighieri, se ne valse a difensione della sua autorità, per la qual cosa il libro, il quale era fino allora appena saputo, divenne molto famoso ». 1

Già l'Alighieri, esule, era stato condannato a morte, in contumacia, sotto l' imputazione di ghibellinismo. Ora, durante le lotte tra il Bavarese e papa Giovanni l'odio politico non risparmiò neppure la memoria del defunto Poeta, che fu dichiarato eretico. 2 Il trattato politico dello stesso Alighieri, come afferma il Boccaccio, « venne dannato al fuoco in pubblico, siccome cose eretiche contenente, dal cardinale Del Poggetto, legato pontificio ». E il simigliante soggiunge il Certaldese si sforzava di fare (lo stesso cardinale) dell'ossa dell'autore a eterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno nel cospetto del cardinale sopra detto ». Il domenicano Guido Vernani, poco tempo prima, pubblicò una critica assai feroce contro la stessa trattazione civile del pubblicista fiorentino. Il Vernani prese

1 Cfr. BOCCACCIO, Vita di Dante. Vedasi O. ZɛNATTI, Dante e Firenze, cit. dal VIANELLO, Il Trattato della « Monarchia » di D. A. Genova, 1921, pag. 5.

2 Cfr. SEBASTIANO VENTO, L' Eresia nella « Monarchia » dantesca, in Rivista d'Italia, Milano, 15 dicembre 1923.

3 F. Guidonis Vernani ariminensis, ordinis Praedicatorum, De Potestate Summi Pontificis et de Reprobatione Monarchiae », compositae a Dante Ali gherio florentino. Nunc primum in lucem edidi. Bononiae, 1746 (Biblioteca Casanatense di Roma).

1

parte all'istruzione del processo di eresia contro Dante, intentato dal Sant' Uffizio, in Bologna. Un altro censore delle idee incriminabili contenute nel trattato medesimo di Dante fu il frate domenicano Guglielmo da Sarzano.

La fortuna, adunque, del libro dell'Alighieri dovette consistere nel fatto, che i sostenitori di Ludovico il Bavaro, tra i quali Marsilio da Padova e l' Ockam, si giovarono delle argomentazioni poste in essere dallo stesso Poeta e filosofo fiorentino. Di qui le ire del partito guelfo, e dei propugnatori della tesi teocratica contro la Monarchia dantesca.

Che il trattato politico di Dante non potè avere una degna diffusione perchè conteneva la dottrina della separazione dei due poteri religioso e civile, elaborata già dai civilisti interpreti della costituzione novella VI della compilazione giustinianea. e perché urtava contro la base solida del diritto pubblico ecclesiastico, è un fatto che ci viene accertato anche dalla testimonianza di un documento trecentesco. « Un anonimo studioso della fine del secolo XIV, trascrivendo nell'ultima pagina di un codice contenente la Commedia dantesca il sunto della Monarchia con le parole del Boccaccio, qui da noi riferite, soggiunge che « i pastori e prelati possono tanto oggi nel mondo, che questa operetta di Dante non si pratica nè divulgasi per non dispiacere loro; ma essa è fondata et composta da grande intelletto e profonda sapienza »>.

2

Era naturale poi che la Monarchia dantesca avesse fortuna in Germania tra i seguaci della riforma luterana. E però esso libro è stato messo all'indice dei libri proibiti, come apparisce in quello veneziano del 1554. In Germania, dal 1559 al 1640, si ebbero ben sei edizioni della Monarchia; laddove in Italia erano in circolazione pochissime copie, o stampate o manoscritte; e qualche traduzione in volgare come quella del Ficino. Nella stessa Italia, per ben due lunghi secoli il libro dell'Alighieri rimase, direi così, sepolto ed ignoto. La Chiesa, uscita

4 Si veda LUIGI SIGHINOLFI, L' Eresia di Dante e frate Guido Vernani. Memoria svolta nella tornata del 12 febbraro 1922 della R. Deputazione di Storia patria per le Province di Romagna.

2 Cfr. O. ZENATTI, op. cit., dal VIANELLO, op. cit.,

pag. 7.

3 Cfr. SCARTAZZINI, Dantologia. Milano, 1906; e KRAUS, Dante, pag. 271, cit. dal VIANELLO. pag. 9.

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dal pericolo minacciato dalla Riforma protestante, e sostenuta dalla Compaguia di Gesú, raggiunse, con Urbano VIII, il massimo grado del suo splendore politico. Laonde la dottrina separatista dell' Alighieri quando gli stati europei erano già diventati confessionali non aveva alcuna ragione di esistere. E cosí si spiega che, quando nel 1758 lo Zatta di Venezia pubblicò la prima edizione italiana, si rinnovarono le aspre polemiche contro il trattato della Monarchia, e si ripresero le villanie contro la memoria dell'autore. Né potevano avere fortuna le dottrine e la monografia dell'Alighieri nei tempi posteriori. Soltanto Giuseppe Mazzini comprese e rivendicò l'ideale cosmopoli. tico dello sdegnoso esule di Firenze; e ne fece come il centro della sua concezione della fratellanza e dell'amore, che varca gli angusti con. fini della Nazione per estendersi a tutti i popoli della terra.

Ai nostri giorni, l'idea del coordinamento e della separazione delle due potestà supreme non può avere séguito, non solo perché è tra montato da secoli ciò che era il diritto pubblico dell'età di mezzo, ma anche perchè la formola cavourriana, è stata temperata nell'altra piú moderna « libera chiesa in libero Stato sovrano » ; onde fu detto bene da un cultore di diritto pubblico internazionale, dal Fiore, che la teoria dantesca è un controsenso giuridico.

Tuttavia, Dante rimane sempre il primo poeta italiano che abbia amato la patria nostra, e il primo pensatore dell'umanità, che abbia concepito la grande idea dell'unificazione delle volontà e dell'attività delle varie nazioni, strette tra di loro dal legame spirituale dell'amore e del lavoro.

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di lingua nazionale, nel Quattrocento. La nostra indagine riguarda la fortuna della filosofia politica del pubblicista fiorentino negli inizi del moto umanistico. Ma questa fortuna - diciamolo súbito non si riferisce alla dottrina dualistica dantesca, della quale abbiamo fatto cenno, ma piuttosto delle argomentazioni, di cui il Poeta si serví per sostenere la necessità dell'unità e dell'universalità del governo temporale del globo, e il fondamento giuridico della conquista, fatta dai Romani, di tutto il mondo allora conosciuto. Fu il pubblicista e giureconsulto aretino, Antonio Roselli, che, appunto si serví delle ragioni, che il grande Poeta di Firenze derivò dal lume del raziocinio umano e dall'opera del soprannaturale in suffragio del suo teorema della laicità dello Stato, per sostenere la propria tesi essenzialmente e decisamente teocratica, che rispec chia, nelle sue linee piú salienti, la dottrina di Bartolo di Sassoferrato. La fortuna di Dante, in proposito, si deve all' ingegno dialettico dello stesso Poeta piú che alla sua alta idealità Come e dove il Roselli abbia rinvenuto il trattato dell'Alighieri noi non sappiamo ancóra. È certo, però, che lo scrittore politico di Arezzo trovò efficace pel suo assunto tutto l'apparato dimostrativo e probatorio del polemista fiorentino, del quale il Roselli non cita nè il nome, nè l'opera. Si sa che il trattato intitolato Monarchia del Roselli venne condannato dal Concilio di Trento. Anche la Monarchia dell'Alighieri fu colpita dall'anatema lanciato dallo stesso concilo tridentino. Fu il papa Leone XIII, che cancellò, con molta saggezza, il libro politico di Dante dall'elenco dei libri proibiti. 2

Non è questa la sede opportuna per investigare quali siano state le ragioni, che abbiano indotto i giudici del detto Concilio alla ripudiazione del trattato dello scrittore d'Arezzo, lettore nell' Università di Padova. Sebbene abbia sostenuto il diritto del pontefice romano al governo civile del mondo, pure lo stesso autore si è servito, come si è accennato, e come vedremo súbito, dei medesimi metodi usati dall'Alighieri.

Che il Roselli abbia difesa la tesi teocratica, è cosa della quale non è lecito dubitare. Egli, come tutti i canonisti, fa la questione dei due

1 Cfr. BOCCARDO, Nuova Enciclopedia italiana. Torino, 1885.

2 Cfr. VIANELLO, op. cit., pag. 11.

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