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A dir il vero, questo accade un poco anche fra i critici moderni, come abbiam visto nei recensori del Novati, e in lui stesso. Infatti, dopo aver spiegato come la Bucolica di Virgilio fosse cara a Dante, e come possa dirsi non usa ad alcun gregge e copiosa di latte, egli aggiunge, traducendo anche la chiosa dell'Anonimo: accorre spontanea a farsi mungere, perché il canto bucolico (l'ovis dunque) non costa fatica di sorta al poeta, (p. 55). Piú addietro, parlando della bucula di Giovanni, che non si negherà sia antitetica all'ovis dantesca, e debba per ciò aver lo stesso valore simbolico, aveva detto delle qualità, che Giovanni attribuisce alla propria Musa, chiamandola bucula, (p. 51). Occorrerebbe spiegare il perché di questa equazione, e come possa coesistere con l'altra ovis Bucolica di Virgilio.

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Non vogliamo con questo affermare che nell'uso dei simboli bucolici sia da cercarsi la coerenza che deve essere nelle espressioni matematiche, ché anzi le incongruenze son numerose: le caprette di Melibeo sono scolari; li juvenci di Mopso, che son bestie piú grosse, studenti universitarî: invece nell'ecloga al Mussato, una ovis che ha candido il capo e scura la coda, è senza dubbio l'ecloga stessa, cominciata giocondamente e terminata nella disgrazia. Ancóra in quest'ultima, Mopso accenna a due giovenche (v. 107 e 150), di cui il Postillatore non seppe dirci nulla, e il cui simbolo è oscuro anche al N., 3 benché possa dirsi, senza téma d'errore, che la poesia bucolica là non debba entrarci per nulla. Invece questo volemmo fermare, che il Postillatore non disse tutto quello che al N. pare di leggere; e che anch'esso benché degno d'ogni ossequio! può sbagliare, e qualche volta sbaglia: e ciò per un testimonio che deve porre in fuga ogni altra opinione, è grave.

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1 Cf. p. 67, n. 57 ove ei rettifica, benché dubbia mente, l'espressione dell'Anonimo.

2 Carme VI, v. 275.

3 Quel ch'egli dice dell'una (p. 66, n. 49) può ripetersi dell'altra.

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Nel Carme X (ed. cit., p. 200) una bucola » rappresenta il nome di Guido Vacchetta, che gli aveva scritto. 5 È noto essere opinione di molti che l'Anonimo copra il glorioso nome del Boccaccio: certo che dal MACRI-LEONE (La Bucolica latina.... nel sec. XIV, Torino, 1889) ad oggi, tolti molti falsi giudizî, molte asserzioni del vecchio commentatore furono confermate. Ma da questo al rinunciare per una sua dubbia parola a discutere, troppo ci corre!

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Vedemmo già l'incertezza della sua ermeneutica; notammo certi silenzî, che non si possono attribuire a disdegni, come per i decem vascula di Dante, e la bucula di Giovanni. Altri errori non è difficile additare: oltre la chiosa inesatta al phrygio Musone (Carme III, v. 88), già dimostrata dal Belloni,' ce n'è un'altra evidentemente errata in Velleribus colchis (IV, v. 85), in cui spiega Naias. i. civitas bononiae; laddove la Najade posta accanto al Reno, non può essere che la Savena, la Nimpha procax dei carmi III, 3 e VI, 1062; e, come dimostrò l'Albini, erronea è pure la chiosa al v. 24 del Carme I, sorti communis utrique. Ancóra: ai versi 50-53 del Carme IV:

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Tibia non scntis quod sit virtute canora numinis? ct similis natis de murmure cannis, (murmure pandenti turpissima tempora regis qui jussu Bromii Pactolida tinxit arenam). spiega: Ostendit Mopsum non habere laborem in carminibus bucolicis condendis, (nota il plurale) nisi sicut fistulac pastorum cum pulsabantur dicebant rex mida habet aures asini. Ma qui non c'entra la facilità del verseggiare; giacché mi sembra che Dante accenni solo al maraviglioso fatto, per cui la fistola, al soffio dell'ansante Melibeo, avea dato parole, anziché un sibilus simplex (v. 38).

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A che si riduce dunque una delle prove del Novati; la chiosa rivelatrice dell'Anonimo?

Alla parola d'un annotatore, a cui dobbiam dar ragione quando le sue asserzioni non sono per noi altrimenti verificabili, come accade per le notizie storiche; ma al quale possiamo e dobbiamo qualche volta dar torto, quando si tratta di concetti e di opinioni. E questa parola poi, non accenna alla Bucolica di Virgilio, se non perché essa poteva identificarsi colla poesia pastorale stessa: ma ciò era tanto poco nell'intenzione del Postillatore, ch'egli usa la stessa espressione a indicar i componimenti bucolici di Dante e di Giovanni. Sicché credo che l'opinione dell'Anonimo fosse questa: che Dante, dicendo di mungere l'ovis, volesse significare che assumeva intonazione pastorale nel suo Canto. Il latte munto veniva a

1 In Giorn, storico della Lett. ital., XXII, 366; ed ora in Frammenti di critica letteraria (Milano, 1903) p. 34. 2 In Atene e Roma, IV, 34, col. 340.

3 Cosi anche il BELLONI, op. cit., p. 54, n. 2, ove, anzi che il Bonaventura, doveva confutare l'Anonimo.

4 Seguo la bella interpretazione dell'ALBINI in Atene e Roma, art. cit., col. 342 e seg. Per altre erronee interpretazioni cfr. PASCOLI, (p. 296, n. 4 e passim).

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1 In Cultura, XX, 329. A Teocrito si richiama anche il N. (p. 67 n. 58) per altro fine.

2 "Saranno stati, sí, ingenui tutti quei dantisti che non si resero conto della difficoltà d'una laurea poetica, che allora si volesse per la semplice poesia volgare; ma bisogna pur convenire che il grande ingenuo fu Dante stesso e cita l'esordio del Paradiso del Canto XXV, che trae a questo senso. Studi cit., p. 440. E cosí a p. 441 : "E appunto poi perché la cosa [la laureazione] era eslege, il maraviglioso dilettante poté, con ingenuità non goffa, lusingarsi d'ottenere la laurea per la poesia volgare " Benché poi creda che D. si acconciasse a fare le ecloghe latine. Il PASCOLI crede non si tratti della laurea, né qui né ai noti passi del Paradiso; bensí dell'onor della poes'a (p. 298; 308 e passim). È molto ben detto, e in parte probabile: ma per ora non l'accetto, per non porre la confutazione in un altro campo.

3 ZINGARELLI, Dante. Milano, Vallardi, p. 334.

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4 CARDUCCI, Opere, VIII, p. 148; cfr. le belle pagine del PASCOLI (op. cit., p. 306) sopra il "peana, che Titiro s'impromette di cantare.

5 Benché il "cappello, sia pel N. altra cosa che la laurea, il concetto fondamentale resta sempre il medesimo. D'OVIDIO, op. cit., p. 438 e seg.

6 Straordinario, lo riconosciamo, sarebbe stato il caso; ma non meno di questo anche l'altro che Firenze, ove uno Studio non era ancóra, potesse legittimamente conventarlo. Il NoVATI (p. 100) previde la difficoltà, e suppose che Dante sapesse di pratiche che Firenze avea dovuto far innanzi al maggio 1321, se in questo mese poteva deliberare ne' suoi Consigli di istituire uno Studio. È una vaga ipotesi, che potrebbe spiegare un chiaro accenno a tale Studio in quest'ecloga, che è del 20 ineunte : ma pare troppo debole per far da sostegno a un'altra ipotesi, mal ferma anch'essa. Ne concludo che (come spesso accade ai Grandi) Dante non era conscio delle difficoltà pratiche che le leggi, fatte per i mediocri, oppongono ai disegni del Sommi.

resta arbitraria, se non se ne trova altro accenno nell'ecloga stessa.

Ed eccoci giunti al punto, dal quale forse si doveva incominciare: cioè dall'indagare il senso generale della corrispondenza poetica dei due novelli Arcadi.

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Quando Titiro si induce a spiegare all'umile Melibeo, quel che era scritto nel foglio segnato a negre lettere da Mopso, esce a dire che questi lo invitava "ad frondes versa Penejde cretas,; al che Melibeo, tra l'ingenuo e l'affettuoso esclama: "Ma certo: dovrai tu andar sempre con le tempia prive dell'onor del lauro?, Titiro risponde, come poteva rispondere il poeta dell'esordio del Paradiso: Sí rare volte avvien che se ne coglie... Ma tosto, con quell'impetuoso e sdegnoso piglio dantesco, come disse il Carducci, che è cosí frequente nelle calunniate ecloghe, esclama: Quanti applausi sonerebbero (sonabunt) per prati e colli, se io cantassi (cicbo) il peana, cinto di verde la chioma. Ma temo i luoghi avversi a' miei dei,; e vagheggia ancor una volta di coprir gli incanutiti capelli colla gloriosa fronda peneja, se mai continga ch'egli ritorni sull'Arno. Ma il tempo passa veloce, dice Melibeo. Ed egli: "Quando saranno conosciuti nel mio Canto i regni celesti, come ora i più bassi, allora juvabit cingere d'edera il capo. Conceda questo Mopso Qui tolgo l'arbitrario punto interrogativo, posto dal Dionisi, ma rifiutato dai moderni editori stranieri: e seguo l'interpunzione additata dall'Albini. ' Che Mopso lo possa concedere, che si dia pace se Dante vuol attendere la fine della Commedia, è dubbio assai a Melibeo: e qui occorre aguzzar ben gli occhi al vero, perché il velo è sottile.

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È evidente, che l'attesa desiderata da Titiro, non sia quale possa chiedere un che abbia molto lavoro tra le mani, e dica, a chi ne lo richiede d'altra cosa: "Aspetta che abbia finito quel che ho tra via,. Perché, senza dir della insulsaggine di tale discorso, mi pare

1 ALBINI, Per i carmi latini, ecc. in Atene e Roma, IV, 34, col. 339: "Dante vinto da quell'affetto e da quell'ammirazione sincera, condonando i giudizî indiscreti a quella rimessa discrezione che è veramente nel resto del carme, risponde benevolo e si porge compiacentemente. Ma su alcuni punti non esita e non patteggia: l'alloro ei lo vuole a Firenze, e lo vuole a poema finito, e per virtú di esso poema. Concedat Mopsus.... Mopso si dia pace „. Ora cfr. dello stesso la traduzione, ibidem, VI, col. 76. E il PASCOLI (op. cit., p. 304): " approverà; sarà contento,

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che la parola di Titiro avrebbe dovuto essere: "Quando avrò finito il Paradiso, allora scriverò anche per i chierici,. Invece, ponendo come successiva alla terminata Commedia la gioia della laureazione, mi sembra limpido che il Poeta consideri questa appunto come conseguenza, come effetto di quella: è proprio il caso di dire: "Post hoc, ergo propter hoc,.

E allora qual può essere il dubbio espresso da quel "Quid?, di Melibeo? Di solito si traduce: "Mopso.... e che?,' quasi a dire: "Che c'entra? che potrà dire?, Ma mi pare che c'entrasse moltissimo, e che avrebbe avuto moltissimo da rispondere: per esempio, come doveva rispondere, tanti secoli dopo, il Novati: che egli aveva scritto appunto perché non s'accontentava della Commedia!

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[Titiro] [Melibeo]

[Titiro]

"Concedat Mopsus „•

"Mopsus, tune ille quid?" inquit "Comica nonne vides ipsum reprehendere verba, tum quia femineo resonant ut trita labello, tum quia Castalias pudet acceptare sorores?....... Ipse nego respondi. Versus iterumque relegi, Mopse, tuos.

A Titiro, che spera di persuader Mopso che giova attendere a incoronarsi la fine del Paradiso, Melibeo risponde un incredulo "quid,? e della sua incredulità dà tosto la ragione: "Come speri che lo concedat Mopso, che ti rimprovera quella favella che va per le bocche delle donnette e che ripugna alle sorelle Castalie?, Ma Titiro pur fermo: "sí, proprio Mopso,. E rilegge la lettera. Perché?

Mah! probabilmente per darne appoggio alla sua opinione. E avrà letto che un dotto Professore del dotto Studio bolognese, sapeva pur apprezzare il poema suo: che anzi aveva

1 Cosí il NOVATI, ma oscuramente: e il MACRÌ-Leone, op. cit., p. 78: "E che mi avrà Mopso a rispondere? „

2 Debbo l'idea a E. G. PARODI, nella recensione ch'egli fece in questo Giornale (X, 4-5) alla recente edizione curata da Wicksteed e Gardner, delle Ecloghe. Dalle sue velate parole, mi sembra che anch'esso non convenga nell'opinione del Novati.

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prevenuta una natural risposta di Dante: "Canto in lingua profana, ma la dottrina è degna dei chierici,;" e che le sue eran gemme, benchè le gettasse ai porci. V'era dunque, o s'ingannava Dante? da illudersi. Melibeo si stringe nelle spalle, punto persuaso: perché? perché, secondo lui, Titiro seguiva una via incerta: se avesse veduto che l'amico si disponeva a seguire il consiglio di Mopso, perché doveva far quel gesto che vuol dire : Bene, bene! fa un po' tu.... Ma io ci credo poco,? Se la risposta "Comica nonne vides, fosse stata di Titiro, se il Poeta avesse voluto preparar il lettore alla determinazione di scrivere carmine clarisono, come gli suggeriva Mopso, è chiaro che Melibeo sarebbe stato felice, non si sarebbe stretto nelle spalle, e non avrebbe detto quel verso, cosí discusso (e che cosa non è discussa in queste ecloghe?)

Quid faciemus.... Mopsum revocare volentes? „

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perché la nota del Postillatore è al solito molto frigida si nicil respondemus, nicil amplius injiciet nobis,.

Ma chi parlava di non riscrivere? al più si trattava di rispondere: "Attendi che finisca la Commedia,. E perché poi doveva premere tanto a Melibeo, che in fondo è Dante, che gli scrivesse ancora il giovane poeta? ma non era stato egli il primo a scrivere, supplicando una risposta, se pur n'era degno, egli vil papero dinanzi al canoro cigno, come virgilianamente si esprime (Carme I, v. 50)? Dai giovani, desiderosi di gloria, è assai più difficile ottener che vi lascino in pace (" e ciò sa il mio Dottore,) che non dieci, venti lettere!

A me sembra dunque che Melibeo, incerto della acquiescenza di Mopso (Quid? nonne vides....), poco fiducioso nelle speranze di Titiro (humeros contraxit), non veda modo di superare la difficoltà, cioè il disprezzo di Mopso per il volgare: come fare a cambiargli opinione (revocare)??

E Titiro dà mano alla sua pecorella.

1 ALBINI, in Atene e Roma, art. cit., col. 333. 2 È questa l'interpretazione del PONTA, confutata dal NOVATI a p. 62, n. 19. La tradizione filologica, se non conferma questa accezione del verbo revocare, né pure la smentisce e a me par l'unica soddisfacente. Cosí intende pure il PASCOLI (p. 300, n. 1), che giustamente lo pone in relazione al "concedat, del v. 51. L'opinione d'un tanto latinista è pur di grande importanza.

III.

Quando il Pasqualigo vedeva in Titiro e in Melibeo un Dante intellettivo e un Dante sensitivo, andava un poco tra le nuvole: ma d'altra parte, il vederci solo un Dante (e non sarebbe poco, invero!) e un Dino Perini, non è tutto.

Già nell'ecloga I di Virgilio, secondo le interpretazioni medievali, Titiro e Melibeo, oltre il senso letterale e l'allegorico, ne hanno uno morale; cosí in questa, che dalla prima ecloga non pure i nomi deriva, Melibeo non è soltanto l'oscuro fiorentino, ma quasi il simbolo della buona gente, semplice e volgare, della quale si esprime l'opinione in contrasto con quella del Poeta, uomo esperto e superiore. Se Dante una volta s'era lasciato cogliere a doversi sentir dire "Che ti fa quel che quivi si pispiglia?, aveva imparato presto a star come torre fermo. Quest'altro no: è un di quelli che pispigliano, quando vedon gli altri operare, e in cui pensier rampolla sopra pensiero, quando debbono operar essi. Pieno d'affetto e di ammirazione per Titiro, egli è troppo giovane, troppo da poco, per poter percorrere la lunga via che teneva la mente di Dante. Questo modo d'intendere la figura di Melibeo, mi spiega anche la rappresentazione iniziale, quando Titiro accoglie con risa la domanda di lui, che vuol sapere quel che scriva Mopso. Qui non si tratta di ignoranza, ché un notaio, il quale per giunta insegnava rosa, rosae, il latino del carme di Giovanni dovea pur, tanto o quanto, riuscir a capirlo.'

Quel che non poteva intendere quel modesto maestrucolo, nimium juvenis (IV, v. 34), che non avea drizzato per tempo il collo al pane dei dotti, si era l'alta speranza del Poeta, l'importanza del consiglio di Giovanni Del Virgilio, i pericoli dell'affascinante proferta. Stesse contento agli aridi ammaestramenti grammaticali, e in essi esercitasse l'umile ufficio, che gli procurava la scarsa cenetta. Cosi intendo io quell'“Et duris crustis discas configere dentes, che il Novati (p. 35, n. 56) a ragione nega essere il pane della povertà, ma non bene, a mio giudizio, interpreta "cerca di farti piú dotto,. A sostegno di questa sua dichiarazione, richiama il v. 93 del Carme III, dicendo: "Il Maestro bolognese vi si dice pronto a ricambiare il latte di pecora che Dan

1 Cfr. NOVATI, p. 63 in n. 21, e quanto diremo appresso nella nota alla pag. 39.

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te invierà, con altrettanto di giovenca, allor allor spremuto 'quo dura queant mollescere crusta'. Or di quali croste si parla qui, in grazia, se non di quelle appunto che Melibeo durava fatica a rosicchiare?, Il che è quanto dire che si dichiara crusta per cose difficili a intendersi, per enigma forte, come direbbe Dante e che Mopso avea cura di renderle meno ardue (mollescere) a Titiro, quasi non avesse avuto denti forti abbastanza per roderle! Vero che Titiro si finge vecchio....

No, no: questo latte, che il Postillatore chiosava per poesia bucolica (or fa comodo a me dar retta all'Anonimo), è un non felice simbolo dei molli versi che condiscono il vero: il che entra nel modo di concepire la poesia, familiare a quei poeti: quanti duri crostini non ha cercato Dante di render solli con il latte della sua arte! E l'esserne ricco conviene

a quel Mopso lacte canoro Viscera plena ferens, et plenus adusque palatum (Carme II, vv. 31-32).

Ma il buon Melibeo stremandosi a insegnar ai bimbi, poco ne sapeva gustar di questo latte; come poco poteva capire delle idealità che agitavano la mente del divino Poeta. Egli, a sentire che un Professore dello Studio di Bologna promette la laurea a Dante, se questi scriverà qualche cosa come il Carmen de obsidione Canis Grandis del Mussato, non vede altro modo, che di seguirne il consiglio: cosí infatti pensano tanti anche ora, che lavorano e producono ascoltando la voce della piazza, e non dell'anima propria.

Ma Dante (piace che la conclusione d'un ragionamento torni ancóra in sua lode) non rinuncia ai suoi ideali: la dolce patria e la dolce musa. E dà mano alla sua pecorella.

IV..

Cosí, aggirandoci per i meandri delle argomentazioni, siam giunti un'altra volta al nodo, che par ci inceppi ancóra il filo della matassa. Ma chi ben guardi vedrà che or possiamo leggere gli enigmatici versi con altri occhi, e quello che prima pareva dubbio diventerà ora ragionevolmente probabile.

Dante vuol che la laurea segua al compimento della Commedia. Melibeo dubita che il dettato volgare di essa possa farlo riuscire

1 II PASCOLI (op. cit., p. 313, n. 1) si chiede che autorità avesse Giovanni del Virgilio per proporre Dante alla laureazione in Bologna. Non saprei: ma forse quella che avevan avuta Rolando da Piazzola (L'Alcone del Carme VI) e altri a proporla, in Padova, pel Mussato.

nell'intento, presso Mopso: Titiro afferma che proprio questi l'ha da concedere. Melibeo, mal persuaso, gli chiede come farà a convertirlo. Qual è il mezzo più acconcio? Mandargli un saggio di questa Commedia, che dovrà far trionfare poeta lui, Titiro!

Il Novati, come il minor Melibco, si stringe nelle spalle e dice: “Bella maniera! come se Mopso non avesse già mostrato di conoscere le due divine prime Cantiche e di apprezzarle, anche prima di dar il famoso consiglio. Se non l'avean convinto quelle, come potevano convertirlo altri dieci Canti?.

Ha ragione, e il successo della corrispondenza prova, come vedremo, che fu appunto cosí. Dante ebbe torto o si illuse... Ma questo non vuol mica dire che noi dobbiam correggere oggi le ingenuità del vecchio divino! Porremo anche questa con l'altra, cui accenna argutamente il D'Ovidio, e con tutte quelle che in abbondanza ci porgono i grandi Genî, che sono sempre un poco dei prodigiosi fanciulli, come afferma una scuola di cui io sento intimamente vere alcune conclusioni.

Ma tutto il pensiero politico di Dante, non era stato d'una ideale ingenuità?

Se si potessero far paragoni, in tanta disformità di opinioni e di costumi, richiamerei l'esempio di Emilio Zola, che, eterno candidato all'Accademia, vuol guadagnare il seggio con Lourdes! Per fortuna che l'alloro e l'immortalità non han bisogno di cerimonie accademiche per verdeggiare sulle fronti sovrane!

Premesso ciò, possiam studiare piú da vicino questa misteriosa pecorella gratissima e gli attributi che il Poeta le dà.

Quale sforzo di sottigliezza per ridurla a simboleggiare, non dico la Bucolica di Virgilio (che non ci arriva alla fine né pur il Novati), ma almeno la Musa latina!

Non insisto sul quam noscis, perché è inutile dar un valore troppo determinato all'espressione, che in fondo corrisponde al nostro "quella pecora, che tu sai „: ma, in ogni caso, non saprei come si concilierebbe quel negozio dell'ignoranza di Melibeo, come s'interpreta generalmente, e la sua conoscenza della Bucolica.1

Essa è gratissima a Dante: potremmo tradurre, pensando agli usi pastorali “la piú grata,, ma ad ogni modo se l'aggettivo può

1 I N. dice (p. 63, n. 21) che è assurdo e grottesco pensare che un notaio non capisse il latino delle ecloghe virgiliane e ha ragione: ammette invece che non potesse gustare "l'alta poesia di un dotto, come il Dottore bolognese,: dunque, Virgilio sí, il Del Virgilio no!

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