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alla destra e alla sinistra della medesima vi si scorgono due immagini di donna sedenti, le quali, a mio credere, rappresentano Muse, essendovene una espressa colla vivola in mano in atto di sonarla, e l'altra con un libro, che simboleggia per avventura la famosa Comedia dello stesso poeta. Onde non è poco ragguardevole quest' anticaglia, considerata come cosa di quel poeta, il quale morì in Ravenna l'anno di N. S. Milletrecentoventesimo e di sua età cinquantasei».

Il Pelli (Memorie, 2a edizione, 1823, pag. 205) non manca di notare che, il Museo Cospiano essendo passato all' Istituto di Bologna, lo Scacchiere non vi si trova; d'altronde, dice, l'arma o stemma col quale vedevasi decorato, non era quella della famiglia o famiglie dell' Alighieri ».

Dal Pelli in poi, nessuno ha potuto dire finora che n'è divenuto dello scacchiere del marchese Cospi. Essendomi occupato per molti anni dell'archeologia degli scacchieri conservati nei musei pubblici e privati dell' Europa, non potei resistere alla tentazione di seguitare la storia dello Scacchiere dantesco ». Essendo a Bologna l'ultima volta, nell'aprile di questo anno, ho saputo per mezzo del mio egregio amico, il commendatore Malagola, direttore dell'Archivio di Stato, che il preteso « Scacchiere dantesco si trova ancora a Bologna, in proprietà di un medico ben conosciuto nella città, il dottore Spagnuoli (via delle Belle Arti, 21). Ci siamo recati insieme presso il signor dottor Spagnuoli che colla più grande cortesia ci ha fatto vedere il suo tesoro. Le carte autentiche conservate nella casa non lasciano dubbio, che lo scacchiere del dottor Spagnuoli è identico a quello posseduto anticamente dal marchese Cospi. L'incisione dalla quale il Legati ha accompagnato il suo testo, è assai cattiva, ma permette sempre di affermare l'identità del nostro oggetto. Questo scacchiere è un'opera in legno inquadrata di avorio, con intarsì d'avorio dai quali la tavola da giuoco è composta. Il dorso, la parte rappresentata nell'incisione del Legati, è infatto dipinta. Si pretende che lo stemma sia quello della casa Donati, o, secondo altri, dei Mitorelli da Firenze. Lascio agli amici fiorentini decidere di questa quistione. Mi riserbo a notare che la pittura coi suoi due angeli che il Legati ha preso per muse, non può essere attribuita al trecento: appartiene, senza dubbio, alla fine del secolo decimoquinto o al principio del decimosesto. Scacchieri, cioè tavole del decimo secondo e terzo e probabilmente del decimo quarto non esistono nelle collezioni d'Europa: abbiamo soltanto di questa epoca figure di scacchi delle quali le più antiche non salgono al di là del duodecimo secolo; lo« Scacchiere cospiano interamente di scacchi.

» manca

Questo risultato non deve diminuire la mia gratitudine verso il dottor Spagnuoli, nè nuocere al valore archeologico del suo scacchiere che resterà sempre uno dei più preziosi monumenti di questo genere dell'epoca del Rinascimento.

Freiburg, ottobre 1893.

F. X. KRAUS.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI

Dott. Leone Luzzatto, Pro e contro Firenze: saggio storico sulla polemica della lingua. Verona, fratelli Drucker editori, [Padova, stamp. fratelli Gallina], 1893, di pagg. 114.

Chi voglia farsi una idea abbastanza chiara di quello che fu questa questione della lingua, ed abbracciare come in prospettiva il lungo cammino percorso, potrà, con molto profitto, leggere quest' operetta, che deve all'autore essere costata una certa fatica, e nella quale egli si rivela indagatore coscienzioso e sagace. Non manca, naturalmente, qualche ripetizione che potevasi evitare, qualche inesattezza, qualche esagerazione [come, a pag. 10, l'asserzione che il Volgare Eloquio di Dante fino ai nostri giorni fu o ignorato o letto con ispirito di partito], qualche errore di stampa che oscura il senso, qualche omissione di nomi, come quelli dell'Alunno, del Bartoli, del Biamonti, del Nannucci, del Gherardini [questi due ultimi relegati di passaggio in una nota a pag. 99]. e senza che della ortografia gherardiniana, che pure con la quistione della lingua ha uno strettissimo nesso, sia fatto alcun cenno. Ma, nel complesso, questa operetta del Luzzatto si legge con piacere anche da chi non consenta in tutto colla teoria manzoniana dell'autore; e riesce ad interessare il lettore alla tanto disputata quistione. Nessuno ignora come a capo delle due opposte opinioni stanno due sommi: Dante e Manzoni; per Firenze, il lombardo; contro, il fiorentino. Ma sono due geni che hanno fra loro diversi punti di opposizione. Nel Manzoni prevale la mente al cuore, in Dante, l'opposto: questi significa quello che Amore detta dentro, il primo ci pensa su. E come, pur venerando Dante, si può ben riconoscere i luoghi ov' egli si lasciò trascinare dalla passione, venerando il Manzoni non è delitto constatare che l'indole mite, così del suo animo che del suo ingegno, lo fece alieno dalle impetuose energie, e che se la sua rigorosa dialettica gli fece veder chiaro anche dove per tutti era buio, con essa sola non avrebbe già però il gran Bacone potuto innovare le scienze e la filosofia.

Ora, in questa quistione della lingua, la logica sola non basta, ma occorre, sovente, l' intuito, una sorta di divinazione, quale, a mio credere, ebbe Dante. Egli volle eccitare in tutti gli italiani una comunione di idee, per mezzo del linguaggio: ma a ciò dovette certo sembrargli mezzo inadeguato, e supposto irrealizzabile, che tutti gli italiani imparassero a parlare da una sola città. Egli si contentò quindi di destar nella loro coscienza la persuasione, l'avvertimento, di un fondo comune di sentire, di esprimere le cose, senza il quale una lingua non sorgerebbe mai.

Ma una lingua non si forma per il fatto che la gente si metta tutta per una tacita intesa a parlare il linguaggio di una determinata città. Certo, in una vasta comunione è sempre un luogo, nel cui parlare la popolazione riconosce meglio sè stessa, e però ne adotta ben volentieri i termini che ad essa mancano, e da quella prende le forme grammaticali, le desinenze, gli atticismi. Ma ciò avviene per impulso spontaneo, senza coazione alcuna, e senza

vincolo di sorta, per servire ad un bisogno proprio, non già per omaggio ad una pretesa egemonia. [Da Firenze, per es., gli italiani non presero nè la pronuncia nè molte storpiature; e, pur ricorrendo ad essa per avere la uniformità di denominazione necessaria a designare gli oggetti domestici, non si fecero però scrupolo di mantenere voci adottate dappertutto ancorchè strane a Firenze, di chiamar, per es., avellini, a preferenza che campanelle, quei cerchietti sui quali scorrono le tende delle finestre]. Ciò avviene perchè in quella città, che è scelta come centro, si mantiene quel commercio, quel movimento degli affari e delle idee che solo può dare la vita alle parole; commercio e movimento che furono in Firenze nel '300 e nel '500, ma che non si riscontrano forse oggidì. Verba ubi res. Sta bene che la nostra lingua sia nata a Firenze: ma ogni lingua è un divenire; e fate, per es., [quello da cui siamo ben lontani che la vita della penisola si accentri in Roma, da Roma, naturalmente, partirà un'altra volta l'intonazione data alla lingua, nel dire di Roma tornerà a rispecchiarsi la coscienza della nazione.

Una lingua comune nasce dal bisogno di comunicare di continuo coi vicini intorno agli oggetti, e volgari ed elevati, che occupano la umana vita. Pei volgari, pei quali il bisogno di denominarli si fa sentire più frequente fra una cerchia più stretta di persone, la voce, il modo, si prendono senza molto preoccuparsi del come essi siano intesi altrove; e il parlare si abbrevia, si storpia, per la fretta del dire, e nella certezza che per l'abitudine i vicini c' intendano ugualmente. E nascono i dialetti ove il lavorio delle forme usitate ne genera la corruzione, facendo dimenticare il fondo comune onde derivano, al modo che negli spezzati delle monete finisce alla lunga per sbiadirsi del tutto il conio originario.

Ma pei concetti elevati, pei quali le occasioni di comunicarli son minori, ed esse, di solito, non si limitano ai vicini ma si estendono ai lontani, così nel tempo che nello spazio, e che però non si contentano alla parlata ma più spesso ricorrono allo scritto [e della proprietà di questo di far di freno alla lingua, d'impedirne la corrutela, come quello che si preoccupa di essere inteso a distanza di tempo, parla il Castelvetro a pag. 39; ed è pur la ragione della teoria gherardiniana intesa a opporsi agl' imbastardimenti delle pronunce che le origini oscurano insieme i significati delle parole], pei concetti elevati dunque lo allontanamento dalla lingua originaria è minore; e anche dove sorgono forme nuove, originali, esse pur sentono il bisogno di una certa uniformità, la quale tanto si ottiene modellandosi sulla lingua madre, quanto ha quelle forme de' dialetti che al comune senso estetico appaiono più soddisfacenti; e tra questi è naturale che uno riporti la palma, senza che possa però mai soppiantare affatto i singoli altri.

Non che vi sia quindi una lingua illustre e un' altra non illustre; ma vi sono concetti illustri ed altri che non lo sono, e vi è una lingua che deve esprimerli tutti egualmente. Onde mi parve sempre meno fondata la censura che Carlo Cattaneo [col quale del resto sono, in massima, d'accordo] faceva a Dante, di sembrare quasi avere scritto in due lingue diverse, quando cantava La bocca sollevò dal fiero pasto, da quando scrisse Già veggia, per mezzul pèrdere o lulla. Se di qualche cosa si volea qui fargli censura, non era già di essersi espresso nel suo dialetto fiorentino, bensì, caso mai, di avere introdotto nel poema cose troppo volgari; ma posto ch' egli volesse parlarne, egli non potea farlo che nei termini suoi proprii, quali non era che il suo dialetto che gli potesse fornire.

Per la espressione dei concetti più alti, come pure per la unificazione del linguaggio più usuale, resa necessaria dal maggiore accostamento di regioni che prima erano divise, le forme del dire vengono modificate, elaborate, nei reciproci contatti, finchè riescono ad acclimatarsi per tutto, e a perdere del loro carattere primitivo, onde non si possono dire piuttosto fiorentine che padovane. Allargandosi la cerchia dei paesi coi quali una popolazione è in continue relazioni, ciascuno dee prendere dagli altri e lasciare del suo, come accade in tutte le tran

sazioni; ma questo adattamento si opera da sè, avviene per elezione spontanea; non per imposizione di fuori: per legge di evoluzione, non per innesto artificiale. Naturalmente il dialetto che riescì a far accettare la sua gramatica e le sue desinenze riescirà pure a far passare il maggior numero delle sue voci. Vi saranno, anco nella espressione dei concetti elevati, nel vario atteggiarsi e graduarsi delle idee, certi giri di frase, certi modi proprii, idiotistici che in fiorentino avranno più vivezza. Ma anche gli altri modi, sebbene meno attici, pure si capiranno; e nello scambio delle idee avverrà quello che in un crogiuolo, ove si fondono diversi metalli, e n'esce una lega unica, quello che in più vasi comunicanti, ove il liquido qua si alzerà e là si abbasserà, per mettersi poi tutto al medesimo livello. È questo l'argomento di Dante, ove nel Volgare Eloquio dice che com' esiste un volgare di Cremona, così si può trovarne uno di Lombardia, e cosi uno proprio alla sinistra parte d'Italia, ed uno proprio a tutta Italia [pag. 15]: al quale non credo ben risponda lo scherzo del Niccolini, che ugualmente potrebbe concludersi, essere un volgare proprio di tutta Europa [pag. 75], giacchè na. turalmente il concetto di Dante si limita a regione che sia insieme legata da anteriori tradizioni e da aspirazioni comuni, nelle quali risiede appunto la forza così di una lingua che di una nazione che Dante voleva, col mezzo anche della lingua. risuscitare.

E che anche il fiorentino avesse comuni molte forme con altri dialetti, lo vediamo in Dante stesso, molte espressioni del quale sono ora perdute nella lingua, mentre in varii dialetti si mantennero; così il mo, così l'ancoi, la ca, il co, così l' isso che a pag. 108 dell'opuscolo del Luzzatto viene indicato come abbandonato dall'abruzzese, mentre se fu abbandonato, lo fu anche dal fiorentino.

In conclusione, io dico: Non è questione di affermare la supremazia o la non supremamazia di Firenze in fatto di lingua, ma solo di constatarla; la questione è tutta teorica, e non pratica. I dotti non sono i legislatori della lingua; essi non ne tengono che i registri dello stato civile. Ma la lingua è il popolo che la fa e la disfà, come fa dei governi, come fa delle religioni. Le lingue sono un frutto spontaneo della convivenza; e non si può dire quindi che la lingua italiana sia propria piuttosto di Firenze che di altri luoghi. Vi prevalse l'elemento fiorentino, finchè Firenze si mantenne un centro intellettuale; ma lo è dessa attualmente? Si può dire che il lavoro intellettuale sia maggiore a Firenze che nelle altre parti d'Italia? quali frutti ne vediamo? Per me la questione è qui, cosa di fatto, cosa sperimentale; come per darne altro esempio, un po' lontano, quella dell' uguaglianza della donna con l'uomo. In teoria starà; ma in pratica, quella uguaglianza non potrà provarsi finchè, come si ebbero gli uomini di genio, non sorga anche la donna di genio.

Ma qui m'avvedo che invece di una recensione sono cascato in una lezione, e monca per giunta, e noiosa. Sarà quindi meglio smettere, salvo a riprendere, se ne avrò agio, il soggetto a tempo migliore, Ma intanto ciò significherà che al libro preso in esame non manca la virtù di appassionare all'argomento; e in uno scritto non è questo davvero il meno importante dei pregi.

Roma, novembre 1893.

F. RONCHETTI.

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La Sicilia nella divina Commedia. Acireale, tipogr. Donzuso, 1893, in 8.o

L'argomento che l'egregio dottor Mazzoleni ha preso ad illustrare in questo opuscolo non è certamente nuovo: e senza contare i libri vecchi e recenti nei quali è trattato per incidenza, gli studiosi ricordano il lavoro di Lionardo Vigo su Dante e la Sicilia in cui il tema

è svolto, specie per ciò che riguarda la storia, con sufficente ampiezza e con sicura dottrina [in Rivista sicula di scienze lettere ed arti, Palermo, 1869, vol. II e III] e lo scritto, a dir vero molto abborracciato, del canonico Castorina intorno a Catania e Dante Alighieri (Catania, 1883). Tornando dunque sopra una via già battuta, l'autore non poteva trovar molte cose nuove: ma calcando le orme altrui con amorosa pazienza, è pur riuscito, e gliene va data lode a trovare quello che a' predecessori suoi era sfuggito od era stato male osservato o negletto. Così a noi piace l'aver egli diviso i ricordi che di Sicilia son pel poema dantesco in mitici, storici, letterari e geografici-scientifici, ciò che gli ha dato modo di presentare al lettore una ordinata rassegna illustrando, volta a volta, ogni luogo con gli ultimi risultamenti della critica dantesca. Qua e là, lungo il cammino, coglie l'occasione per rilevare qualche svista del Vigo e del Castorina dei quali combatte l'opinione, già messa fuori dal Troya, che cioè Dante possa aver navigato di Francia in Sicilia e vi sia sbarcato [pag. 20]. Contro la recente opinione di G. Del Noce [Due studi danteschi, Firenze, 1892] che nel verso 69 del canto VIII di Paradiso vuol vedere l'Jonius sinus vergiliano [Georg., II, 105-108], ossia il mare che da Creta si stende fino a bagnare Italia, il Mazzoleni conferma che per il golfo che riceve da Euro maggior briga sia da intendere, con tutti gli antichi e moderni commentatori, toltine il Landino e il Vellutello, il sinus Catanensis o golfo di Catania, che infatti si apre nella costa orientale della Sicilia limitata al nord dal Peloro e a mezzogiorno dal Pachino, golfo assai dominato dallo scirocco o euro, ed al di sopra del quale la Trinacria caliga, cioè si cuopre della caligine o del fumo zolfureo dell'Etna.

G. L. PASSERINI.

Vincenzo Novelli. I Colonna e i Caetani: storia del medio-evo di Roma. Roma, tip. frat. Pallotta, 1893, voll. due in 8°, di pagg. XIV-295, 353.

Non è questo il luogo di ricercare se l' egregio dottor Novelli, che all' intelligente esercizio della medicina si compiace di unire l'amore dell'arte e della storia, abbia con questo voluminoso lavoro come è lecito supporre sia stato suo pensiero - contribuito alla resurrezione del romanzo storico in Italia. Qui basterà di segnalare all'attenzione dei lettori -e specie a quelli che non han molto tempo da consacrare a lunghi studi, — questo lavoro del signor Novelli; nel quale il colto autore ha cercato, con ingegnose e pazienti fatiche, di ri produrre artisticamente, sotto le forme del romanzo, uno fra i più importanti e solenni periodi della storia medievale di Roma, descrivendo l'aspra lotta che al tempo di papa Bonifazio VIII fu tra Caetani e Colonna: quelli, fautori e sostenitori delle pretensioni papali, questi, difenditori delle affermazioni ghibelline de' feudatari.

Senza ripetere la sentenza di un critico un po' troppo compiacente che, cioè, molti po tranno imparare, dal romanzo del Novelli, la topografia medievale di Roma meglio e più intensamente che da speciali trattati, io credo che potrà essere utile la lettura di questo libro: e a giudicar del favore che l'opera del Novelli, in pochi giorni arrivata all' onore d'una seconda edizione, ha ottenoto dal publico, sembra anche ci sia chi ritrova questa lettura dilettevole ad onta delle molte lunghe digressioni nelle quali si compiace l'autore, della forma generalmente negletta, dello stile incerto, di qualche grave inesattezza qua e là. Imperdonabile,. per esempio, anche in un romanzo, il lungo, e fantastico capitolo che nel volume secondo racconta i fatti di Nello Pannocchieschi e della Pia de' Tolomei, riconfermando così il lettore in vecchie credenze che la recente scoperta di nuovi documenti ha inesorabilmente infirmate. G. L. PASSERINI.

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