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IV dell' Inf. e il IX del Purg.; ma esso è puramente accidentale, poichè, tanto nel primo caso come nel secondo, abbiamo una descrizione: del rompersi del sonno; e si sa non esser raro in Dante il trovare due luoghi per l'espressione quasi simili. Non è quindi una ragione plausibile quella che porta l'illustre Fornaciari; e mentre ammiro le profonde osservazioni che fa per rafforzare l'esposizione sua, non posso però di esse tener gran conto perocchè partino da un punto falso. Bisogna anzitutto spiegare il senso letterale e poi venire al figu rato; il Fornaciari invece si vale quasi dell'allegoria per ispiegare il senso alla lettera.

Già Francesco da Buti aveva veduto il vero nel darci la spiegazione del passaggio dell'Acheronte; e se con meno pretese di ricerche strane, peregrine avessero letto i versi che si riferiscono alla nota questione, i dantisti, che di essa si sono occupati, facilmente avrebbero colto nel segno. Chi mi terrà dietro nell' esposizione che sono per fare si convincerà che essa per la sua semplicità e naturalezza corrisponde all'intenzione di Dante.

I due poeti, Dante e Virgilio, giunti all'entrata della città di Dite, videro

più di mille in sulle porte

dal ciel piovuti che stizzosamente
dicean: Chi è costui che senza morte

va per lo regno della morta gente?

Virgilio si spinge avanti per parlare con loro, ma essi gli chiudono subito le porte in faccia appena l'hanno udito; ed egli, privo di ogni baldanza, ritorna a Dante cui dice di non disperare, perchè già

che

discenda l'erta

passando per li cerchi senza scorta

tal che per lui ne fia la terra aperta.

E difatti nel canto IX comparisce il messo celeste e la sua venuta è così descritta:

E già venia su per le torbide onde

un fracasso di un suon pien di spavento, per cui tremavano ambedue le sponde; non altrimenti fatto che di un vento, impetuoso per gli avversi ardori,

che fier la selva e senza alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori: dinanzi polveroso va superbo

e fa fuggir le fiere e li pastori.

Tutto questo fracasso che prenunzia la venuta del messo celeste rammenta i fenomeni avvengono sulla riva dell' Acheronte; eccone i versi:

Finito questo la buia campagna
tremò si forte che dello spavento

la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento

che balenò una luce vermiglia

la qual mi vinse ciascun sentimento

e caddi come l'uom cui sonno piglia.

Quantunque apparentemente sembra che non vi sia, pure, a chi sottilmente considera, apparisce chiara una perfetta assimilazione tra questa descrizione e la prima citata per l'arrivo

del messo celeste. Invero nel canto terzo abbiamo terremoto, vento e luce vermiglia, mentre nel nono solo il fracasso, cioè il terremoto; e non pochi sono quelli che da queste superfi ciali apparenze sono stati tratti in inganno.

Il Bartoli nella sua storia della letteratura italiana dice: « Nel canto nono non ci è già vento ma il fracasso non altrimenti fatto che il fracasso di un vento: il che è ben diverso. » Il Fornaciari scrive: «Là [canto IX] a buon conto, non abbiamo il bagliore, non abbiamo il vento, poichè questo fa parte di una comparazione e neppure abbiamo il terremoto, perchè il tremore d'ambedue le sponde è l'effetto del fracasso del suon pien di spavento; nè certo si può confondere, ad esempio, un terremoto col tremore causato da uno scoppio di polvere pirica negli edifizi circostanti. »

L'obiezione che muovono tutti e due gl' illustri professori non vi sia vento ― non ha nessun valore, poichè neppure nel condo i due versi 'del XXI del Purgatorio

il verso

cioè che nel canto nono terzo vi è vento. Difatti, se

ma per vento che in terra si nasconda
non so come quassù non tremò mai

la terra lagrimosa diede vento

si deve intendere: la terra lagrimosa tremò. Ed ecco che non essendo il vento nel canto terzo, sparisce una difficoltà che si voleva affacciare contro l'assimilazione dei due canti. Il non riconoscere poi un terremoto nel tremore di ambedue le sponde a me sembra voler negare la verità; inoltre Dante non poteva confondere il vero terremoto con qualche scoppio di polvere pirica! E come lo stesso Fornaciari dice al Puccianti passi per uno scherzo.

-

Resta ora a dire che cosa sia la luce vermiglia che si trova solo nel terzo canto.

Se Dante dirò col Fornaciari non ce ne ha data la spiegazione bisogna supporre che la si possa ricavare dal contesto del poema. Nel II del Purgatorio abbiamo i versi seguenti che descrivono la venuta di un angiolo :

Ed ecco qual sul presso del mattino
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sopra il suol marino,
cotal m'apparve, s'io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,

che il muover suo nessun volar pareggia :
dal qual com' io un poco ebbi ritratto
l'occhio per domandar lo duca mio
rividil più lucente e maggior fatto.

Poi come più e più verso noi venne
l'uccel divino, più chiaro apparia;

perchè l'occhio da presso nol sostenne.

La luce vermiglia che balenò sulla squallida riva infernale ha pieno riscontro con quella che non può sostenere nel purgatorio: il che significa che col balenare della prima Dante' ci volle dire dell'arrivo di un angiolo. Ed io, ritenendo il quarto ultimo verso del III dell'Inferno come spiegazione dei tre antecedenti, leggo così:

Finito questo la buia campagna
tremò si forte che dello spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento

che [perchè] balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento

e caddi come l'uom cui sonno piglia.

Ossia, in termini prosaici: Finito questo la buia campagna tremò in tal modo che ancora per la memoria dello spavento mi bagna il sudore. La terra lagrimosa tremò perchè giunse un angiolo, il quale mi vinse ecc.

Senza dubbio, qualcuno quasi trionfalmente domanderà: Ma perchè trema la terra al venire dell' angioio? Ed io, domandando, rispondo: Perchè all' arrivo del messo celeste tremano ambedue le sponde?

Roma, novembre 1893.

COSTANTINO CARBONI.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

BOLLETTINO

Backhouse Ed. e Ch. Tylor.

XIII secolo: continuazione della

Testimoni di Cristo e memorie della Chiesa dal 1V at Storia della Chiesa primitiva ». Traduzione dall'inglese. Roma, Ermanno Loescher e C, [Forzani e C., tip. del Senato], 1893, in 8.o di pagg. XI-500, con illustrazioni.

Sommario: I. Dalla morte di Costantino [an. 337] alla morte di Agostino [an. 430]. Epoca ariana. Atanasio. I vescovi della Cappadocia. Ulfila. Martino di Tours. Ambrogio. Crisostomo. Girolamo. Agostino. Lo spirito dell' epoca. Gioviniano e Vigilanzio. II. Dalla morte di Agostino all'elezione di papa Gregorio magno [an. 590]. La lotta nestoriana. L'arte cristiana in Ravenna. Il culto di Maria. Benedetto. III. Dall' elezione di papa Gregorio magno alla fine del X secolo. Gregorio magno. Il cristianesimo nella Bretagna. Il Vangelo in Nortumbria. I missionari britanni tra le nazioni germaniche. La conquista maomettana. I Pauliziani. Testimoni dal secolo ottavo al decimo. IV. Dal secolo X fino al termine della crociata contro gli Albigesi. Vita monastica nel medio evo. San Gallo, Chiaravalle e Bernardo. I Pauliziani nell' Europa occidentale. I riformatori del XII secolo. I Valdesi. La crociata contro gli Albigesi. Conclusione. Il bel volume è inoltre arricchito delle illustrazioni seguenti: 1. La madonna di san Luca [Bologna]; cromolitografia. 2. Il fac-simile di una pagina del Codex Argenteus; cromolitografia. 3. La sedia vescovile di sant'Ambrogio [Milano]; incisione. 4. La porta della basilica ambrogiana; incisione. 5. Fonte del battisterio della cattedrale di Verona; cromolitografia. Il battisterio di san Giovanni in fonte [Ravenna]; cromolitografia. 7. Giustiniano e Teodora, dai mosaici della chiesa di san Vitale [Ravenna]; incisione. 8. Il fac-simile di una pagina del Durham Book; cromolitografia. 9. La sedia detta di Beda [Jarrow]; incisione. 10. La morte di Beda; incisione. 1. La coperta in avorio del libro de' Vangeli, opera di Tutilo monaco di san Gallo nel IX secolo; cromolitografia. 12. Il sigillo di san Bernardo; incisione. 13. L'abbazia di Clunì; incisione. 14. Il candelliere valdese; incisione. (238

Barbi Michele.

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L'edizione nidobeatina della divina Commedia : studio di C. Gioia. [In Bollettino della Società dantesca italiana. Nuova serie, I, 1.]

L'autore ha raccolto quanto da scrittori buoni e cattivi è stato detto intorno alla pre

parazione, al valore, alla fortuna della edizione nidobeatina, ma non ha poi esaminate e discusse le testimonianze e i giudizi altrui, nè fatte ricerche e osservazioni proprie sul libro che voleva illustrare. Nulla dice l'autore sul valore del testo datoci dal Nidobeato, quando era forse bene ricercare intanto se l'edizione esempli materialmente un testo a penna, o porti tracce di una revisione, e quanto acccurata, notandone le lezioni più caratteristiche. Nel complesso, il Gioia giudica l'opera del Nidobeato troppo favorevolmente; e sarebbe stato meglio che avesse tenuto un po' più conto delle ciance degli scontenti, e messo da parte le esagerazioni di qualcun altro. Di questo lavoro è pure una recensione firmata C. S., completamente favorevole, nel Fanfulla della domenica, Anno XV, no. 32. [Cfr. ni. 62, 86, 231] (239 La tomba di Arrigo VII. (In Illustrazione italiana. An. XX,

Beohini Napoleone.

no. 50).

Dà il disegno e la descrizione del celebre monumento eretto dai pisani ad Arrigo di Lussemburgo. (240 Boghen - Conegliani Emma. La divina Commedia, scene e figure: appunti critici, storici ed estetici. [Recens. in Roma letteraria, I, 28, e nella Nuova Antologia, An. XXIX, terza serie, vol. XLIX].

Favorevoli. Cfr. no. 209.

-

(241 Brown Baldwin James. Stoics and Saints: lectures on the Later Heathen Moralists, and on some aspects of the Life of the Mediaeval Church. Glascow, James Maclehose and Sons, publishers to the University, 1893, in 8°, di pagg VIII-296.

Sommario: I. The Later Age of Greek Philosophy and the Epicurean and Stoic Schools. II. Epictetus and the Last Effort of the Heathen Philosophy. III. Marcus Aurelius, and the Approximation of the Heathen to the Christian Schools. IV. Why could not the Stoic Re.. generate Society? V. The Monastic System, and its Relation to the Life of the Church. VI. St. Bernard, the Monastic Saint. VII. St. Thomas of Canterbury; the saint as Ecclesiastical Statesman. VIII. St. Francis of Assisi, and the Rise of the Mendicant Orders. IX. St. Louis of. France; the Saint in Secular Life. X. John Wyclif, and the Dawn of the Reformation. Alle pagg. 125, 239, 248 e 269 vi si parla di Dante. (242

Brunengo Giuseppe. - Il patriziato romano di Carlomagno. Prato, tipografia Giachetti, figlio e c., 1893, in 8.0, di pagg. VI-416.

Tre sono le questioni capitali che l'autore ha preso a svolgere: 1.° quale fosse l'origine e la natura della dignità patriziale; 2.o quale autorità ella conferisse al patrizio su Roma e su lo stato di san Pietro; 3.o in qual modo Carlomagno adempiesse i principali obblighi del suo patriziato, nel difendere ed amplificare la potenza territoriale dei pontefici. Quanto alla prima questione, dopo di avere ricordate le diverse fasi che il nome e la dignità patriziale sortì nell'antica Roma, nella nuova gerarchia dell' imperio stabilita da Costantino e presso i re barbari, il padre Brunengo mostra come sorgesse nel secolo VIII il nuovo patriziato carolingio, il quale, offerto già da Gregorio III a Carlo Martello fu, dipoi, conferito realmente. da Stefano II a Pipino e a' figliuoli di lui, e riconfermato solennemente da Adriano I e Leone III a Carlomagno, che in tutta la sua pienezza lo attuò. Quindi passa a stabilire come l'autorità creatrice di questo patriziato si debba ripetere, non dagli imperatori d'oriente nè dal senato e dal popolo romano, ma dai papi che, e di diritto e di fatto, furono i soli autori e dispensatori di quella dignità: e, finalmente, determinando la natura e l'ufficio proprio del patrizio, che tutto compendiasi nell' appellativo di difensore della chiesa, l'autore spiega quali fossero i doveri imposti da quella dignità, sia quanto alla protezione della chiesa universale, sia quanto alla difesa dei pontefici come capi di essa e come sovrani dello stato di san Pietro. E perchè a tale officio doveva andar congiunta una proporzionata podestà e

giurisdizione, di qui passa il Brunengo ad esaminare quale questa fosse per avventura, e quanta. Quistione agitatissima e del pari importante. Dall' esame dei documenti e dei fatti storici, lo scrittore è tratto a concludere che la podestà del patrizio era in primo luogo podestà straordinaria, ordinata cioè a difendere e ad aiutare, nei casi di straordinario bisogno, gli stati della chiesa e in secondo luogo era podestà in tutto dipendente dal papa, sia che si risguardi nella sua origine, o nell' atto e nel modo dell' esercitarsi, o nei limiti prescrittile. Da che pare al Brunengo manifesto essere assurdo l'attribuire al patrizio Carlomagno la Sovranità di Roma. Per dimostrare, nondimeno, anche direttamente, la falsità di questa, che è pure opinione di molti autori, il Brunengo ha chiamato a rassegna, dall' una parte, gli atti ed attributi propri della sovranità ed ha interrogato, dall' altra, il linguaggio degli scrittori e dei monumenti sincroni; da che gli è sembrato uscire evidente questo vero: che, cioè, Carlomagno patrizio non pretese, non esercitò e non possedè giammai niuna sovranità sopra Roma o nello stato di san Pietro: dove il solo sovrano fu sempre il papa, di cui il patrizio era, e gloriavasi di essere, non altro che ministro, aiutatore e difenditore devoto in tutto e per tutto. Finalmente, l'autore passa a descrivere gli atti compiuti da Carlo in qualità di patrizio mostrando, cioè, in qual modo egli conferisse ed assicurasse al papato il possesso del patrimonio già a lui promesso nella celebre donazione, ovvero nel gran patto fondamentale del patriziato che avea stretto in alleanza intima e durevole i papi e la nuova dinastia de' re di Francia. Questi atti, e il costante zelo di Carlomagno in difendere ed esaltare la chiesa di Roma, e la potenza maravigliosa da lui acquistata in Europa, furono causa della gratitudine verso di lui de' pontefici e del, popolo romano, e gli fecero scala a quella dignità imperiale. con la quale il suo patriziato ebbe l'ultimo coronamento. (243

Bullettino della Società dantesca italiana: rassegna critica degli studi danteschi diretta da M. Barbi. Firenze, tip. di S. Landi, 1893, in 8o. Nuova serie, vol. I, fasc. 1.

Il Comitato centrale della società, deliberando già la publicazione di un modesto bullettino il quale dovesse uscire in luce a fascicoletti e in tempi non determinati, secondo l'opportunità, si propose, oltre a dar comunicazione de' suoi atti, di raccogliere documenti per la vita di Dante e contributi all' edizione critica e all'illustrazione delle sue opere, e di render conto oggettivamente, anno per anno, delle publicazioni dantesche che vanno in gran numero comparendo. La esclusione di ogni scritto di materia opinativa, la complessività di certe questioni che erano da studiare, le difficoltà incontrate nella preparazione e nella stampa di alcuni lavori, e qualche altra causa imprevista, produssero un po' d' irregolarità nella pu blicazione. Il desiderio espresso da parecchi soci e da insegnanti, di ricever più spesso notizie dčila Società e pronte informazioni intorno agli ultimi resultati degli studi danteschi, ha con sigliato al comitato centrale del sodalizio la publicazione di un fascicoletto mensile che con tenga la recensione critica dei lavori danteschi che via via escono in luce, qualche breve memoria sulla vita, sulle opere, sulla fortuna di Dante, e gli atti della Società, riserbando i contributi all' edizione critica delle opere e le memorie di una certa ampiezza a una serie di Studi danteschi da publicarsi, secondo l'opportunità, a periodi non fissi. (244

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Busoaino Campo Alberto. zione italiana. An. XX, no. 31).

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Dante e il potere temporale dei papi. [Recens. in Illustra

(245

Favorevole. Cfr. ni. 119 e 124. Castagnoli Luigi. La chiave per l'interpretazione del verso: «Si che 'l pié fermo sempre era 'l più basso». Prato, tipografia Giachetti, figlio e c., 1893, in 16o, di pagg. 11. Le diverse e svariate interpretazioni date a questo verso di Dante hanno avuto origine, secondo l'opinione del tenente Castagnoli, dall' aver sempre letto e pronunziato il vocabolo diserta coll' è aperta anzi che coll' é stretta: in quest'ultimo caso la parola significherebbe priva tanto di erta da perdere il carattere più o meno spiccato delle ordinarie salite. Solo

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