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nati appunto non le veggono affatto. Dalla lezione del codice angelico esce netto il pensiero: voi vedete il futuro, non vedete il presente. Però quel dinanzi o non fu scritto mai da Dante, o fu scritto quando alla mente di lui non era per anco venuto, a cagion di contrasto, il tenere altro modo. Pensata questa forma, l'ottimo artista dovette sentire la necessità di toglier via l'avverbio « dinanzi » e, secondo ogni probabilità, corresse come sta nel manoscritto citato da me: « Ciò, che 'l futuro tempo seco adduce ». Cfr. Purg., XXIII, 98: « Tempo futuro m'è già nel cospetto ».

G. FRANCIOSI,

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI

Giuseppe Bassi.

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Commento al verso di Dante « Lo bel pianeta che ad amar conforta (Purg., I, 19). Modena, tip. Monaldi, 1893, in 8o, di pagg. 4.

Uno dei principali meriti di questo scritto (lo dico senza ironia) è quello di essere di quattro pagine; in esso l'autore (dottore in medicina) espone bravamente le sue ragioni, senza credere suo obbligo di stemperarsi in una pomposa dissertazione. Si vede un uomo, che potrà, come chiunque, pigliare delle cantonate, ma che, almeno, conosce il valore del tempo: benedetto lui; e lo imitassero tutti!

Vuol esso dimostrare doversi per Lo bel pianeta che ad amar conforta, intendere, anzichè Venere, il Sole; nè le ragioni ch'egli adduce sono tutte cattive; ma, secondo me, poco valgono contro il fatto, che da nessuno il sole venne mai chiamato pianeta che conforti ad amare: ministro maggior della natura, padre d'ogni mortal vita, lucerna del mondo, pianeta che distingue l'ore, misuratore del tempo, si; ma che conforti ad amare, no.

Vorrebbe l'autore che nel sonetto Già fiammeggiava l'amorosa stella Per l' orïente : il Petrarca per questa stella intendesse il sole: ma se in oriente fiammeggia il sole, com'è possibile che il poeta continui dicendo, e l'altra che Giunone Suol far gelosa, nel settentrïone Rotava i raggi suoi lucente e bella? Quando il sole è sorto, nè la stella polare (l'antica ninfa Calisto), nè Venere si vedono più. E dico anche Venere, giacchè per tale egli intende la stella che suol far gelosa Giunone; sorridendo alla ingenua serietà di certi dotti che affermano, della ninfa Calisto soler essere gelosa Giunone; i quali dotti però potrebbero a lor volta sorridere, ch' egli dimentichi, usarsi dagli antichi solere in senso assai più largo dell'attuale (testimonio: danteschi U' leggerebbe « Io mi son quel ch' io soglio » Par., XII, 123; Vinceva gli altri e l'ultimo solere, XVIII, 57); e ch'egli faccia Giunone gelosa di Venere, che non so se nella mitologia le n'abbia mai dato motivo; e sopra tutto ch'egli collochi la stella Venere nel settentrione.

Ma la gran ragione della novità è nella osservazione astronomica di Filalete, che la costellazione dei pesci poteva è vero trovarsi sull'orizzonte prima del levare del sole che era in Ariete » e qui io non direi che poteva, giacchè lo doveva necessariamente ma l'apparire di Venere a quell'ora è cronologicamente impossibile e ciò perchè dal 27 marzo al 10 aprile, che sono i limiti delle date assegnabili a quel momento della divina Commedia, Venere non appariva che dopo levato il sole (anche qui, appariva, veramente, no, onde sarebbe stato meglio dire sorgeva).

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Non è detto, ma si sottintenderà, che queste posizioni di Venere si riferiscono all'anno della visione, cioè al 1300, giacchè, anche senza essere astronomi, tutti comprendono, che non compiendosi la rivoluzione di Venere nello stesso tempo di quella del sole (oggi diremmo della terra), le posizioni rispettive dei due astri possono variare da un anno all'altro. Ma senza disturbare gli astronomi perchè verifichino meglio la cosa, o perchè vedano anche se mai ciò che non ha luogo per il 1300 a nativitate, potesse invece avvenire per il 1300 ab incarnatione (il che potrebbe per taluno valer di criterio per dar la preferenza all' una fra le due cronologie), io mi limito a credere che supposta pure in Dante la scelta di un'epoca certa per assegnarvi l'azione del suo poema, lo scrupolo non deve poi essere condotto al punto da far corrispondere a quell'epoca la precisa posizione degli astri cui Dante vuole accennare. Oltrechè non so se i mezzi astronomici d'allora rendessero possibile di farlo, ciò a nulla servirebbe in linea poetica, e sarebbe anzi meno conforme al carattere visionale dell'azione narrata. Basta in questo caso che le descrizioni astronomiche siano verosimili e non contraddicenti; come sarebbe stato p. es., se Dante ci avesse, qui e al XXVII, 94, descritto Venere sul mattino, e ai canti VIII e allo stesso XXVII nei versi precedenti, Venere sulla sera ; il che però Dante non fa più avvisato in ciò di qualche comentatore, il Fornaciari fra gli altri, il quale (inesattezza forse di semplice dizione) definisce Venere quella stella lucidissima che la mattina precede la venuta del sole, e la sera apparisce tosto dopo il tramonto » mentre volea dire, ch'essa appare o la mattina o la sera, sempre poco lontana dal sole, e così precedendolo la mattina, o la sera seguendolo.

Vorrei lusingarmi che queste ragioni sieno bene accolte dal signor Bassi, il quale ha pur sempre fatto un lavoro degno di chiamarvi sopra la pubblica attenzione. Mi auguro in compenso di andare con lui pienamente d'accordo nell'altra dichiarazione astronomica ch' egli promette prossimamente.

F. RONCHETTI.

Max. Durand-Fardel. - Dante Alighieri. Paris, P. Ollendorff, editeur, (Chamerot et Renouard), 1893, in 16°, di pagg. 64.

Dichiara l'autore: «Ceci n'est pas un article biographique: c'est un portrait, ou, pour mieux dire, c'est une exquisse, aussi ressemblante qu'il m'etait possible de la tracer, de l'homme, et du milieu qui l'a fait, tel au moins que nous essayons de nous le représanter ». E la dichiarazione mi è parso di dover riprodurre, perchè è giusto sian noti subito gli intendimenti modesti di questo francese al quale è piaciuto scrivere un opuscolo sopra Dante per « ramener ici la pensée sur une grande figure que quelques traits trop isolés font seuls revivre parmi nous ».

Rallegriamocene: e ringraziando il cortese autore teniamogli conto delle sue dichiarazioni, nonostante le quali, per altro, il suo opuscolo meriterebbe d'essere severamente giu

dicato qua e là. Certe affermazioni e certi poco ponderaĉi giudizi non dovrebbero infatti esser permessi a chi si pone a scriver di Dante: e sono appena tollerabili anche quando escano dalla penna di uno straniero. Quanti potranno leggere, senza sorridere, in questo libretto del signor Durand che Dante « paraît avoir été, toute sa vie, sujet à des visions ou à des hallucinations », e che l'Inferno è opera d'un visonnaire », per entro alla quale è da riconoscer qua e là, nella forte commozione onde il poeta è vinto talvolta, « des témoignages sinon d'une hystérie proprement dite, du moins d'une constitution bien voisine de l' hysterie » ? Nè a molti io penso che possa parere scrupolosamente esatto quanto scrive l'autore toccando dello spirito scientifico delle tre cantiche, o quando adduce e fa sua la sentenza del Jeanroy pel quale non come pensatore, ma solamente come artista, Dante può essere salutato iniziatore d'una novella età. Ma il libretto, simpatico ad onta de' molti difetti e delle molte errate affermazioni che accoglie perchè inspirato, dalla prima all'ultima pagina, ad un sincero amore per l'Italia e ad una grande ammirazione pel suo poeta, è scritto da un francese, in Francia: ciò che vuol dire come a tutti deve esser noto in un paese dove oramai sono e si vanno, da un certo tempo, sempre più facendo rari gli uomini che si occupano a scriver sulle cose d'Italia con parole e intendimenti onesti. Ciò accresce i pregi dell'opuscolo del signor Durand, e ne fa parer men grandi i difetti: sì che io mi sento portato meglio a dar lode che biasimo. E lode merita senza dubbio il chiaro autore per la diligenza usata nel ricomporre, ad uso de' suoi compatrioti, a grandi tratti ma lucidamente, la biografia di Dante, e con rapido e comprensivo esame nel ricercare l'anima dell' Alighieri dentro alle sue opere, e, naturalmente, in ispecial modo, nella divina Commedia: poichè quivi l'autore mette in iscena sè stesso, parla in propria persona e - come disse il Gioberti descrive quello di cui non si può dubitare la verità, mentre sono le cose che vide, i suoni che ascoltò, i sentimenti che provò, le parole che mosse: poichè quivi, quali nelle lor liriche il Göthe, l' Hugo, il Byron e il Lamartine, come recentemente ha osservato il Brunetière, Dante ha trasfuso l'impronta incancellabile del suo genio in quanto che la sua poesia ci rivela i più riposti e profondi sentimenti dell'anima sua. E dice bene il Durand che se la Vita nova « est un portrait ou l'art l'emporte sans doute sur la rassemblance », nella Commedia si ritrova « l'homme lui même »; e stima a ragione che sola la Commedia, fra tutte le opere dantesche, possa diventare veramente popolare in Francia, perchè la Commedia « est de tous les temps et de tous les mondes »; un'opera « indéfinissable et inimitable, qui à entrâiné dans son immortalité des œuvres, assurément curieuses et attachantes, mais demeurées trop loin de nous ». G. L. PASSERINI.

M. G. Ponta (C. R. somasco).

pagg. 57.

Due studi danteschi. Roma, tip. Armanni, 1890, in 16o, di

Dell' età che in sua persona Dante raffigura nella divina Commedia. Torino, Roux, 1891, in 16o, di pagg. 33.

Orologio dantesco e tavola cosmografica. Città di Castello, Lapi, 1892, in 16o, di pagg. 124.

Il somasco Carmine Gioja s'è proposto di ripubblicare le opere di M. G. Ponta, perchè a questi si assegni il posto che gli compete fra i dantisti italiani. E, pure riserbando il giudizio complessivo quando l'edizione degli scritti pontiani sarà fatta per intiero, e solamente accon tentandoci per ora di temperare l'eccesso di una benevola predisposizione, dobbiamo essere grati e lieti che ci sia dato modo di meglio apprezzare e conoscere i saggi originali e robusti di un romito e finora non abbastanza conosciuto illustratore del nostro maggiore poeta.

Nato il Ponta vicino a Novi-Ligure nel 1799, insegnante di filosofia nel liceo di Genova, poi di matematica ed astronomia nel collegio di Lugano, dopo avere gustato e prediletto Boccaccio e Petrarca, dedicò allo studio di Dante l'ultimo decennio della sua vita operosa (1840-50), leggendo e pubblicando tra gli atti dell' Accademia tiberina e nel Giornale arcadico di Roma memorie notevoli per serietà di erudizione e per acume critico, vivacemente polemizzando col Ricci, col Bernardoni e con F. Scolari, felicemente precorrendo in molte teoriche e dottrine i poderosi scrittori che in Italia e all'estero fecero rivivere Dante sotto novella luce in questo scorcio del secolo nostro.

Nel primo opuscolo precede una lettera al padre Borgogno, di commento ai versi 91-93 del canto VIII dell'Inferno sul significato delle parole che concedono a Virgilio di entrare nella città di Dite, vietandolo invece a Dante. A mio giudizio, non mancano qui pregi, dottrina e osservazioni acute; ma non è lavoro di grande importanza, nè, tantomeno, comple tamente riuscito.

Segue una dissertazione sulla Rosa celeste, commento ai versi: In forma dunque di candida rosa Mi si mostrava la milizia santa Che nel suo sangue Cristo fece sposa; studio che merita, fra gli altri, speciale considerazione, come quello ch'è diretto a spiegare il vero concetto di Dante sulla disposizione dei beati nella rosa celeste. La base della discussione poggia sulla interpretazione dei versi del canto XXXII del Paradiso: Di contro a Pietro vedi sedere Anna.... E contro al maggior padre di famiglia Siede Lucia...., che il Ponta spiega non già per sedere di faccia, come la maggior parte dei dantisti suoi contemporanei, ma bensì, avuto riguardo alla posizione speciale di un cerchio, per diametralmente opposto, indicandosi colui che siede nello scanno diametralmente opposto ad un altro determinato, e non più.

Magistrale e compiuto lavoro è il secondo, dove il Ponta dimostra che, oltre la sentenza allegorica e la letterale, havvene una terza nel poema dantesco, la quale spetta esclusivamente alla favola poetica, e ci rivela Dante come un viatore che, sotto la guida successiva di Virgilio, Beatrice e san Bernardo, da adolescente passa alle tre susseguenti età della vita umana. Dante è nell'adolescenza nei primi 61 canti: in gioventù e vecchiezza dal 61 al 98, ed è in şenettute negli ultimi tre (98-100).

Una sobria esposizione per via di esempi prova che Dante agisce in conformità delle qualità, difetti e virtù di queste diverse età, e che anche le sue guide lo trattano in conformità di esse. Obbiezioni non potevano mancare; ma il Pontà ha prevenuto le principali e le più sostanziali, combattendole con raro vigore critico.

L'Orologio dantesco, pubblicato la prima volta nel 1843, è una illustrazione astronomica del poema dantesco, la quale riesce ottima guida per conoscere con facilità e prontezza la posizione dei segni dello zodiaco, le fasi diurne e le ore indicate e descritte nella divina Commedia, e segna i passi del viaggio dantesco, dimostrando il mirabile accordo di tanti e sì varii e, in apparenza, discordi elementi.

La Tavola cosmografica è una continuazione dell'Orologio, divisa in sfera celeste e in globo terrestre, e giova mirabilmente a chiarire i punti cosmografici della divina Commedia. Evito di entrare in particolari, che richiederebbero una troppo ampia e coordinata esposizione.

Il Ponta, è bene rilevarlo, fin da' suoi tempi usava valersi largamente delle Opere minori di Dante per il commento e l'illustrazione della divina Commedia. In genere, le sue teoriche non comportano discussioni e sottigliezze: scritte da uomo versato nelle scienze esatte, hanno il rigore di trattati scientifici puri; epperciò o si accettano quali sono nel loro complesso e sostanzialità, o si rifiutano per intiero. Attendiamo la pubblicazione degli altri scritti danteschi del Ponta per giudicarli compiutamente nel loro insieme.

G. GORRINI.

BOLLETTINO

Amore Antonino.

Polemica dantesca. (Nel Goliardo, Anno I, ni. 6 e 7).

Rispondendo alle osservazioni del Campani (cfr. no. 152) sui versi 82-85 del XV dell' Inferno, conclude che se il Boccaccio e Benvenuto da Imola, i più autorevoli commentatori e quasi contemporanei di Dante, chiaramente lo affermano; e se Giovanni Villani, storico contemporaneo, lasciò scritto aver Brunetto Latini insegnato publicamente rettorica e filosofia; conseguenza strettamente logica vuole che nessun'altra interpretazione si debba dare al verso mi mostravate (sic) come l'uom si eterna, se non quella comune, o sia quella universalmente accettata, che Brunetto Latini fu un vero e proprio precettore di Dante. (149 Antognoni Oreste. Saggio di studi sopra la Commedia di Dante. (Recensione firmata G. C., in La Cultura. Anno III della nuova serie, ni. 27-29).

È un lodevole contributo ai più recenti studi danteschi in Italia.

(150

Brognoligo Gioacchino. Montecchi e Cappelletti nella divina Commedia. Bologna, tipografia Fava e Garagnani, 1893, in 8o, di pagg. 31.

Combatte, a proposito del terzetto 106-108 del canto VI di Purgatorio l'opinione dello Scolari, del Torri e di altri, per affermare, su l'autorità di Pietro di Dante, che quivi il poeta nostro chiama l'imperatore a domare le lotte di parte che insanguinavano le singole città d'Italia porgendogliene sotto gli occhi alcuni esempi scelti, senz' alcuna preoccupazione del colore politico e senza nè meno curarsi di porre a fronte l'una dell' altra, con armonia troppo minuziosa, due coppie di famiglie rivali. Una tale armonia è cosa, dopo tutto, che sta più nell'arbitro dei commentatori che nella mente del poeta, al quale, nel suo impeto sdegnoso, basta soltanto di presentare efficacemente i suoi esempi senza perdersi a cercare un ordinamento artificioso. Si potrebbe obbiettare che tale ricordo, presentato in forma generale, di alcune fazioni italiane, contrasta al verso Color già tristi e costor con sospetti, dove pare che il poeta alluda a fatti speciali e bene determinati. Ma non si deve dimenticare che quando Dante scriveva, la signoria prima di Ezzelino III, poi dei Della Scala, aveva fatto cessare in Verona le lotte di parte, che pure si eran calmate a Cremona sotto il dominio dei guelfi, laddove in Orvieto erano anche armati gli uni contro gli altri Monaldi e Filippeschi; ai quali dunque ben si conveniva l'epiteto di sospettosi, e di già tristi a quelli che lungamente ave vano un tempo insanguinato le lor città. Il tristi si deve intendere detto delle discordie in generale e non di un fatto particolare, che trattandosi di cose da gran tempo passate sarebbe stato inutile specificare. Invece a un fatto particolare, recentissimo quando Dante scriveva, si riferiscono di certo le parole e costor con sospetti, determinate, anzi volute d'altra parte dalla ragion poetica della Commedia : quando Dante viaggiava nel purgatorio le sconfitte patite dai Filippeschi nel 1303 e nel 1311 non erano ancora avvenute, ma quando egli scriveva le sa peva e certo ad esse alludeva con quelle parole. Il significato del noto passo dantesco par dunque chiaro così: Vieni a vedere, uom senza cura, i Montecchi di Verona e i Cappelletti di Cremona, i Monaldi o Monaldeschi e i Filippeschi di Orvieto, quelli tristi per le passate discordie, questi sospettosi per le presenti. E questo porre di fronte discordie passate e discordie presenti poteva servire, nella mente del poeta, a mostrare come esse fossero male antico e profondamente radicato d'Italia. E aveva ragione il poeta di dare un esempio vivo di tali discordie accoppiando i nomi dei Monaldi e dei Filippeschi, che ancora erano accoppiati nella mente di tutti tenendo in sospeso gli animi, mentre l'altre due fazioni potevano essere ricordate separatamente, come quelle che, da tempo calmate, non vivevano più che nel ricordo

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