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medico, il quale lo fece per servire il re, e che questo proditor et homicida tossichavit sedem latrynae ad quam iturus erat sanctus Thomas, qui mor

tuus est.

Del resto, se Carlo fosse giunto a tali eccessi il motivo non sarebbe il desiderio d'acquistar danari, ma bensì il timore di veder scemare la prepotenza dei francesi in Italia.

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E impossibile dir con più franchezza che il vizio del principe è avarizia mistica, ambizione di grandezza, desiderio di conquiste, poiché vuole terra, non danari.

Ciò detto, mi fermo, un momentino, per fare un'osservazione delle piú semplici.

Se veramente furono peccato d'avarizia le conquiste dei principi francesi in Italia, non è vero che il massimo vituperio di quel genere di vizio sarà la glorificazione delle vittime di quelle guerre?

Non è vero che qui abbiamo la più splendida conferma dell'asserzione che prima poteva parere inverosimile, quando abbiamo detto che il poemetto di Manfredi nell' Antipurgatorio, è biasimo aperto e fortissimo dell'avarizia, intesa nel senso mistico del poeta?

Ma il rimanente del nostro comento sul canto XX dimostra meglio ancora, come il peccato d'avarizia, definito nella persona di Carlo II sia tutto mistico, e diverso, e anche opposto all'avarizia semplice che consiste nell'amore dell'oro.

Gli avvenimenti annunziati da Ugo sono questi:

1° L'intervento di Carlo di Valois nelle faccende di Firenze, verso la fine del 1301.

2o Le nozze della figlia di Carlo lo Zoppo.

3o Le violenze di Filippo il Bello verso papa Bonifazio, nel 1303.

4o La rovina dei cavalieri del Tempio, nel 1307.1

Al verso 80, vedremo la distinzione che si deve fare tra le figlie di Carlo II. Qui ci limiteremo a dire che l'Allighieri, il piú esatto, il piú metodico degli uomini, non poteva smettere l'ordine cronologico; ne segue che la seconda predizione si riferisce senza dubbio al matrimonio d'Eleonora, non a quello di Beatrice. Eleonora prese per marito Federigo, re di Sicilia, e quelle nozze ebbero luogo nel 1302, prima degli avvenimenti d'Alagna, e dopo le accoglienze fatte al Valois in Toscana. Ma il matrimonio di Beatrice col marchese d'Este venne celebrato nel 1305, cioè, dopo la terza predizione.

v. 73 L'altro che già uscí preso di nave
veggio vender sua figlia.

1 Su questo punto, che qui rammentiamo a imitazione della maggioranza degli espositori, e che ci pare piú che dubbioso, si noti semplicemente che Filippo porta nel Tempio le cupide vele dopo i fatti d'Alagna,

Carlo diede Beatrice al marchese Azzo VIII del quale si fa menzione nell' Inferno (canto XII), nel Purgatorio (canto V), e nel libro dell'Eloquenza volgare. Il matrimonio ebbe luogo nell'aprile del 1305 e Azzo morí nel 1308. Era vedovo di Giovanna degli Orsini, alla quale si congiunse nel 1282. La dote che diede a Beatrice fu di 30 000 o 50 000 fiorini d'oro; su questo punto si leggono cose contradditorie nelle chiose e nelle cronache. Furono veramente pagati al padre, come vuole la leggenda ghibellina? Il fatto è incerto. Era veramente Azzo quel vecchio decrepito che sepper dipingere i chiosatori? Obizzo, suo padre, aveva diciassett'anni quando sucedette all'avolo, il 17 febbraio del 1264. Ammettendo che avesse vent'anni quando ingenerò il figlio, ne segue che questi, all'epoca in cui si ammogliò con Beatrice nel 1305, non aveva raggiunto i quaranta anni.

Anche volendo che l'amore dell'oro fosse il principio che obbligava Carlo al matrimonio biasimato da Dante, i chiosatori dovevano far scelta d'Eleonora piuttosto che di Beatrice, giacché la dote della regina di Sicilia fu di fiorini 100 000. Ma quelle nozze ebbero luogo dopo l'invasione dell'isola, quando Carlo di Valois, ritiratosi da quella guerra, fece il trattato che pose fine alle ostilità fra le tre corone. I patti parvero favorevolissimi agli Angioini. La Sicilia doveva esser di Carlo, o de' suoi eredi, quando Federigo avesse acquistato un altro regno, o al più tardi dopo la sua morte. Considerando con quanto odio e disprezzo Dante biasima la viltate dell'Aragonese, non c'è dubbio che, nelle sue idee, il dare per marito un tale uomo a Eleonora fosse patteggiarne e mandarla in ischiavitú. Questo si faceva non per vera avarizia, ma per avarizia mistica, o, in altri termini, per ambizione, e voglia sfrenata di accrescimento dei domini della casa di Francia.

E finalmente, che Carlo II non fosse avaro nel senso letterale della parola, lo dichiara Dante medesimo nel poema del Paradiso quando dice di re Roberto:

La sua natura che di larga parca
discese.

Dopo la storia dell'avarizia e del vizio dei golosi, è d'uopo far quella della superbia e dell' invidia. Ma l'esposizione di quelle ricerche sarebbe troppo lunga e si farà in un altro articolo.

DOTT. PROMPT.

NOTERELLE

buon sartore

com'egli ha del panno fa la gonna.

Parad., XXXII, 140.

Al signor Senes, che tempo fa mi scriveva da Londra per difendere ancora, contro il Nottola e contro di me, il suo modo di intendere il verso di Dante: Batte col remo qualunque s'adagia, dedico questa notarella che da Ravenna mi manda il canonico Ferdinando Savini, un buono e valente ed altrettanto modesto studioso del nostro poeta.

"Dante usa la parola qualunque ora come aggettivo, ora come pronome. Quando è aggettivo, corrisponde alla parola ogni, oppure ad ogni.... che; quando è pronome corrisponde ad ognuno che, cioè inchiude sempre l'idea relativa.

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Inf., XXV, 22.

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Dante poi usa il qualunque come pronome tanto come soggetto quanto come complemento. Esempio:

Or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse per vergogna
di ragionar co' buoni o d'appressarsi.
Purg., XVI, 118.

Dunque il verso: Batte col remo qualunque s'adagia non può significare quello che avea sospettato il Senes, cioè: batte col remo le onde: ciascuna anima si adagia; ma significa, invece : batte col remo ciascuna anima che si adagia, si posa nella barca. Ma qui sento il Senes rispondermi: Se le anime restassero ritte, alla prima mossa della barca cadrebbero. E forse egli avrà ragione: ma a me non può uscir di testa l'idea che Caronte voglia che le anime stieno ritte, nonostante il pericolo cui vanno incontro di cadere, cioè, al muoversi della nave, e nonostante sieno lasse. A ciò m'induce anche l'antitesi che, se non mi illudo, deve trovarsi fra Caronte

la sua barcaccia e queste anime, con l'angelo che dalla foce del Tevere naviga all'isola del purgatorio, la sua barchetta e le anime che vanno a farsi belle. Qua Caron, dimonio con occhi di bragia, là' un angel di Dio; qua la detta barcaccia, là un vascello snelletto e leggero; da una parte il remo faticoso, da un'altra il lieve mover dell'ali, perché il celestial nocchiero sdegna gli argomenti umani; le anime dei dannati che bestemmiano Dio, le anime purganti che ne cantan le lodi. Dunque come siedono queste, quelle stieno ritte: e se nel muoversi della nave di Caronte barcolleranno o cadranno, peggio per loro. „

* **

E sempre a proposito di Caronte e delle sue battiture, mi rincresce di non trovarmi d'accordo coll'amico Ferdinando Ronchetti, il quale, nella sua diligente recensione dell'opuscolo di Paolo Luotto sul s'adagia del verso 1, al canto III dell'Inferno (Giornale dantesco, II, 162 e segg.) rigetta le interpretazioni date recentemente dai professori Antognoni, Maruffi e Nottola, e dichiara di trovarsi perfettamente d'accordo e nella conclusione e in molti particolari con quella difesa dal Luotto.

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Riletto attentamente il passo dantesco, pare al dottor Ronchetti che non si possa far distinzione tra il primo affrettarsi delle anime (verso 74) e il loro indugiarsi dopo la sgridata di Caronte e quindi il feroce demonio non batte, secondo lui, le anime restíe ad imbarcarsi, ma alcuna di esse che, discesa nel triste legno, per la stanchezza e l'abbattimento fa atto di adagiarsi „. Ma non sembra al Ronchetti che il Luotto, in fin de' conti, accetti la interpretazione del professor Maruffi? Egli infatti, s'io non erro, esclude soltanto il caso che Caronte batta le anime prima che entrino nella sua barca. E di ciò reca due ragioni: 1o, il passo vergiliano dell'Eneide (VI, 294 e segg.):

Huc omnis turba ad ripas effusa ruebat. . .
Stabant orantes primi transmittere cursum,
Tendebantque manus ripae ulterioris amore;
Navita sed tristis nunc hos, nunc accipit illos,

dal quale passo non risulta che Caronte turbi le anime quando son tuttavia sulla riviera; 2o, il verbo raccogliere, che deve riferirsi al momento nel quale le anime vengono riunite dentro la barca, non al momento in cui esse trovansi sul lido ove si trasser tutte quante insieme di per sé stesse. Alla prima ragione si potrebbe opporre che l'inferno di Vergilio non è l'inferno visitato e descritto dal nostro poeta: e che per ciò non dovrebbe far nessuna maraviglia se Dante, fra le altre molte e notevoli e necessarie modificazioni abbia introdotta anche quella di far battere le anime sul lido; alla seconda, che raccogliere, usato nel presente:

Caron, dimonio con occhi di bragia,

loro accennando tutte le raccoglie,

significa, precisamente, un'azione contemporanea a quella del battere, non un'azione di già compiuta. In altre parole, che Caronte, battendo le anime intanto che le veniva raccogliendo dentro la sua barca, poteva batterle cosí nella navicella come sul lido.

-

Con ciò intendo dichiarare che l'interpretazione data dall'Antognoni e dal Maruffi, confortata poi dal Nottola (Giornale dantesco, I, 132, 217 e 460) rimane sempre la piú naturale, e però la piú giusta: salvo che non mi pare necessario dare al pronte del verso 74 siccome l'Antognoni propone il significato di preparate, giacché, e l'ho detto altra volta (Giornale dantesco, I, 469) io non trovo contradizione alcuna tra il primo affrettarsi delle anime, per disposizione divina, come spiega più tardi Vergilio al poeta (verso 124), al passaggio del rio, e il loro indugiarsi a un tratto, momentaneamente, dopo intese le parole crude del pauroso navicellaio. Sono del resto d'accordo col valente amico Ronchetti, che per provare il senso di una sola parola, - e sia pure una parola di Dante, non occorreva che il Luotto facesse tanto sfoggio di dottrina: perché certe verità sono oramai riconosciute da tutti; e se la critica dantesca dovesse procedere nel modo che egli ha tenuto, ad ogni questione dovremmo rifarci da capo. E non ci mancherebbe altro!

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Firenze, ottobre 1894,

IL DIRETTORE.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI

Osservazioni sulla edizione minore del Comento di G. A. SCARTAZZINI alla divina Commedia,

Se v'ha un'opera della quale si può con certezza presagir prossima una seconda edizione, è certamente l'edizione minore del comento alla divina Commedia dello Scartazzini, vuoi per la riputazione del comentatore, vuoi per la comodità del manuale, col suo rimario, l'indice delle cose notabili, e su ogni pagina le rubriche del contenuto, vuoi per lo splendore del lavoro tipografico. (Troppo splendore anzi: quella carta bianca come neve, dopo poco, abbaglia la vista, e se ne desidera una di tinta un po' piú smorzata. E giacché sono in su questo lato materiale, mi permetto un altro consiglio: la numerazione, a l'ultimo, anziché al primo verso di ogni terzina, che riesce per molti riguardi assai piú comoda).

Naturale quindi che per una nuova edizione si brami veder scomparire alcune mende, che, come in ogni lavoro umano, anche in questo non possono mancare: e da ciò soltanto trassero vita questi pochi appunti scritti currenti calamo e nei quali quindi, senza che io ne faccia esplicita protesta, il lettore vorrà facilmente escludere ogni pretesa d'infallibilità ed ogni aspetto di censura personale (che il più delle volte del resto piú che lo Scartazzini colpirebbe i comenti da lui seguiti), per non vedervi, anche sotto apparenze di vivacità, abbastanza scusate dal getto spontaneo e da l'aridità de l'argomento, un intento serenamente obiettivo.

Nel canto I sono errori di stampa al v. 1, maturati per naturati: al v. 63, modice per modicae. - Al v. 60 non direi davvero che il tacere del sole alluda all'armonia prodotta dal moto del sole e delle sfere (e lo ripete al V, 28), ché quell'armonia non può certo sospendersi nella notte.

-

Al v. 64 si chiede: perché diserta (la selva), se simbolo della vita peccaminosa? Ma Virgilio era nella selva o nella piaggia diserta (v. 29)? Del resto poi, la vita peccaminosa nulla ripugnerebbe chiamarla diserta, come quella che non produce alcun buon frutto.

- Al v. 88 Vedi la bestia, si chiede pure, perché non menziona la lonza ed il leone? È chiaro perché sí l'una che l'altra non gli avrebbero impedito il salire.

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Dal v. 91 A te convien tenere altro viaggio, deduce che la via "su cui il p. erasi messo non era per conseguenza la verace Ma pare di sí, se non fosse stato l'impedimento della lupa; tanto vero che al II, 120 lo chiama il corto andar. Né capisco, perché al seguente per la sua via (v. 95) annoti, con un esclamativo, della lupa!, se la sua via qui non vuol dir altro, se non la via sulla quale si trova la lupa, come usa Dante anche altrove, Purg., XXVIII, 42 Ondera pinta tutta la sua via, la via che percorreva Matelda; Inf., XXIV, 97 da nostra proda, dalla proda ove ci trovavamo noi.

- Al v. 102 dal Verrà deduce che il Veltro dunque non era ancor venuto. Ma potea benissimo esser venuto in terra, ma non ancora accintosi a debellare la lupa.

Al canto II, v. 30 dopo salvazione metterei punto, non virgola.

Al v. 57 Con angelica voce in sua favella, la sua traduzione viene a dire, con angelica voce nel suono della sua voce. Piú logico sarebbe usando, nel suo parlare, di una voce tutt'affatto angelica.

Giornale dantesco.

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