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Ciò equivale a dire, che la prima volta che Dante guardò alla terra, il Sole era sul meridiano di Gerusalemme; e che egli, Dante, essendo nel principio del segno dei Gemelli, doveva trovarsi sul meridiauo d'una regione terrestre distante 45° di longitudine da Gerusalemme, ad oriente di questa città.

Poi Dante, essendo nel segno ora detto, si volge necessariamente insieme ad esso intorno alla terra immobile; e perciò si muove, si sposta relativamente alla terra, di quanto si sposta il segno stesso durante il tempo che vi rimane Dante.

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Ora si tratta di determinare il grado, il modo, e il senso in cui avviene questo spostamento. In quanto al senso dello spostamento, non c'è dubbio, lo sappiamo già: lo spostamento deve avvenire lungo il parallelo in cui si trova il principio del segno di Gemini, ossia in senso parallelo all'equatore, nel senso in cui tutti gli astri girano intorno alla terra.

Circa al grado, e al modo come si deve intendere questo spostamento, abbiamo le parole di Dante:

Io vidi mosso me per tutto l'arco

Che fa, dal mezzo al fine, il primo clima.

A mio avviso, l'arco in rapporto al quale si è mosso Dante, è l'arco dell'eclittica, precisamente quel tratto di tale arco che lo distan ziava dal Sole: cioè quel tratto in cui sono compresi il segno del Toro e metà del segno d'Ariete; il qual tratto fa, cioè esercita il suo influsso sulla metà del primo clima piú prossima all'equatore: ossia su tutta la zona terrestre estendentesi dai 12° e 1/2 ai 16° e 1/2 di latitudine boreale (essendo tutto l'intero primo clima compreso fra i 12° e 1/2 e i 20° e 1/2 di latitudine boreale, secondo i geografi antichi).

Che i segni dell'eclittica esercitino il loro influsso sulle parti della terra ad essi direttamente sottoposte, è detto anche dai commentatori; ma essi non hanno capito il rapporto fra l'arco dell'eclittica su cui si trovano questi segni, e il movimento di Dante. Ed ecco perché, in mancanza di meglio, hanno ricorso ad una spiegazione che io direi di disimpegno, affermando che l'arco il quale fa la seconda metà del primo clima e per cui si mosse Dante, è l'arco di parallelo della stessa latitudine del segno di Gemini, estendentesi dal meridiano di Gerusalemme al limite occidentale dell'emisfero terrestre allora cono

sciuto, ossia fino a Gade (oggi Cadice, come intendono essi): cioè per 90° di longitudine terrestre, equivalenti a 6 ore di tempo solari.

Ciò è dipeso anche qui dal non aver essi cercato di rendersi conto del fatto che ha voluto esprimere Dante, confrontando fra loro tutte le sue enunciazioni, prima di voler spiegare le di lui parole non ben chiare; e dal non aver tenuto presente che nei punti dubbii della Divina Commedia si tratta piú volte di giuochi dialettici, non discari al divino Poeta. Invero, dal suesposto nei due versi ultimamente citati, parrebbe a tutta prima che si dovesse intendere che Dante si è mosso lungo l'arco dell'eclittica, il che è assurdo ; ma egli dice che si è mosso per l'arco dell'eclittica: per cui si deve intendere ch'egli si è mosso per un'estensione di longitudine terrestre (misurata sull'equatore) corrispondente alla longitudine di quel tratto dell'eclittica che va dal principio del segno di Gemini alla metà del segno d'Ariete, che è appunto di 45°, come si disse.

Ad illustrazione di ciò, valga la qui unita figura schematica; nella quale EE è la circonferenza equatoriale; E' E' la circonferenza dell'eclittica (il cui piano fa un angolo di 23° 27' col piano dell'equatore) rappresentate queste circonferenze da due linee rette perché vedute in projezione; e Pè il loro punto d'incontro, il punto equinoziale di primavera. Indica Sil Sole, posto naturalmente sull'eclittica, a qualche distanza dal punto P, essendo allora il Sole nei 18° d'Ariete; ed indica g il principio del segno di Gemini, pure sull'eclittica, in cui si trova Dante.

Ciò stabilito, l'arco gS dell'eclittica (comprendente in sé tutto il segno del Toro e metà circa del segno d'Ariete) è tutto l'arco, secondo me, a cui il Poeta si riferisce.

Nella stessa figura la lettera G indica Gerusalemme; la lettera 1, l' Italia; e colla lettera H io indico la regione innominata sulla quale ho detto doveva trovarsi Dante la prima volta che guardò alla terra. Inoltre, la retta GL, normale ad EE, rappresenta il meridiano celeste e terrestre di Gerusalemme (G) su cui è il Sole (S) essendo ivi mezzogiorno la prima volta dell'osservazione di Dante (secondo quanto ho detto precedentemente). La curva HM e la curva IN rappresentano i meridiani che distano, ognuno, 45° di longitudine dal meridiano GL: e posti quindi rispettivamente l'uno per la regione H e per il principio (g) del segno di Gemini, e

l'altro per l'Italia (I). Infine, la retta punteggiata gg' parallela alla linea equatoriale EE, છે il parallelo della stessa latitudine di g; (ed analogamente la retta punteggiata SS', parallela essa pure a EE, rappresenta il parallelo della stessa. latitudine di S).

Descritta cosí la figura, è facile spiegare le particolarità relative allo spostamento di Gemini e di Dante. Volgendosi egli col segno di Gemini, ossia effettuandosi la rotazione dei cieli (secondo la scienza d'allora) accadrà, dopo qualche tempo, che il meridiano celeste HM verrà ad occupare la posizione del meridiano celeste GL, sovrapponendosi al meridiano terrestre indicato colle stesse lettere GL (e il meridiano celeste GL prenderà il posto del meridiano celeste IN); e

45° di longitudine da Gerusalemme, ad oriente di questa, egli viene ora a trovarsi appunto sul meridiano di Gerusalemme, su cui era prima il Sole; e il tempo che ha durato la sua rotazione cogli eterni Gemelli, è stato di 3 ore, cioè da mezzogiorno alle 3 pomeridiane, contate al meridiano ultimamente nominato.

Dal segno di Gemini, per virtú dello sguardo di Beatrice, Dante è divelto, ed impulso nel cielo. velocissimo o Primo mobile, che non è più nel dominio del tempo, essendoché questo cielo « non ha altro dove che la Mente divina »; e in tal modo, il viaggio di Dante nei cieli (misurato dal tempo) termina alla stessa ora in cui termina il viaggio nell' Inferno, e la sua salita all' Empireo avviene essendo egli su Gerusalemme, la città santa,

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quindi il punto g verrà in g', essendo ge g' sul medesimo parallelo (ed il punto S verrà in S'). Perciò il tratto effettivamente percorso da Dante in cielo, durante questa rotazione del firmamento, è il tratto ossia l'arco di parallelo terrestre gg', corrispondente all'arco di parallelo celeste indicato parimenti colle lettere gg'.

Ma l'arco di parallelo gg' ha per limiti estremi i due meridiani HM e GL, egualmente come l'arco g8; perciò, Dante nell'aver percorso il tratto terrestre rappresentato da gg', si è mosso altresì per quanto si estende, in longitudine equa toriale, tutto l'arco terrestre gS corrispondente all'arco celeste dell'eclittica rappresentato pure da g8. - Cosí si spiega e si giustifica l'enunciazione dantesca.

Avvenuto tale movimento, siccome la prima volta che Dante guardò alla terra era distante

d'onde avvenne l'Ascensione di Cristo. - Invece, nell' interpretazione secondo i commentatori, noi abbiamo che il viaggio di Dante, nel tempo, termina su Gade, che oggi gli studi del Revelli avrebbero dimostrato non essere che un

1 Secondo P. Revelli (« L'Italia nella Divina Commedia, Milano 1923, Fratelli Treves Editori, a pag. 36) Dante ripete Orosio.... e pensa sicuramente non Cadice (la città che i Fenici alzarono su un isolotto costiero di fronte alla foce del Guadalquivir alla fine del XII sec. av. Cr.) ma l'imaginaria isola (o le imaginarie isole) Gade: figurata a mezzo dello Stretto nel planisfero d' Orosio (principio del V° sec.) o in carte della fine del dugento, come quella di Hereford quando canta :

sì ch'io vedea di là da Gade il varco folle d'Ulisse

(Par. XXVII, 82-3).

Giornale dantesco, anno XXVII, quad. IV.

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isolotto ipotetico nello stretto di Gibilterra: e compiendosi tale viaggio a un'ora, poco ammissibile, indeterminata fra le 9 e le 11 pomeridiane, riferite al meridiano di Gerusalemme.

Notiamo infine, come s'intenda chiaramente che Dante, al termine del suo viaggio, essendo sul meridiano di Gerusalemme, potesse vedere, lontano da lui, lo stretto di Gibilterra, interposto fra le colonne d' Ercole (« il varco folle d' Ulisse »), e potesse vedere, vicino a lui, (« di qua, presso »>) il lido fenicio («< il lito nel qual si fece Europa dolce carco »): sia per essere queste parti contenute nell'ambito della sua

vista, e sia per essere le stesse ben illuminate dal Sole, situato sull'Italia, che per Dante essa dista 45° di longitudine da Gerusalemme. Per contro, quando Dante fosse stato sul meridiano di Gade, la di lui vista, dal lato orientale, non avrebbe potuto andare oltre l'Italia; perché tutta l'estensione terrestre compresa fra l'Italia e il Gange sarebbe stata totalmente priva dei raggi del Sole situato, in questo caso, 45° ad Ovest di Gade e 90° ad Ovest dell'Italia.

Gennaio 1925.

GIUSEPPE BASSI.

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Ecco due espressioni, sulle quali mi permetto di richiamare l'attenzione de' benevoli lettori ch'ebbero la pazienza di seguirmi nell'altra mia nota pubblicata su questo Giornale (Anno XXV, quad. 4°), circa l' interpretazione del verso Inf., XIX, 111, Fin che virtute al suo marito piacque.

In verità, se i commentatori della Divina Commedia avessero riflettuto che per marito di Roma non s' intendeva già, nel linguaggio di Dante e in quello del Petrarca, e forse neppure nel linguaggio di tutto il medio evo, il pontefice, bensí chi Roma governava politicamente, sarebbero andati, per lo meno, cauti nell'affermare che il Poeta col mostro apolittico da lui ricordato, quello

... che con le sette teste nacque E dalle dieci corna ebbe argomento,

volesse significare la Roma cristiana; e, in particolare, con le sette teste i sette sacramenti, con le dieci corna i dieci comandamenti di Dio. Mentre per lo stesso autore dell'Apocalisse il mostro significa la Roma pagana e, in partico lare, con le sette teste i sette colli, con le dieci corna le persecuzioni contro i cristiani. Le quali persecuzioni, personificate in dieci principi o imperatori (secondo storici posteriori, Nerone, Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino, Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano), cessarono, finalmente, quando i principi o gl' imperatori (mariti di essa Roma) abbracciarono la nuova religione. Dopo avere esaminato l'intero passo:

Di voi, pastor, s'accorse il Vangelista,
Quando colei che siede sopra l'acque
Puttaneggiar co' regi a lui fu vista :
Quella che con le sette teste nacque
E dalle dieci corna ebbe argomento,
Fin che virtute al suo marito piacque,

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intendendo per idolatri non già il popolo di Israele che adorò il vitello d'oro, come vogliono i commentatori che non seppero rendersi conto di quell'uno, ma coloro qui adoraverunt bestiam et imaginem eius ».

Un analogo confronto, ora aggiungo, noi troviamo nell'epistola ai cardinali italiani, tra lo stato di Gerusalemme dopo la rovina del regno di Giuda, secondo le parole di Geremia, e quello di Roma, nuova Gerusalemme, destituita del suo doppio lume, l'imperatore e il papa. Le parole di Geremia ispirate da Dio: « Quomodo sola sedet civitas plena populo facta est quasi vidua domina gentium!», con quelle che seguono, potevano adattarsi al nuovo caso. << Nos quoque (esclama l'Alighieri).... Romam..., cum Jeremia, non lugendo post venientes, sed post ipsum dolentes, viduam et desertam lugere compellimur.... Romam urbem (dice ai cardinali) nunc utroque lumine destitutam, nunc Hannibali nedum alii miserandam, solam sedentem et viduam.... ante mentales oculos af figatis oportet ».

Ma mi basti per il confronto; l'allusione, invece, ad Annibale mi riporta alla canzone Spirto gentil del Petrarca; la quale, veramente, ha tanti punti di contatto con l'epistola dantesca, che potrebbe dirsene una derivazione. Il Petrarca chiama il suo « Spirto gentil » marito e padre, riferendosi chiaramente col solo attributo di padre al pontefice:

Tu marito, tu padre:

Ogni soccorso di tua man s'attende,

Ché' maggior padre ad altr'opera intende ;

e limitandosi indubitabilmente al principe terreno con l'attributo di marito. Tale è anche il concetto che manifesta lo stesso Alighieri in Paradiso (XXXII, 124-125), là dove S. Pietro è detto padre vetusto di Santa Chiesa, e in Inferno (XXVII, 108), dove fa che Guido da Montefeltro chiami padre Bonifacio VIII; mentre nell' invettiva Ahi, serva Italia il Poeta esclama, rivolto all' imperatore :

Vieni a veder la tua Roma che piagne,
Vedova e sola, e dí e notte chiama :

<< Cesare mio, perché non m'accompagne? »

Vedova e sola! proprio, come nell'epistola, viduam et desertam; solam sedentem et viduam.

Se non che i commentatori della Divina Commedia, dopo aver dato al mostro apocalit tico il significato di Roma cristiana, perché nel marito di «< colei che siede sopra l'acque » vollero ravvisare il pontefice, pare abbian creduto che quel marito non poteva essere che il papa, trattandosi in questo luogo della Roma cristiana. Ora lasciando da parte la petizione di principio, che deriverebbe da un tale ragionamento, è bene si richiamino alla memoria le espressioni con le quali, invece, nelle sue opere Dante chiama sempre il pontefice: Summus pontifex, Pontifex romanus, Domini nostri Jesu Christi vicarius, Petri successor, Pastor, Antistes, Ecclesiae universalis antistes, Summus antistes, Culmen apostolicum, Padre, Padre di santa Chiesa, Vicario di Cristo, Vicario di Pietro, Successor del maggior Piero, il Pastor della Chiesa, Servo dei servi, Gran prete, Prefetto nel foro divino. Né è fuor di luogo ricordare che il trattato

1 St. V, vv. 7-9:

<< E la povera gente sbigottita Ti scopre le sue piaghe a mille a mille, Che Annibale, non che altri, farian pio ».

di Monarchia finisce cosí: « Illa igitur reverentia Caesar utatur ad Petrum, qua primogenitus filius debet uti ad patrem; ut, luce paternae gratiae illustratus, virtuosius orbem terrae irradiet, cui ab illo solo praefectus est qui est omnium spiritualium et temporalium gubernator ». Parole che danno spiegazione del vero valore di padre detto del pontefice.

Mai dunque usa Dante per il papa l'espressione di marito di Roma. E poiché nel canto XIX dell'Inferno quella Roma di cui il papa, secondo i commentatori, sarebbe il marito, non potrebbe essere che la Roma cristiana, cioè la Chiesa, il Poeta avrebbe usato per il papa quell'attributo che anche secondo lui, come secondo S. Giovanni, 1 non spetta che a Cristo. Nel canto X del Paradiso (vv. 140-141) egli scrive:

Nell'ora che la sposa di Dio surge
A mattinar lo sposo, perché l'ami;

e il concetto è ripetuto, come si sa, ne' canti XI
(vv. 28-33), XII (vv. 37-45), XXVII, 40 e
XXXI, 3. Nell'epistola ai Cardinali, sopra ri-
chiamata, la Chiesa è detta Crucifixi sponsa,
Mater piissima sponsa Christi: e, in parole
d'esortazione, messa in relazione con Roma,
l'autore continua a scrivere: «pro sponsa Christi,
pro sede sponsae, quae Roma est »....
Il verso

2

Fin che virtute al suo marito piacque, per l'allusione alla Visione di S. Giovanni, da cui è ispirato, si riferisce, come io volli dimostrare, alle nozze dell'Agnello con Roma, cioè alla conversione di Roma da pagana in cristiana; sicché il passo del quale fa parte (Quella che ecc.), come anche volli dimostrare, significa: « Quella

1 Evangelo III, 29; Apocalisse XXI, 2, 9; XXII, 17. 2 Non esatto il Casini, seguito da altri, nel commentare il passo relativo a Bonifacio VIII (Inf. XIX, 56-57):

con

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non temesti tôrre a inganno
La bella donna e poi di farne strazio

le parole: << sposare per via d'inganni la chiesa» ecc. Cfr. invece Epistola agli Efesei V, 23 e segg. « Il marito è capo della donna, siccome Cristo è capo della Chiesa », « Come la Chiesa è soggetta a Cristo, così le mogli debbono esser soggette ai lor mariti in ogni cosa », « Mariti amate le vostre mogli, siccome ancora Cristo à amata la Chiesa », « Chi ama sua moglie ama se stesso, siccome ancora il Signore la Chiesa ».

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