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Posto adunque come vero quanto fu da noi affermato sul tempo della composizione dei due soliti versi passiamo adesso ad osservare in qual modo più speciale essi si adattino alle accennate egloghe dantesche, cui s'ha da ritenere che il poeta rivolgesse la sua mira principale. è nostra intenzione il fermarci (ché troppo lunga cosa sarebbe) sul contenuto di cotali carmi responsivi a quelli di Giovanni appellato appunto del Virgilio per essere stato di quel poeta stu diosissimo, né sul quando furono scritti, e neppure sulla loro autenticità (la quale quindi riguarderebbe anco il fatto dell'essere stata conosciuta la Commedia, tuttora vivo il suo autore), poiché, oltre a non esser questo propriamente il luogo da ciò, sarebbe un ripetere cose già fatte note da critici egregi, i più recenti dei quali sono F. Pasqualigo e G. A. Scartazzini.1 Mostriamo solo che maestro Giovanni, avendo letto parte della Commedia, volle rallegrarsene con Dante, al quale indirizzò appositamente un carme latino, ma però lo redarguí perché avessela dettata nella lingua del volgo, anziché in quella dei dotti." L'Alighieri gli rispose colla sua famosa egloga Vidimus in nigris albo patiente lituris, ecc., col qual fatto gli fece intendere che, se aveva saputo bene adoperare l'idioma delle femminuccie, non per esso aveva però dimenticato la lin gua dei padri e segnatamente l'eletta forma di Virgilio, cui egli, non meno di lui, prediligeva, onde al suo stile e alla sua maniera aveva improntata quella sua medesima egloga responsiva. Come e quanto infatti in essa si gusti specialmente la prima delle egloghe virgiliane, è ben degno da notarsi. Nell'una e nell'altra poesia sono attori principali i pastori Titiro e Melibeo (sotto l'allegoria del primo dei quali si asconde il nome rispettivo di Dante e di Virgilio),3 i quali si stanno seduti al rezzo di un albero, e insieme che riguardano le loro caprette sparse per l'erboso campo parlano appunto di un carme. Però nell'egloga dantesca ricorre anco un terzo attore di nome Mopso, un altro pastore dal poeta posto in iscena sull'esempio di Virgilio. Gli argomenti, di cui trattano costoro, oltre del loro gregge, del come allevarlo, quali sieno i migliori pascoli, oltre dei loro dimessi canti (su cui, senza paragone, s'intrattengono viemaggior mente gli attori danteschi), toccano, a proposito del primo argomento, delle campagne, delle loro bellezze naturali, delle loro acque e simili, con una intonazione tale che ben rivelano la comunanza del loro stile ed ancor più dei concetti loro. Persino il finale dell' una egloga è ispi rato a quella dell'altra; laonde non è a dirsi come quel Et iam summa procul villarum culmina fumant virgiliano abbia evidentemente servito di norma al dantesco Parva tabernacula et nobis dum farra conquebant. Quanto quest'egloga sia stata magistralmente condotta sulla scorta del Marone, sta a confermarlo l'egloga responsiva del Del Virgilio, il quale, usando lo stesso metro buccolico, fra le altre cose esponeva:

Et mecum: Si cantat oves et Tityrus hircos

aut armenta trahit, quia nam civile canebas

urbe sedens carmen, quando hoc Benacia quondam

pastorale sonans detrivit fistula labrum?

Audiat in silvis et te cantare bubulcum.

Nec mora, depositis calamis majoribus, inter

arripio tenues, et labris flantibus hisco.

Sic, divine senex, ah sic eris alter ab illo:

(alter es, aut idem, Samio si credere vati est.) 5

1 F. Pasqualigo, Egloghe di Giovanni del Virgilio e di D. A., ecc. nuovamente vulgarizzate in versi sciolti e commentate pag. 10-3 (ediz. Gaspari, Lonigo, 1888) G. A. Scartazzini, Prolegomeni della d. C. cit. pag. 400 3.

• Come si sa, il carme del maestro bolognese incomincia: Pieridum vox alma, novis qui cantibus orbem, ecc.

3 In quanto al Melibeo dell'egloga dantesca l'anonimo contemporaneo annotatore di essa vuole intendere ser Dino Perini, gentiluomo fiorentino; ma «come potea egli ciò sapere », domanda giustamente il Pasqualigo? Non avendo ragioni incalzanti per accettare anco la spiegazione di que st'ultimo (cfr. op. cit., pag. 32, n. 7, e pag. 45 e segg., n. 6), non vogliamo credere essere quel Melibeo un pseudonimo di altro nome, medesimamente come di quello virgiliano, ma un nome ge nerico qualunque.

4 Buccolica, egloga V.

5 Cfr. l'egloga di Gio. del Virgilio a Dante, che comincia: Forte sub irriguos colles, ubi Sar pina Rheno, ecc.

2

3

va notato

I quali versi, svelandone l'allegoria, vogliono in conchiusione significare che Dante (Titiro) mediante la sua bellissima egloga seppe trarre a sé le pecore, i capri e gli altri armenti, onde lo si invita a comporne di consimili in bontà e naturalezza. Egli allora, vecchio divino, diverrà un secondo Virgilio, anzi lui stesso è, se s'ha da credere alla dottrina pitagorica. Come vedesi, maggior elogio non poteva fare maestro Giovanni all'Alighieri, il quale, aderendo all'invito di lui (di comporre cioè ancora altri carmi pastorali), alla sua volta gli rispose con una seconda egloga, non meno pregevole dell'altra per ispigliatezza di stile e per isvolgimento d'idee. Quali sieno gli argomenti svoltivi non è adesso il momento di esporli: ognuno li può conoscere da sé. 1 Quanta sia l'importanza di quelle due egloghe latine rispetto al risorgimento classico del medio evo fu già dimostrato dal benemerito storico delle lettere nostre, da Girolamo Tiraboschi, il quale a proposito cosí espose: "Dante Alighieri, che fu il primo a sollevare la poesia italiana a quello splendore di cui non avea fin allora goduto, fu il primo ancora che si accingesse a richiamare, come meglio poteva, la poesia latina alla antica eleganza. Due egloghe latine ne abbiamo...., le quali, benché siano di gran lunga discoste dalla grazia dello stil di Virgilio, mostrano nondimeno lo sforzo non del tutto infelice di Dante nel tenergli dietro....„ Fra i piú recenti scrittori, oltre il Carducci, il quale più che altro in quei ed altrettali carmi riconobbe con molta sapienza essere .... la infusione degli spiriti del medio evo in quelle forme classiche.... nuova cosa..., spiccato nelle barbarie di quel latino il piglio dantesco... . „ ; lo Scartazzini, il quale con non meno acume e con giudizio piú adatto al caso nostro, mostrò che "colle sue due egloghe Dante fece non solo intendere al suo giovine ammiratore, il quale gli rimproverava il suo poetare in lingua volgare, che, volendo, e' sapea pur cantare in versi latini, ma fece anche rivivere nella letteratura la poesia bucolica, morta sin dai tempi di Virgilio „ Ritornando ora all'argomento nostro, rileviamo dunque da tutto quanto è stato detto due cose di grandissima importanza, e cioè che Dante modellando le sue sulle egloghe virgiliane, seppe sí bene ritrarre il suo stile, che ben poté affermare nella Commedia (anche per questa parte soltanto) di aver tolto da Virgilio lo stile; che Dante, per la prima delle sue egloghe ritraendo grandi lodi da imaestro del Virgilio, ebbe ben donde per poter dichiarare nella detta Commedia che lo stile dal Marone tolto gli fece onore. Come vedesi quindi, questo e quel fatto ottimamente concordano tra loro, e non hanno certo bisogno alcuno di miglior riprova. Del resto, la ragione, per cui il poeta volle far quelle aperte confessioni, è ben chiara. L'essersi egli rivolto a studiare i classici della latinità, e sopra tutti Virgilio, l'essersene servito per le sue opere, tanto da toglierne, nonché imitarne la maniera ed anco i concetti, e l'averne infine già acquistati elogi, per lui costituivano una novella gloria, perché conosceva di farsi iniziatore di una nuova scuola, quale era appunto il risorgimento classico medievale. A tutto ciò avrebbero dovuto meglio porre mente i moderni commentatori prima di ricorrere a spiegazioni più o meno artificiose, per le quali non è a dirsi quanto spesso siasi cercato di stravolgere le parole di Dante, fra gli altri ben manifeste certo nel caso nostro.5

Pisa, settembre del 1894.

GIORGIO TRENTA.

1 La seconda egloga dantesca incomincia: Velleribus Colchis praepes detectus Eous, ecc.

2 G. Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, vol. XII, pag. 186 (ediz. Fontana, Mila

no,

1834).

3 Op cit., pag. 149.

Op. cit., pag. 402.

5 A proposito dei moderni dantisti vale il notar qui il commento sulla d. C. fatto dal ch. prof. G. Poletto ed ultimamente pubblicato, il qual commento, non curandosi in generale di portar in campo nuove argomentazioni (come nel caso nostro ne sarebbe il momento), di solito non si conduce se non servilmente dietro a quelli che lo precedettero, dei quali però trascura talora alcuni che pur non ne avrebbero il merito. In tale commento adunque vediamo ripetersi, riguardo ai versi che sopra, le stesse idee, già espresse dallo Scartazzini (cfr. op. cit., vol. IV, pag. 371-2) e dal Casini (cfr. il suo Commento alla d. C. in nota ai versi in parola, vol I, pag. 6-7) e da altri fra i più recenti, come se le spiegazioni loro in nessuna guisa fossero attaccabili. Le parole esposte dal Poletto in quanto alla seconda delle due terzine solite. sono le seguenti: ".... Avvertasi che di tre cose distintamente il poeta si dichiara debitore a Virgilio,

della dottrina o scienza (autore), dell'ispirazione poetica (maestro), e dell'arte (stile). Qui è chiaro che Dante attesta che nel 1300, quando al sacro poema non aveva posto ancor mano, egli s'era già nell'arte del dire acquistato onore; ma con quali opere? Se attendasi che nel canto seguente è dichiarato ch'egli usci della vulgare schiera per merito di Beatrice (Inf., II, 105); e si badi che nel c. IV (100-102) viene tanto onorato da' sommi poeti (però senza ancora esser divenuto famoso, Purg., XIV, 21), parmi doversi conchiudere, che lo stile, che prima del 1300 gli ha fatto onore, non possono per verun conto essere, come si affermò, le Egloghe o la Monarchia (e prima del 1300 erano esse scritte?), sibbene gli scritti giovanili, sovrattutto le canzoni, delle quali cosí si compiaceva, da allegarne tre nella Commedia (Purg., II, 112; XXIV, 51; Parad., VIII, 37). Però bene avverte il Casini, che nelle opere giovanili non essendo palese alcuna imitazione virgiliana (e pur questa dovendosi qui intendere), stile devesi qui prendere non già pel particolar modo di foggiare e di rendere il fantasma poetico, ma come l'intima corrispondenza ch'è tra la forma e il pensiero; corrispondenza che è precipua dote delle opere virgiliane e delle dantesche, pur serbando le une e le altre i proprii caratteri differenti, e inerenti al diverso ingegno dei due poeti. Per quanto risguarda Dante, di tale affermazione abbiamo una prova irrepugnabile nel Purg., XXIV, 52-54. Ma pure ammettendo in largo una certa imitazione di Virgilio, da lui prendendo il parlare ornato ed onesto (Inf., II, 67 e 113), Dante la seppe fare cosí, da mettersi vittoriosamente a capo della nuova letteratura, affermandone la forza e la futura grandezza (Conv., I, 13), dichiarando il supremo intento della poetica arte (Vita Nova, XXV), e, pur imitando, serbandosi altamente originale, cosí da trar fuori le nuove rime e il dolce stil nuovo (Purg., XXIV, 50-57), e della lingua e dell'arte scrivendo la Volg. eloq., (cfr. La div. Commedia di D. A., con commento del prof. G. Poletto vol. I, pag. 20-21, in nota: ediz. Desclée, Lefebvre e c., Roma, 1894). Dunque, secondo il Poletto e gli altri commentatori della stessa opinione, "stile qui devesi prendere non già pel particolar modo di foggiare e di rendere il fantasma poetico, ma come l'intima corrispondenza che è tra la forma e il pensiero, dunque, secondo costoro, le opere, in cui sentesi lo stile tolto da Virgilio, "non possono per verun conto essere........ le Egloghe o la Monarchia..., sibbene gli scritti giovanili, sovrattutto le canzoni,„, e questo perché fingendosi dal poeta essere avvenuta l'azione del suo poema nel 1300 e dovendosi quindi esso riferire a quell'epoca, prima di tal data solo furon composti la Vita Nova e il Canzoniere, mentre sappiamo che la Monarchia e le Egloghe furono indubbiamente dettate dopo. Se eglino si fossero ricordati di ciò che giustamente già esposero G. Todeschini (Scritti su Dante, vol. I, pag. 129 e segg.) e A. Bartoli (Storia della lett. ital. vol. VI, par. 2a, pag. 256), non avrebbero fatto gran caso del contrasto che v'è tra il tempo di composizione delle Egloghe (cui noi crediamo alludere principalmente i soliti versi) e il tempo in cui si finse accadere l'azione della Commedia, perché di tali anacronismi e contradizioni non è questo l'unico da osservarsi, avendosene purtroppo degli altri in quel poema, notati già da quei dotti scrittori. Ammettendo tal anacronismo (del resto parziale, secondo quanto già sopra esponemmo), e quindi ritenendo che i versi in quistione, conforme il già detto, o sono una interpolazione o un rifacimento di altri, per cui il poeta non badò più all'epoca fittizia del poema, se parrà lo stesso che tacciar lui d'incoerenza a sé medesimo in simil caso, però sarà sempre meglio questo che il cre dere le parole sue, quando sono chiare e spontanee (almeno qui), posseggano un senso diverso da quello che per la loro chiarezza e spontaneità appunto non hanno e né possono avere per piú di una ragione. Senza voler dire altro su quanto sopra espose il Poletto (e pur vi sarebbe motivo), terminiamo questa nota già abbastanza lunga, col dichiarare che Dante non è sí sovente oscuro come si vorrebbe, ma sono i commentatori che vi trovano ad ogni pié sospinto delle forme enigmatiche. Il commento di molti fra loro ai versi in parola, a noi sembra stia a dimostrarlo.

VARIETA'

IL CONCETTO DELL'UNITÀ POLITICA

IN DANTE ALIGHIERI.

Mon cher professeur,

D'abord Vous savez

Pourquoi me demandez-Vous d'écrire subito un article sur Dante? très bien que je ne suis pas trop intelligente; ensuite que je ne suis pas un écrivain de profession: et tertio que je ne fais rien subitement. Sachant toutes ces choses, pourquoi avez-vous promis à Mr. Passerini, sans me consulter, un article de moi? Quand il s'agit du Giornale dantesco, auquel collaborent les plus éminents dantophiles, il faut naturellement être sur ses gardes, et n'écrire que des choses tout-à-fait parfaites, par exemple comme votre article sur la Matelda, 1

Je remercie donc Mr. Passerini de l'honneur qu'il m'a fait en voulant me compter parmi ses illustres collaborateurs, et je ne Lui enverrai un article sur Dante que seulement alors que je le jugerai tout-à-fait digne de figurer dans une feuille dont il a la direction. Je suis très ambibitieuse.

Je dois Vous dire, mon cher Professeur, qu'en ce moment-ci j'étudie avec toutes les fibres de mon intelligence sur des plus grands poètes modernes : le portugais Anthiro do Quintal que je désire de toute mon âme présenter à mes compatriotes. Je suis plongée jusqu'aux oreilles dans la littérature lusitanienne, et mon pauvre Dante en souffre, bien que chaque matin en ouvrant les yeux je dois relire en guise de prière un des chants de l'immortelle Comédie.

A propos de Dante, j'ai eu dernièrement un long entretien avec un des avocats les plus distingués de Bucarest et professeur de droit à la faculté, M. Dixescu. Entre autres, il m'a dit avoir lu que Dante, dans un de ses écrits a exprimé l'idée de l'unité nationale de l'Italie. Vous qui connaissez Dante sur le tout des doigts ne sauriez Vous pas me dire quell' est l'oeuvre où le divin poète exprime l'idée de l'unité nationale, réalisée en notre siècle par le roi Galantuomo? Je sais que Dante dans son livre de la Monarchie établit que le développement du genre humain, dans l'ordre spirituel et dans l'ordre temporel, dépendant de la tranquillité que maintient la justice, la paix universelle est le premier des biens ordonnés pour notre béatitude. D'où il conclut que l'unité, étant la condition nécessaire de la paix, Dieu a préposé un chef unique à chacun de ces ordres; à l'ordre spirituel, le Pape, dont la fonction est de gouverner souverainement les âmes; à l'ordre temporel, l'Empereur, dont la fonction est de gouverner souverainement la société politique et civile, laquelle toutefois peut se diviser sous la juridiction en divers Etats constitués sous différentes formes. Est-ce, mon cher professeur, ce passage du rer

1 Accenna alla nota del prof. Mandalari su Matelda, edita a pag. 593 del vol. Purgatorinlú, traductiune cu note dupe principalii comentatori, de DOMNA MARIA P. CHITIU. Craiova, tipo-litografia nationale, Ralian si Ignat Samitca, 1888. Questa nota fu poi pubblicata in italiano (Roma, Pallotta, 1892).

Giornale dantesco.

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livre de la monarchie qui a fait croire et dire que Dante a eu l'idée de l'unité nationale telle que nous la comprenons aujourd'hui ?

Ou bien est-ce une des mille aberrations auxquelles a donné lieu la connaissance superficielle du grand penseur florentin. Il y a eu qui soutiennent que cet archicatholique est un précur seur de Luther! Quoi qu'il en soit ce cas m'intrigue, et j'attends de Vous des éclaircissements sur les croyances politiques du divino poeta. Vous m'écrirez, n'est-ce pas, longuement à ce sujet et immédiatement, car j'ai promis à mr. Disescu quelques notes sur Dante....

Craiova, 9/21 février, 1894

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MARIA P. CHITIU.

Ella mi fa troppo onore, amabile Signora, ed io La ringrazio sinceramente non solo dell'amore vivissimo, che porta a Dante, come appare dalla sua versione; ma anche del dubbio che move, intorno al quale molto si potrebbe scrivere, perché non poche sono state in proposito come al solito, le audacie de' comentatori.

A me pare, del resto, che il punto, sul quale Ella desidera de' chiarimenti positivi, non possa dirsi, in verità, controverso. Credo, in conseguenza, che Ella sia interamente nel vero.

All'unità politica della «dolce terra latina Dante non poté pensare. Se fu precursore e cooperatore dell'unità italiana, dando al volgare il sussidio del più grande monumento letterario moderno, non può dirsi ch'egli abbia voluto ridurre tutte le regioni ad unità politica, tale quale abbiamo noi ora; quale avremo, senza dubbio, un giorno, quando tutte le sparse membra saranno sottoposte allo stesso reggimento politico.

Dante volle, come tanti altri scrittori medioevali, l'integrità del Sacro Romano Impero; le due maggiori Autorità, come due grandissimi astri, Soli, assolutamente separate, indipendenti e concordi; onde, non preoccupandosi punto della varietà degli Stati e de' reggimenti politici italiani, volle nondimeno che lo Stato fosse autonomo e laico, secondo il concetto moderno. In quest'ultimo ideale, che è il carattere di Dante statista, credo stia appunto la grandezza e l'origi. nalità dello scrittore. Il quale, pure rimanendo attaccato al vecchio pregiudizio del Sacro Romano Impero, pregiudizio che fu per tanti secoli di ostacolo allo svolgimento del nostro pensiero nazionale; rimanendo anche attaccato al vecchio concetto della necessità storica del Papa e dell'Imperatore, che dovevano essere i due soli nell'orizzonte politico, rivela nondimeno un concetto nuovo e fecondo, che più tardi ebbe, in Italia e fuori, piena ed intera esecuzione nella nostra politica.

Sotto questo punto di vista può dirsi che veramente Dante abbia inspirato Lutero ed anche pensato, se piace, al re Vittorio Emmanuele; ché solo con l'affrancamento del laicato poté l'Italia avere finalmente Roma e porre entro i suoi giusti limiti, con una legge memoranda, l'esercizio della potestà spirituale del Sommo Pontefice.

L'unità italiana per le conseguenze religiose, ch'essa ha prodotto, se è stata l'ultima a costituirsi, è la più notevole di tutte, e dev'essere considerata ed esaminata con argomenti e ragioni interamente speciali. Lo storico del nostro risorgimento dev'essere in conseguenza pari alla grandezza dell'argomento, e non è ancora nato, sebbene l'unità politica sia oramai un fatto compiuto.

Il concetto dell'unità politica quale noi intendiamo ora; quale esso è veramente, deriva da una lunga e desiderata unificazione degli animi; da un affratellamento generato de' vari popoli inegualmente oppressi, ma sempre oppressi, e desiderosi, in ogni modo, d'indipendenza. E molto han giovato lo studio della lingua comune, le oppressioni de' dominatori, le tradizioni, sempre vive, di Roma, gli errori grandissimi del clero dominante dappertutto, tanto sulla reggia, che nelle campagne, ove il parroco aiutava la polizia ed indicava i colpevoli di patriottismo. Questa è pure storia vera, che non teme smentite.

Aggiungo che quasi tutte le regioni mostrarono abnegazione e disinteresse e grandissimo spirito di patriottismo. Ma il concetto dell'unità politica non è stato della maggioranza del popolo, di tutto il popolo italiano; esso è un prodotto letterario e non è più antico del Machiavelli, e non pare che siano stati monarchi, che vi abbiano aspirato, prima di Gioacchino Murat!

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