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Per la natura lieta, onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce,
come letizia per pupilla viva.

Da essa vien ciò che da luce a luce

par differente, non da denso e raro :

essa è formal principio che produce,

conforme a sua bontà, lo turbo e il chiaro.

«Ora è certo che nella prima terzina del Paradiso, Dante ha voluto significare lo stesso pensiero, fermare, dirò così, la stessa teoria. La gloria di Dio risplende più in una parte e meno in un'altra. Per ciò appunto penso che la punteggiatura seguita sinora sia sbagliata, e che si debba correggere in questo modo:

La gloria di Colui, che tutto move
per l'universo, penetra e risplende
in una parte più e meno altrove.

« La frase che tutto move per l'universo diventa inciso. La correzione è evidente: non solo s'entra meglio nello spirito, nel concetto del poeta, ma tutte acquistan pregio le proposizioni di quei tre versi. Quel che tutto move senz' altro, era pensiero indefinito e piccolo; non così che tutto move per l'universo perchè l'idea si allarga, s'amplia come a definire i moti delle sfere e dei cieli del paradiso, in cui Dante sta per Anche il dire che la gloria di Dio penetra per l'universo pare cosa poco nuova e semplice troppo. Non così quando il verbo penetrare preceda e si congiunga naturalmente al verbo risplendere, chè allora quello rappresenta la causa, questo l'effetto del fenomeno divino ».

entrare.

A quest'articoletto rispose nel no. 8 dello scorso febbraio il prof. M. L. Montresor con la seguente nota:

« Corrado Ricci propone che la prima terzina della III cantica di Dante, che finora abbiamo letta così:

La gloria di Colui, che tutto move,
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più, e meno altrove.

si abbia invece a punteggiare in quest' altro modo:

La gloria di Colui, che tutto move
per l'universo, penetra e risplende
in una parte più e meno altrove;

e allora l'espressione che tutto move per l'universo diventerebbe un inciso. «Mi scusi, egregio professore; ma una volta tanto, almeno, risparmiamo

all' Eterno Tormentato un nuovo supplizio, sia pure di virgole.

« Vede: a me pare che la terzina dantesca, interpretata come vorrebbe

lei, perda ogni bellezza ed efficacia; e le dirò perchè. Siamo al principio del Paradiso; e la solennità del primo verso lei me la vorrebbe sciupare aggiungendovi per l'universo. Quell' inciso che tutto move, sta assolutamente bene da solo, tanto più che risponde alla frase latina omnia o cuncta moventis di cui è un felice richiamo. Nella disposizione che lei vuol dare alle parole, quel penetra ci starebbe proprio a disagio, come una zeppa inopportuna. Invece, nella forma accolta comunemente, quel Per l'universo penetra (che a lei pare poca cosa, rivoltato a modo suo in penetra per l'universo) è espressione alta, efficace della gloria di Dio, che si manifesta in ogni angolo del creato.

« A lei penetra per l'universo (che io leggo per l'universo penetra) pare « cosa poco nuova e semplice troppo ». Vede, a me fa un effetto ben diverso. E badi che facilmente le è sfuggito anche il senso preciso di quel per, che nell'interpretazione che vorrebbe dar lei perderebbe ogni efficacia. Il dire, per esempio, il vento penetra per le fessure, non è lo stesso che penetra nelle fessure.

«Ma poi rilegga bene la terzina secondo la sua correzione: Dante allora metterebbe in più chiara luce ciò che io credo invece accessorio, cioè la non equa manifestazione della gloria di Dio nell'universo; almeno io la intendo così, e con me molti e molti altri, anzi quasi tutti. Legga come stava la terzina, sopra tutto senza rimpiangere la sua correzione, e sentirà com'è bella e solenne preparazione a ciò che segue. Del resto, Dante va letto più che con la lente del critico, con una dose di buon senso, come disse una volta il mio venerato maestro A. D'Ancona; e qui credo che basti proprio il buon senso per persuaderci a lasciar in pace, se non le ossa, almeno i versi del poeta ».

Come si vede, il Montresor non ha risposto alle argomentazioni del Ricci, ma si è limitato a contrapporgli le sue impressioni. Nulla tegitendo a queste, avvalorandole anzi con alcune riflessioni, incominciano ad esaminare gli argomenti del Ricci. Questi dice che « nel cantc II e in altri luoghi del Paradiso Dante afferma che il maggiore o minore splendore dei corpi proviene dal più o meno penetrare in essi della virtù divina, della gloria di Dio », e citati i versi del canto II Virtù diversa, ecc., conclude che in questa prima terzina del Paradiso Dante abbia « voluto significare lo stesso pensiero, fermare la stessa teoria» e perciò « la gloria di Dio risplende più in una parte e meno altrove, appunto perchè penetra più in una parte e meno in un'altra ». In primo luogo, Dante nel canto II ed altrove parla di virtù e non di gloria, tanto è vero che quattro terzine innanzi, distingue questa virtù perfino dal moto, e dice:

Lo moto e la virtù de' santi giri, ecc.

Ma, anche concedendo che la gloria si debba confondere con la virtù, è dottrina costante nel sacro poema che la virtù divina penetri sempre e dappertutto egualmente, ch'essa è in tutto egualmente distribuita, e se non si manifesta dappertutto allo stesso modo, è perchè non ogni cosa ne prende allo stesso modo. È, per spiegarci, come la luce, che piove sul veggente e sul cieco, ma quegli ne prende e questi no; è la teoria cristiana che la grazia di Dio piove egualmente sul giusto e sul peccatore, ma quegli ne profitta e questi no. La gloria di Dio splende luminosa tanto nel paradiso che nell'inferno e nel purgatorio; ma lì splende ad allietare i beati, ed in questi due altri regni a tormentare e purificare i peccatori.

E volendo venire all' interpretazione del passo citato dal Ricci, abbiamo dalla bocca stessa di Beatrice non essere vero che una sola virtù sia in tutti più o meno distribuita :

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va intesa non nel senso di diversa quantità, ma nel senso che diretta sopra corpi diversi non può non fare con ciascuno una lega differente, come, per esempio, uno stesso albero cui siano innestati ramoscelli diversi. Il diversa viene da versare de, ossia una stessa virtù versata dall' alto sopra corpi differenti; oppure da divergere nel senso che la stessa virtù, divergendo sopra corpi svariati, dà con ciascuno un risultato differente. E che questa sia la vera interpretazione della parola diversa e non l'altra, si ha conforto dalla grammatica, la quale avrebbe voluto per l'altro senso di quantità o l'avverbio diversamente, in luogo dell' aggettivo, oppure il plurale diverse.

Ma, a parte tutte queste considerazioni, ed ammesso pure che le cose siano come vuole il Ricci, noi possiamo ritorcere contro di lui la sua stessa argomentazione. Egli dice che Dante abbia voluto nella prima terzina del Paradiso fermare la stessa teoria, che poi espone nel canto II; ma appunto perchè l'espone appresso, noi non possiamo neppure supporre che abbia voluto alludere ad essa, parlarci con essa, dal momento che ancora non la

conosciamo. Ed il bisogno che ha sentito di farcela spiegare da Beatrice, con una spiegazione che occupa quasi un intero canto, dimostra che non poteva in questa prima terzina parlare di essa, perchè nessuno l'avrebbe potuto capire. E se Dante dice al lettore di guardarsi dal mettersi in pelago per non restar smarrito, lo dice dopo questa prima terzina, assai dopo, al principio del canto II, e quindi tutto ciò che ha detto innanzi nulla deve avere a che fare con ciò che viene dopo questo avvertimento, e perciò non si può ammettere che per comprendere il detto innanzi occorrano le teorie, le quali si svolgono dopo.

Il Ricci soggiunge che « tutto move senz'altro è pensiero indefinito e piccolo, non così tutto move per l'universo, perchè l'idea si allarga, s'amplia come a definire i moti delle sfere e dei cieli del paradiso ». A me sembra che appunto perchè indefinito, è grande, tanto grande che non si può definire. Se poi per piccolo vuole egli intendere volgare, gretto, dirò che l'idea è eminentemente filosofica e come tale è sempre elevata, sostenuta e nobile. Ed aggiungo anche che è più filosofico il tutto move, come quello che astraendo dalle condizioni di spazio e, 'direi anche, di tempo, integra meglio il concetto metafisico, che giunge quasi alla sintesi sublime dell'astrazione del moto. E dal momento che sono sopra questioni di preferenza di frase, aggiungerò che il tutto move è così svelto ed elegante, che ti fa vedere la persona, la quale muove tutto senza il minimo sforzo, appunto come Dante e la dottrina cristiana dicono di Dio; mentre il tutto move per l'universo ti dà un senso di sforzo e di stanchezza nella stessa lunghezza della frase e fino nella lunghezza e pesantezza della parola universo; e Dante a queste cose bada sempre assai !

Ma v' ha di più: dicendosi tutto move per l'universo si rimpiccolisce il pensiero anche perchè il moto non si estende pure agli altri mondi, che la nostra immaginazione può, oltre il nostro, figurarsi, e della cui esistenza si disputava anche ai tempi di Dante. Nè si dica che per universo s' intende tutto il creato, poichè universo è aggettivo che suppone il sostantivo mondo: universus mundus; e per mondo gli antichi, e Dante con essi, il quale seguiva le idee di Tolomeo Alessandrino, intendevano tutto il creato percepibile con i sensi, lasciando ai filosofi il disputare se, oltre di esso, di altri ancora poteva darsi l'esistenza. E se non vogliasi ammettere ciò, allora il complemento per l'universo diventa pleonasmo, come quello che non limiterebbe il campo del moto. Nè si opponga che sebbene non limiti questo campo, lo specifichi, perocchè la specificazione di questo campo è inutile, dal momento che non una parte, ma tutto il creato è mosso dal Creatore; e si capisce che tutto muovendo, non possa muoverlo che nel creato stesso.

Al Ricci inoltre «pare cosa poco nuova e semplice troppo il penetra

per l'universo, non così quando preceda il verbo penetrare e si congiunga al verbo risplendere, chè allora quello rappresenta la causa, questo l'effetto». Non v' ha forse persona così desiderosa della novità quantó me; eppure non credo che mai la novità si debba preferire alla chiarezza e alla bellezza.

La vecchia e comune dicitura porta tre proposizioni, ciascuna con un sol complemento: tutto move, Per l'universo penetra e risplende In una parte più e meno altrove. Le idee si presentano così semplici e facili; tutto è armonioso e tutto dominato dal gran soggetto la gloria di Colui. Invece, unendo per l'universo al verbo move, si hanno in questa proposizione due complementi, ed appunto perchè complementi, l'idea contenuta nell' uno ha bisogno di quella contenuta nell'altro per completarsi; e tutto questo a scapito della semplicità e chiarezza. Ed associando il penetra col risplende si hanno due verbi, dei quali nessuno racchiude un concetto intero (intero rispetto non al verbo, ma all'insieme della frase), ed entrambi hanno un complemento unico, cosicchè la mente è costretta, dopo aver completata l'idea di penetra con quella di risplende, a riferire il complemento unico. ad entrambi i verbi. Come si vede, la mente, per afferrare il pensiero, deve fare un lavorio immane, e tuttociò che porta sforzo psichico, come ho altrove dimostrato, è brutto. E qui si badi a non confondere lo sforzo prodotto dalla difficoltà della locuzione con quello dalla gravità del pensiero: quello è sempre brutto, mentre questo può diventar bello ed anco sublime.

Ma è poi vero che nella versione comune manchi la novità? L'amico Montresor ha già osservato che tutto move è un felice richiamo del cuncta supercilio moventis, nè credo che Dante. nel tradurre appunto questa celebre frase, l'abbia voluta sciupare con un complemento che non è nell'originale. La novità delle traduzioni, la grande novità, la sorprendente novità è nello esprimere ciò che si vuol tradurre con la stessa efficacia della lingua originale; ed a raggiungere ciò nulla giova quanto la parsimonia delle parole, la brevità e concisione della frase. E quindi la grande novità fatta da Dante rispetto a questa prima proposizione è nell'avere anzi accresciuta nella traduzione l'efficacia della frase latina, efficacia che si scemerebbe con l'aggiunta del complemento di luogo per l'universo. Noto questa sola novità, perchè questa è la differenziale fra le due versioni; ma ve n'ha una più grandiosa, comune ad entrambe, e della quale non è qui il caso di parlare: quella, cioè, di aver sostituito un concetto filosofico ad uno artistico, un concetto religioso ad uno poetico. Giove, che tutto muove al muover del suo ciglio, come felicemente tradusse ii Manzoni nel Natale, è un prodotto estetico della poesia dei greci, tutta candore ed arte, e della loro religione, tutta poetica ed artistica; il Dio invece creatore dell'universo, muove tutto in quanto è egli la vita di tutto il creato; egli muove tutto

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