e mancassero i luoghi ov' egli dà prova invece d'intenderlo ad discretionem, spiegando, p. es. nel Conv., per intelligenze quelle che Platone chiama le idee! E quasiché, anche Dante non chiamasse Dee le gerarchie angeliche, e come Dii i beati! L'appunto da farsi al Costa sarebbe piuttosto ch'egli, mentre citava la opinione di Platone, dava poi a sustanzie sempiterne un significato che con quella opinione non aveva nulla affatto che vedere. Ma la ragione principale di escludere Platone e Aristotele e Pitagora e quanti altri filosofi si vogliano, per me è la seguente (prego chi mi fa l'onore di tenermi dietro, di farlo con un Dante aperto davanti). Interrogato da s. Giovanni qual era l'oggetto del suo amore, Dante risponde: è Dio. Interrogato poi, chi fece volgere l'amor suo a Dio, risponde: Per filosofici argomenti E per autorità che quinci scende Cotale amor convien che in me s' imprenti. E qui egli sfodera prima, in tre terzine, i filosofici argomenti, che riduconsi al seguente sillogismo: il bene suscita amore, quanto piú il bene è grande: Dio è il sommo bene: dunque Dio suscita pure il sommo amore. Viene poi (lasciando la maggiore che forse gli pare evidente) a provare la minore, essere Dio sommo bene, minore ch'egli chiama Lo vero in che si fonda questa prova; e lo fa (con una forma di simetria a lui frequentissima) mediante tre altre terzine; nella prima delle quali chi ciò prova è Colui che mi dimostra il primo amore, etc., nella seconda, un autore del vecchio Testamento, nella terza, uno scrittore del nuovo. Come c'entrerebbero dunque Platone ed Aristotele? Si possono questi classificare come autorità che scende dal cielo (v. 26)? come autorità concorde all' intelletto umano (v. 47)? Ma si dirà: Dante qui non è ancora entrato a parlare dell'autorità che quinci scende; egli è ancora nei filosofici argomenti. Impossibile, giacché quello ch'egli addurrebbe di Platone o di Aristotele non sarebbe mai un argomento, ma semplicemente un' autorità, e Dante qui non parla di altra autorità se non di quella che viene dal cielo. Ed eccomi cosí condotto a malincuore a concludere anche contro la opinione dall' egregio Filomusi manifestata, che Colui che mi dimostra, etc., sia il Sole. Si può egli forse il Sole chiamare un'autorità che scende dal cielo, un autorità concorde all'intelletto? O lo si dovrebbe forse collocare fra gli argomenti? In tutte le maniere, per me sarebbe sempre un po' forte da intendere; come lo sarebbe anche che il Sole, ciò che pur vedemmo reputarsi da l'autore necessario per le altre interpretazioni, desse non una mera indicazione, ma una rigorosa dimostrazione dell'essere Dio sommo bene. Il Filomusi, prendendo il primo amore Di tutte le sustanzie sempiterne come una semplice perifrasi in luogo di Dio (supposto a che lo stile di Dante nulla ha veramente che si opponga), viene a dire che l'essere Dio sommo bene gli viene dimostrato da quello stesso che gli dimostra l'esistenza di Dio; giacché, come il Sole con la sua forza e bellezza, e l'armonia de' suoi movimenti dimostra l'infinita sapienza e potenza di chi lo ha creato, cosí coi benefici effetti che produce ne dimostra pure la immensa bontà. Tutte cose bellissime; ma sono a luogo loro? e se anche Dante avesse scritto, come vuole l'autore: Che Dio sia sommo bene me lo appiana allo intelletto quello stesso che me ne dimostra l'esistenza; sarebbe discreto pretendere che chi legge corra a pensare che questo tale sia propriamente il Sole? O chi dunque allora dovrebbe essere? Io non lo dirò assertivamente, perché, come premisi, mi manca il tempo di appurarlo; ma tutto mi fa propendere nell'avviso di quello, o quelli, non so, che votarono per Dionisio l'areopagita, il creduto autore della celeste gerarchia, colui che Dante colloca frai sapienti al X, 115 di Paradiso, e sulla scorta del quale al XXVIII, 130 egli corregge un errore commesso nel Convito circa la enumerazione dei cori angelici (una volta si occupavano anche di queste correzioni!). Da tutto ciò è ben lecito arguire che scrivendo il Paradiso egli ne fosse ancora fresco di lettura; e quindi in tale disposizione di mente da fargli ritenere che la sua perifrasi dovesse a tutti riescire cosí evidente come era a lui quando la dettava. A questo modo egli verrebbe in conclusione a dire: Che Dio sia sommo bene me lo mostra Dionisio, descrivendomelo come primo amore di tutte le gerarchie angeliche; me lo mostra Mosè che facendo parlare Dio gli mette in bocca le parole: Ostendam tibi omne bonum; me lo mostri tu stesso, o Giovanni, il cui Vangelo non è dal principio alla fine che una continua glorificazione dell'amor di Dio del quale per ciò appunto sei divenuto figura. Egli verrebbe cosí ad associare all'autorità del vecchio e del nuovo Testamento quella dei Padri della Chiesa, compenetrati nell' Areopagita; al modo quasi che nel V, 77 di Paradiso egli vi aggiunse invece quella del Pastor della Chiesa che vi guida: e non vi sarebbe veramente nulla di singolare né di straordinario. Vi si opporrebbe bensí quello che disse l'autore, doversi in tutte le sustanzie sempiterne, comprendere anche i cieli. Ma a ciò in parte già risposi; ed ora vi aggiungo, che anche la parola sustanzia (come tante altre e in Dante e nella lingua in genere) si può ben prendere vuoi in senso largo, vuoi in senso ristretto: e nel primo, sustanzia sempiterna (cioè immortale) potrebbe comprendere anime, angeli e cieli, nel secondo potrebbe, per antonomasia, a seconda che il senso lo richieda, applicarsi ad una sola di queste tre categorie; come per beate anime soltanto s'in tendono le novelle sussistenze del XIV, 73 di Paradiso, per angeli o per cieli (i comentatori non s' accordano) le nove sussistenze del precedente XIII, 59. Un'altra difficoltà a intendere Dionisio, ma che si presenta piuttosto quale argomento favorevole al suo preferito Aristotele, muove il Venturi; ed è, che “citando prima un autore gentile, e seguitando poi coll'autorità sacra, Dante viene insistendo nella proposta partizione: Per filosofici argomenti E per autorità che quinci scende Ma oltre che ciò non dà nessun motivo prevalente per collocare Colui che mi dimostra, etc. piuttosto con gli autori gentili che con le autorità sacre, io mostrai non potersi dire filosofico argomento l'allegazione di un passo di Aristotele: passo che, tra parentesi, i comentatori non sanno poi nemmeno precisare quale sia; che dimostri, intendiamo, Dio essere sommo bene; che è appunto il quod demonstrandum. A ciò, non è a negarsi, riesce meglio Platone, scovato dal Lombardi, in quel suo passo del Convito... perspicuum esse aio, Amorem, Deorum omnium antiquissimum augustissimumque esse; con che, volendo adattare Platone alla teologia, Dante verrebbe a dire, Amore essere la prima di tutte le divine prerogative; e poiché Dio sostanzialmente ama, cosí sostanzialmente deve essere amato (il concetto, in fondo, dei noti Amor che a nullo amato amar perdona, Inf., V, 103, e Amore Acceso di virtú sempre altri accese, Purg., XXII, 11). Ma per ingegnosa che fosse, non cesserebbe anche questa versione di essere meno congrua col ragionamento, il quale, come vedemmo, non richiede che Dio deva essere amato, ma che Dio sia sommo bene. Che Dio deva essere amato, ci arriva Dante, ma da sé, per mezzo dei filosofici argomenti. Rimane contro Dionisio la obiezione del Lombardi: che malamente darebbesi agli scritti di lui luogo anteriore all'Esodo o al Vangelo. Ma anche qui io domando. O se Dante voleva proprio citare Dionisio, dove lo dovea mettere? Se si va in linea d'importanza, e si procede dal meno al piú, egli si troverebbe precisamente al suo posto. E al suo posto si troverebbe anche guardando al contenuto degli autori citati: prima Dio, sommo bene degli angeli; poi Dio, sommo bene per gli uomini della vecchia legge; da ultimo Dio, sommo bene per gli uomini della nuova. Non so se in questa esumazione di una interpretazione dimenticata avrò meco la maggioranza dei lettori: né lo presumo, mio scopo non essendo che di provocare sull'argomento una indagine più profonda. Al Filomusi in ogni modo rimarrà sempre il merito di avervi aperta la strada, sgombrandola dalle interpretazioni che fin qui tenevano il campo: e si sa che in letteratura come in milizia, le avanguardie, se anche non colgono la palma, la preparano e ne dividono la gloria. FERDINANDO RONCHETtti. Francesco d'Ovidio, Della topografia morale dell'“Inferno, dantesco: a proposito di una recente pubblicazione. (Nella Nuova Antologia, fasc. del 15 di settembre 1894, pagg. 193-210). Il D'Ovidio scrive: "Fino alla città di Dite se si prescinde dagl' ignavi dell'Antinferno, che non entran nel conto, e dagli abitatori del Limbo, che non son veri dannati non si trovano puniti se non peccati mortali, e soli cinque di essi lussuria, gola, avarizia, ira, accidia.... Dei due peccati che rimarrebbero da smaltire, la superbia e l'invidia, non si fa parola.... Ma come nel Purgatorio c'è, e suppergiú con la stessa gradazione che nell' Inferno, la lussuria, la gola e via via, cosí anche nell' Inferno ci devono essere l'invidia e la superbia, le quali anzi sɔno.... le capitalissime tra le colpe capitali ... i peggiori e i capostipiti dei sette peccati mortali : essi adunque devono "tener la parte peggiore,, dell' Inferno, la città di Dite. Osservo, in primo luogo, che l'A. sembra confondere i vizii capitali che sono sette, con i peccati mortali, che sono in numero molto maggiore; in secondo luogo, che accanto alla superbia, “initium omnis peccati,,, secondo l' Ecclesiastico, o "regina omnium vitiorum,,, secondo s. Gregorio, va collocata, come seconda colpa capitalissima tra le capitali, o, se si vuole, come secondo capostipite, non l'invidia, ma l'avarizia, “radix omnium vitiorum,, come scrive s. Paolo. 3 Inoltre l'invidia è “tristitia de alienis bonis,,, e la tristitia è passione ; dunque arbitrariamente avrebbe Dante esclusa l'invidia dalla compagnia degli altri peccati d'incontinenza che son puniti fuori della città roggia. "Se fuor di Dite avesse Dante già spesi tutti e sette i peccati capitali, come avrebbe potuto poi continuare con nuove categorie di dannati, senza offendere gl'insegnamenti della Chiesa? Il D'Ovidio chiama "veramente formidabile,, quest'obiezione alla ipotesi di coloro, che ritengono tutt'i peccati capitali esser puniti fuori della città di Dite. Che non tutti i sette vizii capitali sieno puniti fuori della città di Dite, è verissimo: ma l'obiezione formidabile è ben altra: come poteva Dante punir tra i peccati d'incontinenza la superbia, che è peccato di malizia? "In aliis peccatis homo a Deo avertitur vel propter ignorantiam, vel propter infirmitatem, sive propter desiderium cujuscumque alterius boni: sed superbia habet aversionem a Deo ex hoc ipso, quod non vult ejus regulae subjici „. “ Quanto poi all'obiezione del D'Ovidio (come a quella del Comello, che è qualcosa di simile), si risponde, che, se anche il poeta avesse collocati fuor di Dite tutt' e sette i vizii capitali, avrebbe poi potuto benissimo continuare, destinando ai cerchi inferiori quei peccati che dai sette capitali hanno origine ("vitium capitale dicitur ex quo alia vitia oriantur,,). Non è qui il caso di fare una compiuta analisi di tutti i peccati puniti ne' quattro ultimi cerchi: accennerò solo, che l'eresia "oritur ex superbia vel cupiditate „; che lo stupro e la sodomia hanno origine dalla lussuria; 10 e, infine, che sei delle sette figlie, che s. Gregorio assegna all'avarizia (“proditio, fraus, fallacia, periuria, inquietudo, violentia,,) occupano tutto il 9o cerchio e gran parte del 7° e dell'8°. 7 8 11 Ma su questo concetto, che, oltre i sette capitali, la Chiesa non distingua altri peccati, il D'Ovidio c'insiste con tutta l'arte del suo bello stile, e piú volte ci torna sopra in tutto il suo scritto. "Attenendosi fino in fondo alla sintetica classificazione criminale della Chiesa, che nella sua asciutta semplicità non si prestava a rinfrangersi in molte sfumature ed era acconcia a peccati appunto semplici, come la gola, l'ira e simili, egli si sarebbe sbrigato troppo presto, e preclusa la via ad empire tutte le carte or ite alla sua prima cantica „. E che cosa sono i tanti peccati, la cui trattazione è sí gran parte di voluminose Somme teologiche, se non appunto sfumature, per dirla col D'Ovidio, de' sette vizi capitali? Altro che asciutta semplicità; ed altro che sbrigarsi troppo presto: ci voleva Dante, per compendiare tanti peccati, quanti i teologi ne distinsero, in una sintesi cosí meravigliosa, come quella contenuta nella prima cantica della Commedia. แ "Sicché, in fin de' conti, ripete il D'Ovidio, a una sola possibilità siam ridotti che in n 1 La stessa ipotesi han pure sostenuta il Comello (Nota al c. VIII dell'“Inf., dant., in Biblioteca delle sc. it. del 1o giugno 1893) e lo Scartazzini nell' ediz. min. del suo Commento (Milano, Hoepli, 1893). 2 X, 15 - Cf. S. Tomm., Summa, I, II, Q. LXXXIV, art. 2o. 3 I, ad Timoth. Cf. S. Tomm., ivi, art. 1o. S. Tomm. ivi, Q. XXXVI, art. 1o. 5 "passiones terminantur ad delectationes et tristitias, ut patet per philos. in 2 Ethic, Summa, II, II, 9. CXVIII, art. 6o. S. Tomm., Summa, II, II, Q. CLXII, art. 6o. དད་ S. Tomm. 11 S. Tomm., Su uma, II, II, 9. CXVIII, art. 8, ove s. Tomm. dimostra che alla classificazione di s. Gregorio si riducono anche quelle d'Isidoro e d'Aristotile. སུ tutta la Città siano puniti, sotto forme derivate, i due peccati ultimi „,, cioè la superbia e l'invidia: "Dante ne fa come un complesso peccaminoso,.... e lo dirama in tante specialità. Che in una di tali specialità, presa in sé medesima, come p. e. il lenocinio, non si possa subito toccar con mano né la superbia, né l'invidia, non vuol dir nulla; e chi si sgomentasse di ciò mo strerebbe d'ignorare affatto il metodo teologico in simil materia, e tutte le filiazioni indirette e ulteriori, attenuate e degenerate che esso sa dedurre da un primo prototipo o disposizione peccaminosa Bellissime parole; ma molto meglio sarebbe stato il dirci secondo qual "metodo teologico, il lenocinio derivi dalla superbia o dall' invidia, e dimostrare che Aristotile, Isidoro, s. Gregorio e s. Tommaso vaneggiarono, insegnando che il pasci de meretricio, come scrive Aristotile, o l'appetitus turpis lucri, come scrive Isidoro, il lenocinio, insomma, appartiene all'avarizia,1 non all' invidia, né alla superbia; e dimostrare altresí che l'avaro seno de' Bolognesi, di cui parla Dante, a proposito del ruffiano Venedico, sia tutt' uno che superbo o invido seno. Perciò a un dato punto il poeta "muta maniera, abbandona la falsariga teologica, e.... s'attacca alla classificazione etica d' Aristotile.... A non tenersi stretto stretto al settemplice colore dell'iride criminale ecclesiastico, egli aveva, anche fuor de' motivi schiettamente estetici, ottimi pretesti d' indole storica e filosofica, Quanto ai motivi estetici, cioè al non prestarsi la classificazione della Chiesa “a rinfrangersi in molte sfumature ho già dimostrato non esser esatto: quanto ai pretesti d'indole storica e filosofica, i pretesti, anche se ottimi, son sempre pretesti, e non s'ha diritto di credere che Dante se ne facesse guidare nella costruzione morale del suo inferno. "L'inferno, preesistente al Cristianesimo, era cosa già nota ai pagani, e benissimo gli s'affaceva una spartizione non meno filosofica, che teologica, non men desunta dalla morale classica, che dal catechismo cattolico,,. Ma quel tanto della morale classica, che era conciliabile col cattolicesimo, Dante, cattolico e teologo, lo trovava già ne' teologi, e segnatamente in san Tommaso non c'era quindi ragione che dagli uni, e, segnatamente, dall'altro avesse a discostarsi : dirò meglio, avrà potuto discostarsene in qualche questione accessoria, ma non fino al punto, p. es., di considerare il lenocinio come derivante dalla superbia e dall' invidia, e non dall'avarizia; anzi, addirittura, fino al punto "di addossare tutti i veri e proprii delitti alla superbia e all'invidia, quando è evidente che molti, la maggior parte di essi, derivano dagli altri vizii capitali. Nè mancano, nello scritto del D'Ovidio, altre inesattezze teologiche. Per es., nel purgatorio, almeno in quello di Dante, che altro si purga, di grazia, se non peccati mortali?, Forse il D'Ovidio deve quest' inesattezza al Balbo (che ricorda ad altro proposito col titolo di magnanimo): nel Purgatorio, scrive il Balbo, " sono purgati i sette peccati mortali, superbia, invidia, ira», ecc. Ma se il peccato mortale è quello che "damnationem moeretur come scrive santo Agostino, esso non può trovarsi che nell'inferno; e dovrà invece trovarsi nel purgatorio il peccato veniale, che, come scrive lo stesso sant'Agostino, non moeretur damnationem,, .3 Al qual proposito giova ricordare, che " omne peccatum per poenitentiam fit veniale Benissimo dunque aveva scritto il Landino:5 “Al purgatorio vanno quelli che sono rimasi in peccati veniali Parimenti, è inesatto il dire, che "nei cerchi anteriori a Dite l'aristotilismo fa appena capolino in quell'accozzo, nel medesimo cerchio, dell'accidia con l'opposto peccato dell' ira„. Dov'è l'aristotelismo in questo che il D'Ovidio chiama accozzo, se l'ira e l'accidia si trovano riunite in uno stesso cerchio, per essere tutt'e due, secondo i teologi, peccati di tristitia? dov'è l'aristotelismo, se l'accidia è "tristitia de bono spirituali divino „,, e questo bene non è da Aristotile compreso tra le cose, intorno a cui si può peccare d'incontinenza? Inoltre, il D'Ovidio scrive, che l'ira è peccato opposto all'accidia: ma ciò non l'insegnano né Aristotile, né san Tom. maso: non l'insegna Aristotile, che d'accidia non fa motto; e non l'insegna san Tommaso, che, scrivendo "defectus irae absque dubio est peccatum „, ed “etiam defectus passionis irae est 6 vitiosus,,, il defectus irae, e non l'accidia, dové ritenere che fosse il peccato opposto all'ira. - E a proposito di peccati opposti, il D'Ovidio, in una nota, dopo riferiti i versi 49-54 del c. XXII del Purg., (E sappi che la colpa che rimbecca, ecc.) 2 scrive: "qual potrebb'essere il peccato opposto alla gola o alla lussuria? È chiaro che il poeta diè forma generica al principio, ma colla restrizion mentale che in un caso solo avesse applicazione. Or sentiamo san Tommaso: "Peccatum proprie nominat actum inordinatum .... Habet actus humanus quod sit malus ex eo, quod caret debita commensuratione,, 3: d'altra parte, "passiones secundum se non sunt peccata,, ; dunque esse diventano peccato quando trasgrediscono l'ordine e la misura naturale. E poiché quest'ordine e questa misura possono trasgredirsi cosí per eccesso, come per difetto, ne segue che anche la lussuria e la gola debbano avere la loro antitesi tra i peccati. Infatti, lo stesso san Tommaso scrive: "omne illud, quod contrariatur ordini naturali, est vitiosum. Natura autem delectationem apposuit operationibus necessariis ad vitam hominis. Et ideo naturalis ordo requirit, ut homo in tantum delectationibus utetur, quantum necessariam est saluti humanae, vel quantum ad conservationem individui, vel quantum ad conservationem speciei. Si quis ergo in tantum delectationem refugeret, quod praetermitterat ea, quae sunt necessaria ad conservationem naturae, peccaret, quasi ordini naturali repugnans. Et hoc pertinet ad vitium insensibilitatis Quanto poi alla restrizione mentale, di cui parla il D'Ovidio, a dir la cosa in buon volgare (tanto più che la restrizione mentale si riferisce a una promessa o a un giuramento; e qui non è il caso), si riesce a questo: Dante una cosa scrisse, un'altra ne pensò. Ed è mai possibile? Che, se alcuno obiettasse: o perché dunque solo a proposito dell'avarizia fa menzione del peccato opposto? risponderei, che, d'ordinario, circa le passioni, si pecca assai piú per eccesso, che non per difetto; e che solo nel caso dell'avarizia e della prodigalità i due peccati opposti sono egualmente comuni: anche san Tommaso, là dove scrive che "vitia, quae differunt secundum superabundantiam et defectum, sunt contraria cita l'esempio piú segnalato: “sicut illiberalitas prodigalitati „ .6 5 Per non varcare di troppo i limiti concessi a una recensione, riassumerò con la maggiore brevità e senza commenti il resto dello scritto del D'Ovidio. Premesso che "la malizia dev'esser davvero nell' un verso in senso generico, nell'altro in senso tecnico che "la violenza corrisponde alla bestialità, secondo Aristotile la specifica,,, e che "la vera malizia è giusto la frode,,, il D'Ovidio passa ad esaminare lo scritto del Fraccaroli, Il cerchio degli eresiarchi, pubblicato nella Biblioteca delle scuole classiche italiane (fasc. del 1o giugno 1894). Il Fraccaroli concludeva che nella partizione dell'XI canto dell' Inferno il poeta omise il Limbo, perché "quella partizione compendia solo la morale umana mentre il Limbo e il 6° cerchio "li aggiunge la morale divina. Queste di per sé sole non sono, direi quasi, vere e proprie colpe, ma sono difetti dei presupposti necessarii per salvarsi, l'uno involontario, e perciò non punito con tormenti, l'altro deliberato, e perciò gravemente punito,,. Il D'Ovidio giudica sottile quest'argomentazione; ma non vi s'accorda completamente; ed aggiunge:,, Un tanto di bestialità, il Boccaccio avrà ragione, il poeta dové avergliela, (agli eretici) “tacitamente aggiudicata; e il silenzio si potrebbe forse coonestare con ciò, che presi cosí in mezzo tra gl' incontinenti già finiti fuor della città, e i prossimi cittadini certamente bestiali, doveva parer facile il classificarli. Forse, non saputosi risolvere che anche del peccato ereticale sia fine l'ingiuria, lasciò la cosa in penombra, facendo che il lettore argomentasse alla meglio da sé, e collocò la discussione teorica alla estremità del cerchio, appunto per lasciarselo alle spalle, e non parlarne piú. Ma ardua cosa è chiosare il silenzio, e la chiosa mia non pretende di surrogarsi all'altrui, ma solo di mostrarne la S'intende, con le debite distinzioni. Cf. S. Tomm., ivi, Q. CLVIII, art. 8o. S. Tomm., Summa, I, II, Q. LXXI, art. 1o. |