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§. 2.

L'altra categoria di contraddizioni si spiegherà in generale come la prima. Ne esamineremo un esempio solo. Dante, nel Convito dice che la lingua grammaticale, o, in altri termini, il latino, è più nobile del volgare; poi, nell' Eloquenza Volgare, i codici e le edizioni dicono che il volgare è più nobile. Il codice grenobliano dice:

« Harum quarum duarum nobilior est vulgaris, tum quia prima fuit » humano generi usitata, tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in di» versas prolationes et 1 vocabula sint divisa, tum quia naturalis est nobis, » cum illa potius artificialis existat, et de hac nobiliori nostra est intentio » pertractare ».

È stranissima la contraddizione; è cosa che non si può intendere. Oltre a ciò le ragioni di Dante non hanno che fare colla nobiltâ. Non si può dire che le cose siano più nobili, perchè comuni a tutti gli uomini, anche ai più vili e più infami; non si può esser pazzo fino a sostenere che le cose che l'uomo fa da sè, e per istinto naturale, siano più nobili di quelle ch'egli fa coll'arte e colla scienza. Tutto dunque dimostra che qui abbiamo un errore dell' amanuense, che scrisse due volte la parola nobilior, mentre doveva scrivere utilior, che era quella del testo.

Abbiamo letto Harum quarum duarum invece di Harum quoque duarum, che è correzione cattiva e inconsistente del Corbinelli. Nel codice, la parola quarum è mezzo cancellata, ma pure si legge facilmente; il Corbinelli scrisse su quel quarum, con inchiostro nerissimo, un quoque che poi fu stampato in tutte le edizioni, e non ha senso di nessun genere. In altri luoghi fece, col medesimo inchiostro, correzioni come questa, e di ciò non pago, si affaticò assai, passando la penna su varie lettere più o meno cancellate, e in certi luoghi lo fece con goffagine notevolissima, come nella parola grandiosa, al principio del capitolo 7 (lib. II). Quelle correzioni si vedono bene nella nostra riproduzione fototipica; ma, per la forza della tinta, accade che distruggano ogni cosa che esiste al disotto, e questo è, in certo modo, tradimento che ci fa la luce e il sole, cancellando la verità e lasciando stare l'impostura.

§. 3.

Nella terza classe, ritroveremo un esempio chiarissimo di quelle contraddizioni che forse non esistono, ma in ogni caso potrebbero esistere, e

Questo et è errore del copista; è forza cancellarlo.

non sono in numero piccolo, nei massimi poeti, e in quelle opere che danno luogo allo sfogo della fantasia. Di quelle se ne osservano alcune nei poemi omerici, e per questo diceva Orazio che quandoque bonus dormitat Homerus. Furono basi dei principii della scuola wolfiana che voleva attribuire a una grande accademia di poeti diversi l'Odissea e l'Iliade. Ma quando lo scrittore mette in movimento figure numerosissime, che son figlie del suo capriccio, può accadere, e accade veramente, ch' egli si dimentichi qualche circostanza e introduca nel suo racconto cose che non si spiegano e non possono stare d'accordo col rimanente dell' opera.

Così il Cervantes, quando pubblicò la prima parte del Don Chisciotte, fu oggetto di varie critiche, spettanti a errori di quel genere. Gli si rimproverò, non senza ragione, che non si vedeva come Sancho e il suo asino. fossero separati l'uno dall' altro, e Cervantes, non solo riconobbe l'esattezza dell' obbiezione, ma la repinse con sommo disdegno e si difese coll' autorità dell' Ariosto, dicendo che il ladro Gines di Pasamonte aveva fatto a Sancho il medesimo giuoco che Brunello a Sacripante, quando la sella su quattro aste gli suffolse, E di sotto il destrier nudo gli tolse.

Similmente noi vediamo che Omero mette al duello gli eroi che vanno a visitare Achille, mentre il testo dice altrove, in modo chiaro e evidentissimo, che sono in numero molto maggiore di due.

E similmente si vede che Dante castiga Manto, nella bolgia degli indovini, al canto XX dell' Inferno, e poi fa dire a Stazio al canto XXII del Purgatorio, che la figlia di Tiresia è nel limbo..

Quanto a me, io non credo che qui ci sia contraddizione. Credo che Dante, per la Manto della bolgia, prenda non la figlia di Tiresia, ma quella di Melampo. Pure, in quel sistema d'interpretazione, vi son certe difficoltà, e, particolarmente, si dovrebbe ammettere che per città di Bacco Dante intenda Atena e non Tebe. Non è cosa insostenibile, per chi vuoi rammentarsi quanta fosse l'importanza delle feste dionisiache in tutta l'Attica: ma è idea strana. Del resto, nell' altro sistema, che poggia sulla contraddizione di Dante con sè medesimo, le difficoltà esistono tuttavia. F questo punto di scienza dantesca, sul quale mi spiegherò più a lungo un' altra volta, diede luogo, nelle chiose antiche e nelle moderne, e anche nelle modernissime, a un mondo di spropositi d'ogni genere.

Ma al punto di vista della critica generale, non v'è dubbio che, per quanto si sa della natura umana, si possa intendere come il poeta, in certi casi, sia tradito dalla propria memoria, e faccia errori più o meno curiosi. Quello che non s'intende è ch' egli sia traditore della sua fede morale, della sua scienza, dell'arte medesima; che qui si dimostri ingenuo e delicatissimo, e che in altro luogo venga a divagare, come pedante, e come imbecille, che non sa che cosa siano sonetti, canzoni, stile e versi. Non

s'intende che qui sia matematico perfetto, e altrove uomo incapace di distinguere il quattro dal sei; non s'intende che in certi luoghi si dichiari per analista profondo delle passioni umane, e che altrove ne parli come pazzo e come smemorato.

Se per qualche povero lapsus memoriae la critica wolfiana volle riconoscere non si sa quanti Omeri, come può il dantista, innanzi a cotali stranezze, ostinarsi negli antichi errori, e attribuire al sommo poeta cose indegne del più vile degli uomini?

$ 4.

Non sono così frequenti le contraddizioni che esistono in un solo capitolo; ma esistono tuttavia. Il più bell'esempio è quello che si legge nel capitolo 13 del libro II dell' Eloquenza Volgare, il quale, come ho dimostrato altrove, fu, per errore di legatori e copisti, cacciato in mezzo ai veri capitoli 10 e 11 e ricevette nelle edizioni il titolo di capitolo 11.

Si tratta del numero dei versi e delle sillabe nelle due parti della stanza, la quale può dividersi in fronte e versetti, o in piedi e sirima, o in piedi e versetti. Nel primo caso vi possono essere, come negli altri due, quattro combinazioni diverse.

La fronte avrebbe: 1.° più versi, e più sillabe dei versetti;

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Si dice che il primo sistema possa esistere, ma che non se ne conosce esempio nessuno. Del secondo si dice che sarebbe, per esempio, quella d'una stanza in cui la fronte avrebbe cinque eptasillabili, e ciascun versetto, due endecasillabi; veramente, quella fronte avrebbe cinque versi, e i versetti quattro, e la fronte avrebbe sillabe 35, e i versetti, 44. Dunque tutto procede egregiamente fino al terzo caso, del quale si dà l'esempio seguente (lezione grenobliana):

« Ut in illa quam dicimus: Tragemi della mente Amor la stiva. Fuit » haec tetrametra frons tribus endecasillabis et uno eptasillabo contexta nec » etenim potuit in pedes dividi, cum equalitas carminum et sillabarum requi»ratur in pedibus inter se, et etiam in versibus inter se, et quemadmodum di» cimus de fronte et de versibus, possent etenim versus frontem superater » metem et eptasillaba metra et frons esset pentametra duobus endecasillabis » et tribus eptasillabis contexta, quandoque vero pedes caudam superant, ecc. ». Esaminando quella serie di parole che finalmente degenerano in guazzabuglio perfetto, si osserva, in primo luogo, che l'autore dovrebbe scri

vere quam diximus in vece di quam dicimus. Poi, è gran maraviglia leggere il primo verso d'una canzone di Dante che oggidì sarebbe perduta. Le canzoni del divino poeta furono oggetto di ammirazione anche prima della sua morte, e tutte si ritrovano ricopiate in più di un codice antico. Egli medesimo se ne dà il vanto nell' Eloquenza Volgare (I, 17) e altrove. Poi quella canzone sarebbe l'unica in cui si facesse la divisione in fronte e versetti, che è quasi senza esempio, non solo nelle opere di Dante, ma anche in quelle degli altri poeti del suo secolo.

Anche si noterà che l'esempio si dichiara in modo imperfetto e incon-sistente. Si dice quale sarebbe il numero dei versi e delle sillabe della fronte; ma non si spiega quante fossero le sillabe nè quanti fossero i versi dei versetti.

Dopo quella bestialità, si legge un quemadmodum dicimus de fronte et versibus che non può essere qui al luogo suo. È frase che non può stare, se non con quello che segue, quando la questione della fronte e dei versetti è esaurita, quando si tratta delle altre, e si vuole richiamare la prima, per metterla a paragone colla seconda e colla terza. Starebbe bene col quandoque pedes caudam superant; ma fra quei due avanzi di un medesimo periodo, abbiamo varii barbarismi, e sciocchezze, dalle quali non si può cavar senso nessuno. È opera del copista, che ha il glossatore alle reni, e corre di qua e di là, titubando come ubbriaco, e non sa che far di sè stesso e della sua penna.

Il fatto è di tale evidenza che il copista trivulziano volle racconciare e aggiustar tutto per il meglio, e fece un glossema che il Corbinelli ritraduce in latino e mette in margine del codice di Grenoble. Questo glossema, tradotto in italiano dal Trissino, ristampato in tutte le edizioni, e, in somma, considerato come opera di Dante per secoli e secoli, dice così 1: «ma » siccome dicemo che i versi possono avanzare di numero di versi e di » sillabe la fronte, così si può dire che la fronte in tutte queste due cose può avanzare i versi, come quando ciascuno dei versi fosse di due versi eptasillabi e la fronte fosse di cinque versi, cioè di due endecasillabi, e di » tre eptasillabi contesta».

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Per fabbricare il glossema, l' imbecille del copista mette in opera le uniche parole non sragionevoli che ritrova nel testo grenobliano: «Et frons esset pentametra, duobus endecasillabis et tribus eptasillabis contexta ».

Ma dopo le tre prime combinazioni, egli doveva almeno prender la

1 Prendo l'italiano di Trissino, che almeno non è sconcio nè ignobile, per quanto spetta allo stile, mentre quei pregi esistono in sommo grado nel latino del copista.

quarta, e esaminare il caso nel quale la fronte ha men versi e più sillabe dei versetti. Invece, quell' animale ritorna al primo caso, del quale Dante diceva ch'era cosa possibile, ma che non v'erano esempii.

E noi vediamo che la critica antica e moderna mette tutte quelle cose sul conto di Dante medesimo, e non di glossatori, come facciamo noi. E qui osserviamo che per attribuire codeste bellezze del poeta, non basta considerarlo come capace di perdere il buon gusto, e il buon senso e la ragione; ma bisogna ancora ammetter che ci sia contraddizione nel medesimo capitolo, e due linee dopo la frase maledetta, giacchè egli dice così: « Et quemadmodum diximus frontem posse superare carminibus, et sillabis » superari, et e contrario». Questo e contrario è il quarto caso, del quale non si fa parola nei testi stampati, che seguono il glossema trivulziano.

1

Nell' esame di questo punto di dantologia, ci siamo basati sul fatto che venne dimostrato da noi nella prefazione del codice grenobliano; e che tocca alla filiazione dei testi a penna, giacchè ormai non si può negare che il codice di Milano sia copia dell'altro. Questo però fu negato ancora, dal Rajna, quale non si stanca di annunziare al pubblico un'edizione critica (??, dell' Eloquenza Volgare, ch' egli intende di fare stampare un giorno, Iddio permettendolo 1. Non sarà dunque inutile, mentre siamo in atto di comparare i codici, di dare un'altra prova di quel fatto, e prova che sia tale da liberare di ogni dubbio la mente del lettore.

Fra gli errori dei testi stampati, ve n'è uno dei più curiosi, che ho dimostrato, nel capitolo del libro II. È un piccolo periodo, che si ripete due volte. La prima volta non è a suo luogo, e non ha senso; l'altra, sta bene, e non c'è che dire: è cosa che risponde egregiamente all'insieme del capitolo.

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Leggendo nel codice grenobliano, il testo va come segue:

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Nam quidquid nobis convenit, vel gratia generis, vel speciei, vel indi» vidui convenit, ut sentire, ridere, militare; sed nobis non convenit hoc gratia generis, quia etiam brutis conveniret, nec gratia speciei, quia cunctis » hominibus esset conveniens, de quo nulla quaestio est; nemo enim monta» ninis (Sed optimae conceptiones non possunt esse nisi ubi scientia et inge» nium est) rusticana tractantibus hoc dicet esse conveniens. Convenit ergo » individui gratia; sed nihil individuo convenit, nisi per proprias dignita» tes, puta mercari, militare ac regere. Quare si convenientia respiciunt dignitates, hoc est dignos, et quidam digni, quidam digniores, quidam dignissimi esse possunt, manifestum est quod bona dignis, meliora dignio

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Tali sono le sue espressioni. Pare che Iddio non voglia.

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