sillanime, secondo la morale. Anche gli altri poi, se non han fatto grandi rifiuti, avranno rifiutato di esser fedeli a Dio. Or qual cosa vieta di vedere tra costoro gli accidiosi nel primo stadio, dirò cosí del loro peccato, quelli cioè a cui rincrebbero certe opere buone, e che però le trascurarono? Forse in molti di costoro non mancarono azioni civilmente buone; ma religiosamente furono infingardi. Sorvoliamo il limbo. Scendendo nel vero inferno ci incontriamo nei lussuriosi, nei golosi, negli avari uniti a' prodighi. Qui è da dirsi che il vizio predominante o massimo di costoro sia stato o la lussuria o la gola o l'avarizia o la prodigalità. Non mancarono forse di altre pecche, ma il sopravvento lo ebbero questi vizi. Dopo costoro vengono varie classi di rei, che possono essere stati determinati ai loro delitti da varie cause. In fatti nello Stige troviamo certamente gl'iracondi. Ma l'ira, come può derivare dall' indole focosa, cosí facilmente può derivare dalla superbia o da altra passione, non esclusa certo l'invidia ed anche l'accidia, come già ho mostrato. Che se l'indole, la superbia, l'invidia, l'accidia o altra passione fanno che l'uomo si lasci dominare specialmente dall'ira, egli sarà punito nello Stige: se passa ad atti piú maliziosi, sarà punito più in basso. Siccome dunque gl'iracondi sono tali per diverse cause, cosí si potrà dire che le persone immerse nello Stige sono iraconde e insieme superbe, invidiose, accidiose, ecc.; o, se anche si vuole, si potrà dire che lí vi sono degli iracondi, dei superbi, degli invidiosi, degli accidiosi. Quel che si dice del bizzarro Filippo Argenti conferma abbastanza quanto sono venuto dicendo. Egli non fu solo un cane rabbioso, ma fu anche persona orgogliosa, non fregiata di alcuna bontà. Perciò, a dir poco, fu iracondo, superbo ed invidioso. Poste queste cose, Pietro di Dante ha ragione di dire quello che dice. Dopo il peccato dell'ira non si fa più cenno di peccati capitali. Ma se tutte le colpe si possono ridurre a sette capi, è anche facile mostrare che tutte quelle, di cui si parla in seguito, sono gli stessi peccati capitali rivestiti di malizia speciale, o colpe da questi derivanti, come i figli dai genitori. Continuiamo ad esaminare i peccatori nell'ordine, in che li pone Dante. Dopo gl' iracondi vengono gli epicurei e gli eresiarchi. Nei primi trovi facilmente la lussuria, la gola, l'avarizia o piuttosto la prodigalità. I secondi non saranno certo diventati tali per indole, ma per superbia e per iscostumatezza. La storia lo mostra troppo bene. Seguono i violenti contro il prossimo. Se sono tiranni od omicidi, furono certamente o iracondi o invidiosi o avari, o tutto insieme, anche coll'aggiunta di altri vizi. Se poi furono predoni o assassini di strada, potremo ravvisare in loro una classe bestiale di avari e d'iracondi. Siccome i suicidi possono divenir tali per diversi motivi; cosí, trovati questi, si saprà da qual vizio capitale proviene il loro delitto. Dante accenna a due cause, all'ira e alla prodigalità. Negli scialacquatori dei proprî beni ravvisi una classe esagerata di prodighi, seguaci, fors' anco, della superbia, della lussuria e della gola. Giornale dantesco 24 Nei violenti contro Dio, ossia ne' bestemmiatori, converrà pure cercar la causa che li spinse a tanto eccesso, la quale potrebb'essere la superbia, l'ira, la lussuria, l'accidia.... I violenti contro natura formano una nuova classe, ma assai degradata, di lussuriosi. I violenti contro l'arte, cioè gli usurai, costituiscono una genia spietata di avari. Chi seduce femmine per conto altrui, lo fa, generalmente, per interesse; chi seduce per suo conto, mostra facilmente che cosa egli sia. Lo stesso dicasi delle femmine lusinghiere. L'adulatore è guidato dalla superbia, dall'avarizia.... I simoniaci che comprano le cose sante, sono sacrilegamente superbi, come sono sacrilegamente avari quelli che le vendono. Gl'indovini sono superbi ed avari; avari i barattieri; superbi e invidiosi gl'ipocriti; i ladri di cose sacre sono avari sacrileghi. Nei consiglieri frodolenti domina or la superbia, or l'avarizia, or l'invidia. Nei seminatori di discordie la superbia, l'ira, l'invidia e spesso l'avarizia. Nei falsatori l'avarizia; nei traditori la superbia, l'invidia, l'ira, l'avarizia. Ecco dunque come Dante ha potuto, senza assegnare un luogo particolare alla superbia e all'invidia, punire nel suo Inferno i superbi e gl'invidiosi, considerando quei peccati non in sé stessi, ma nelle loro manifestazioni. Qui ommetto di parlare degli accidiosi, perché, se altri non mi illuminerà, io continuerò a crederli nell' antinferno. Questi superbi ed invidiosi io comincio a vederli nello Stige, e poi giú giú fino a Lucifero, prototipo di ogni superbo e di ogni invidioso. Dunque dentro la città di Dite si trovano di nuovo dei lussuriosi, dei golosi, degli avari, degli iracondi, ma piú rei di quelli che ne sono fuori; ed insieme con questi si trovano i superbi e gl'invidiosi, che fuori di essa appena si possono trovare, se si escludono gl'iracondi; non portando di necessità la lussuria, la gola e l'avarizia che sieno accompagnate dalla superbia o dall'invidia intese nel loro senso ovvio. Il che non si può dire degli eresiarchi, dei tiranni, dei violenti contro Dio, degl'indovini, degl'ipocriti, dei consiglieri frodolenti, dei seminatori di scandali e di scismi, dei traditori, i quali di necessità sono o superbi o invidiosi, o hanno ambedue questi vizi. Mi si potrebbe muovere la seguente difficoltà: Se Dante nel Purgatorio colloca in luogo distinto i superbi e gl'invidiosi, perché non darà loro un posto anche nell' Inferno? Rispondo che il sistema distributivo della prima cantica è affatto diverso da quello della seconda. E in ciò il poeta potrebbe avere avuto questa ragione. Il purgatorio appartiene al corpo mistico di Cristo, formando esso la Chiesa purgante, come i fedeli in terra formano la Chiesa militante, e i beati la trionfante. E però le anime del purgatorio sono distribuite secondo la dottrina della Chiesa, che riconosce sette vizi capita li; mentre l'inferno nulla ha che fare con essa. In secondo luogo, i superbi e gl'invidiosi si trovano veramente nell'Inferno dantesco, come ho giá mostrato, con questa differenza però, che, mentre costoro seguirono smoderatamente queste passioni, quelli del Purgatorio pare mettessero a quelle un limite. In fatti quivi, piuttosto che veri superbi, troviamo degli arroganti, dei vanagloriosi, dei presuntuosi; e gl'invidiosi si limitarono a pravi sentimenti del cuore, ma non li tradussero in atto. Ciò si deduce dalle anime che si trovano ivi punite. Dal che sembra che si possa inferire, secondo il pensiero di Dante, che quando uno pecca, dentro certi confini, trova poi facilmente perdono da Dio quanto al reato di colpa, restandogli, tutt'al piú, da scontare in purgatorio il reato di pena. Ma quando l'uomo si abbandona perdutamente in braccio alle passioni, allora è quasi impossibile che più ritorni indietro. Ed in vero nel Purgatorio, fatta eccezione di Manfredi e forse di molti suoi compagni, i quali perciò sono tanto remoti dal luogo di vera purgazione; non trovi anime ingolfatesi in molti vizi; mentre nell'Inferno trovi peccatori, i piú dei quali si diedero a mille eccessi. Prendano un poco ad esame i dantisti questa mia idea, per vedere se io m'inganno. lo - - Si replicherà: Se la superbia e l'invidia non sono sempre peccati mortali, possono però essere. Uno dunque che muoia macchiato mortalmente o di sola superbia o di sola invidia, in qual luogo dell' Inferno dantesco dovrà mettersi? Rispondo: La superbia perfetta, per la quale è tolta al cuor dell'uomo ogni soggezione a Dio e alla sua legge, costituisce un peccato di violenza contro Dio, perché lo si disconosce come autore e datore di ogni bene. Il superbo, in questo caso, è uno di coloro che, in senso ben poco diverso, ripete coll'empio demente di cui parla Davide: Non est Deus; e si dovrà condannare tra coloro che in lor cuore negano Dio. Passiamo all'invidioso. Egli vorrebbe che il prossimo fosse privato di un bene, in quanto questo vien considerato da lui come un male proprio, perché scema la propria grandezza. Questi beni si possono ridurre a tre specie: beni materiali (esistenza, sanità, sostanze) beni dell'onore (stima, fama), beni dell'anima (virtú, santità). Se l'invidioso desidera che il prossimo venga spogliato di beni materiali è, nell'intenzione, quasi un ladro od un omicida; se desidera che perda i beni dell'onore è peggiore di un ladro, per quello che ne dice la Scrittura, che è meglio il buon nome che le molte ricchezze; se desidera che perda i beni dell' anima è un vero demonio, che ben potrà essere gittato nella bolgia dei serpenti. Conchiudo. Nello Stige io non vedo che iracondi, distinti però in due classi. Gli uni secondarono l'ira con impeto scattando ad ogni contrarietà in atti di furore; gli altri covarono l'odio nel loro cuore, e fecero le loro vendette con calcolo e con freddezza. Ecco il fummo accidioso, cioè lento e chiuso nell'animo oppure l'ira cupa'. E fumo e ira hanno fra loro stretta relazione nel concetto di Dante, mentre egli castiga gl'iracondi del Purgatorio in mezzo a denso fumo. Che se mettiamo i superbi e gl'invidiosi tuffati nello Stige, faccio osser 'Cfr. Giorn, dantesco, Anno II, quaderno V, pag. 205-206. vare che non vi è ragione sufficiente perché Filippo Argenti il quale, come si sa, era iracondo e superbo, e però certamente anche invidioso, debba emergere dall'acqua; mentre chi avesse avuto solo la superbia o solo la invidia, starebbe immerso affatto; quasi fosse più colpevole chi ebbe colpe di una sola sorta, di chi ne ebbe di molte fatta. Io non pretendo di avere risolta la questione; anzi ho sí poca fiducia in me, che ben mi terrei pago, se, porgendo ad altri, con questo scritto, l'occasione di studiarla piú a fondo, qualcuno ne desse la soluzione anche a patto di sentirmi dire che io mi sono ingannato d'assai. Ravenna, novembre 1893. FERDINANDO SAVINI. CHIOSE DANTESCHE IL CORTO ANDARE DEL BEL MONTE. Che la via non vera, per la quale Dante volse i suoi passi dopo la morte di Beatrice, imagini di ben seguendo false, fosse quella della selva, tutti convengono; ma che fosse anche tale il corto andare del bel monte, perché figurante tutto quel tempo, in cui egli credette di arrivare alla felicità e trovare la pace, dandosi allo studio di una scienza affatto mondana, è opinione dello Scartazzini (DANTOL., pag. 275 e 371), alla quale non mi pare di poter consentire. E ne dirò brevemente le ragioni; spiegando, sí, Dante con Dante, ma preferibilmente la Commedia colla Commedia; ogn'opera d'arte stante da sé dovendo contenere in sé tutti gli elementi, che sono necessarii alla sua intelligenza. Certo Virgilio, per camparlo da quel luogo selvaggio, consigliò lo smarrito ed ora ritrovato, cioè ravveduto, poeta a tenere altro viaggio; ma col solo intento di levarlo dinanzi alla lupa, che lo respingeva là dove il sol (la verità) tace; non perché la via presa fosse di per sé erronea (Inf., I, 91–96). Infatti, se la selva, e la valle che la comprendeva, era di già terminata, doveva, per la necessaria rispondenza de' simboli, esser terminato altresí lo smarrimento, insieme colla notte intellettuale e morale, che n'era stata per dieci anni cagione; senza di che il ravvedimento supposto non si poteva considerare come avvenuto. Se salire il dilettoso monte sarebbe stato per lui principio e cagione di tutta gioja, illuminato com'era da' raggi del sole della verità cristiana, che mena dritto altrui per ogni calle, la via presavi non po teva non esser vera, repugnando che l'errore possa esser mai principio di felicità. E se il corto andare del bel monte gli era stato tolto dalla lupa, che nessuno dirà rappresentasse una virtú, anzi che uno de' sette vizii capitali; gli è forza convenire che qualcosa di buono e di vero si simboleggiasse invece con esso; dappoiché a un indirizzo morale e intellettuale tuttavia sbagliato, la simbolica lupa non si sarebbe opposta di certo. E si badi inoltre. Corto è l'andare del bel monte, alla cui altezza Dante, per il contrasto della lupa, perdé la speranza di pervenire; e lunga invece è la via, per la quale, a sua salvezza, fu messo poi da Virgilio (Inf., IV, 22. Purg. V, 131). Ora, essendo questi due attributi correlativi tra loro, ne viene di logica conseguenza che tra le due vie, che ne sono qualificate, non ci fosse sostanzialmente altra differenza che la indicata da loro, e dovessero anzi riuscire ambedue, almeno simbolicamente, a un termine medesimo. E, per verità, come il dilettoso monte sarebbe stato all'uomo che lo salisse principio e cagione di tutta gioja, cioè di felicità; cosí l'accedere al monte del purgatorio rende l'uomo felice, ma della beatitudine di questa vita, ehe consiste nelle operazioni della propria virtú, e pel terrestre paradiso si figura (Purg., XXX, 75. MoN., III, 15). Vi si rappresentano insomma due metodi diversi per conseguire uno scopo ad essi comune. Né la cagione della loro accidentale diversità è da riporla forse in altro che in questo. Dante in due opere si propose di propugnare il riordinamento sociale e politico del mondo, secondo i principii cristiani: teoricamente nel De Monarchia, e praticamente nella Commedia, intesa, com'egli ebbe a dichiarare nella lettera a Can Grande della Scala (§ XVI), non alla speculazione ma all' opera. Io credo quindi che nel proemio al suo poema, po. nendo il simbolo del bel monte e delle tre fiere, anziché alla sua personale trilogia, cioè alle variazioni della sua vita intellettuale e morale (supposto dello Scartazzini), e' volesse alludere invece al convincimento oramai acquisito che, a domare la violenza delle passioni umane e combattere efficacemente l'interessata opposizione de' potenti (impedimenti veri l'una e l'altra alla vagheggiata attuazione del suo ideale), piú che la via breve dell'astratta dottrina, riserbata a pochissimi, dovesse valere la lunga dell'esperienza, facile a trovare assenso ne' popoli, tanto più se presentata poeticamente, come fece nella Commedia; solo dalla quale perciò sperava di ottenere il trionfo delle sue teorie e, conseguentemente, il suo rimpatrio (Inf., XXVIII, 47-49. Purg., XXVI, 73-75. Par., XVIII. 124-142; XXV, 1-9). E questa a me pare supposizione più probabile che quella dello Scartazzini non sia; ma se io colga nel vero, o m'inganni, gli attenti e spregiudicati lettori, se m'è dato d'averne, lo giudichino. Trapani, ottobre 1894. A. BUSCAINO-CAMPO. |