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stotele il filosofo cui piú largamente attinsero i padri della Chiesa e gli scolastici, cosí, molto probabilmente, una ricerca minuziosa e paziente ci farebbe trovare in qualche padre della Chiesa, o in qualche scolastico, o fors❜anco in qualche classico latino, la citazione platonica.

C., II, c. 5, Dante cita Platone senza indicare l'opera, ed afferma ch'egli pose tante intelligenze quante sono le spezie delle cose. Anche Aristotele nella Metafisica XI, 3, enuncia questo principio di Platone quasi colle stesse parole. «Per il che non disse male Platone, che vi sono le specie ossia le idee di tutte quelle cose che in natura sono

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Al C., IV, 6, Dante afferma che per Platone il fine della vita è la virtú; mentre nel Timeo, 90, questi ci dice che solo la sapienza dà il bene supremo. Evidentemente Dante quando fece questa affermazione non aveva presente il Timeo, ma qualche passo di un padre della Chiesa o di uno scolastico in cui si rammentasse il Protagora, 25, dove si dimostra che la virtú è scienza. Quanto all'epistola X, 29: "Multa per intellectum videmus quibus signa vocalia desunt, quod satis Plato insinuat in suis libris osserviamo che questo concetto non può derivare dalla lettura del Timeo, giacché in esso di ciò non si tratta mai.

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Platone è pure citato nel IV del Paradiso, 22-25; ma la teoria platonica dell'anima è ampiamente esposta da Aristotele nel De anima, I, 2.

Anche adunque questo secondo gruppo di citazioni ci spinge a credere che Dante conoscesse Platone attraverso Aristotele ed i padri della Chiesa senza aver mai letto il Timeo, specialmente per ciò che abbiamo osservato nel Convito ai passi III, 9 e.IV, 6.

Ed ora veniamo a due casi, nei quali Dante cita il Timeo.

Al capo IV, t. III del Convito, leggiamo che " Platone scrisse, in un suo libro, intitolato Timeo, che la terra col mare era bensí il mezzo di tutto, ma che il suo mondo tutto si girava attorno al suo centro, seguendo il primo movimento del cielo; ma tarda molto per la sua grassa materia e per la massima distanza di quello; ma queste opinioni sono riprovate per false, nel secondo di Cielo e Mondo da quello glorioso filosofo, al quale la natura piú aperse i suoi secreti e per lui fu provato che questo mondo, cioè la terra, sta in sé stabile e fisso in sempiterno». Al c. 40 del Timco, Platone dice infatti che la terra è posta nel centro dell'universo, e che produce e guarda il giorno e la notte. Al capo 60 parla Platone dei vari cambiamenti subíti dalla terra per forza del caldo e del freddo; ed al 24, b, mostra come la terra sia in varie parti divisa, come deve essere anche la società. In nessun altro luogo parla il Timco della terra e certo Dante non ha da esso presa la seconda parte del giudizio che egli attribuisce a Platone. Ora Aristotele al c. 13 lib. II del del De coelo, confuta l'opinione di Platone che la terra si muova e spesso, come al 4, IV del De coelo, mostra come la terra sia pesantissima. Dante attribuí un'asserzione aristotelica, che gli pareva logica, vera, spontanea, a Platone, cosa che non avrebbe certamente fatto, se avesse letto il Timco. Si noti poi che Aristotele, confutando l'affermazione platonica,

cita il Timeo senza però mettere il numero del capo come Dante. Nel Parad., IV, 49, Beatrice dice:

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Fa maraviglia il vedere questa titubanza in Beatrice, la sapienza divina, che possiede la verità, che quindi non può essere indecisa; che abitualmente tratta con superiorità e con indulgente disprezzo e spesso con schiacciante ironia le opinioni di tutti coloro che da lei discordano, e che nel Paradiso esclama (XIX, 79):

e più sotto, all'85:

Or tu chi sei che vuoi sedere a scranna

e giudicar da lunge mille miglia
con la veduta corta di una spanna?

O terreni animali, o menti grosse.

Davvero non ci potremmo spiegare tale indecisione, se non ammettendo che Dante sia venuto a cognizione di quanto dice Platone a questo proposito nel Timeo, attraverso qualche intermediario che n'abbia adombrata la verità, e resa difficile l'interpretazione, giacché poche teorie sono esposte cosí chiaramente nel Timeo, come questa del ritorno delle anime ai loro astri.

Anche questi due passi, che hanno indotti i critici di Dante a credere che il divino poeta abbia letto il Timeo, mi pare non giovino affatto alla loro tesi. Sarebbe inoltre veramente strano che Dante, avendolo letto, solo in questi due casi lo citi, mentre ci siamo spesso imbattuti in passi danteschi che col Timeo concordano. Ora, se Dante lesse il Timeo, come si spiega che, quando enuncia una teoria di Aristotele ne cita l'opera ed il libro espo nendone la traduzione quasi letterale, mentre per Platone solo due volte indica l'opera senza mai accennare al capo, e ne espone i principî in modo cosí indeterminato e difettoso? E perché dà ad Aristotele il titolo di maestro ed a Platone no? Noi sappiamo che Dante chiama suoi maestri coloro le opere dei quali egli ha studiato con cura, e furono tali Virgilio, Aristotele e Brunetto.

S'egli avesse avuto tra mano l'opera di Platone egli l'avrebbe studiata con grande amore, giacché la filosofia platonica tra le antiche è la più affine alla dantesca.

E se Dante, come giustamente dice il Caverni scrivendo al Terrazzi, è platonico non solo nella forma, ma anche nel contenuto, come mai, se avesse potuto studiare direttamente Platone, si sarebbe tenuto cosí stretto alla prosa fredda d'Aristotele, come mai avrebbe dato a costui il titolo di filosofo dei

L

TIMEO

filosofi, di maestro di color che sanno, di conducitore delle genti (C., IV, 1) non concedendo a Platone altro che quello di uomo eccellentissimo (C., II, 4) anzi dichiarandolo inferiore allo Stagirita (Inf., IV, 134)?

E si pensi che il concetto della forma vera della terra, e del trarre che fanno i gravi al centro gli venne da Platone, il che né da Aristotele né dalla filosofia del suo tempo va ammesso, tanto che alcuni commentatori poco diligenti vollero fare del divino poeta un precursore di Newton. D'altra parte, se Dante lesse il Timeo, come mai non rivendicò questa teoria al grande filosofo? E come mai Dante, tanto affine d'idee e di sentimenti a Platone, come lui altamente poeta in ogni sua filosofica concezione, seguí l'andazzo del suo tempo d'elevare Aristotele sopra Platone? (Inf., IV, 134; Purg., III, 43). Certo se Dante avesse letto un'opera qualsiasi di Platone, ne sarebbe rimasto tanto entusiasta, l'avrebbe trovata cosí conforme allo spirito suo, vi avrebbe tanto appreso, che forse invece di Virgilio, Platone gli sarebbe stato compagno nel suo viaggio attraverso i regni dei morti.

Dopo tutte queste osservazioni non mi sembra soverchia arditezza l'affermare che Dante non lesse alcun'opera platonica né nel testo, né nella traduzione.

Non ammettendo che Dante abbia letto Platone, si può benissimo spiegare il suo platonismo pensando che egli studiò certo le opere di quei convinti neoplatonici cristiani, che furono s. Agostino, s. Anselmo, e s. Bonaventura, (Ved. Vito Fornari, Sul Convito di Dante Alighieri in Dante e il suo secolo, 443) le quali sono specialmente informate a Platone (Boezio, De cons. Phil., I, 3; III, 9; V, 5; S. Agostino, De civ. Dei, VIII, conf. 7, 9; S. Bonaventura, Mag. sent., II, 1).

Il Paganini, nello studio del quale abbiamo già fatto cenno, dice: «assai meno (dell'aristotelismo) avrebbe pregiudicato alla perfezione del sacro poema lo studio che Dante avesse posto nel platonismo, piú poetico dell'aristotelismo perché piú concorde alla verità.

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L'idea è ardita, ma ciò nullameno vera. Se l'Alighieri avesse studiato Platone, certamente egli sarebbe stato piú filosofo e meno scolastico; e il suo poema, non guasto dalla fredda prosa aristotelica, piú armonioso e piú continuo.

Milano, febbraio 1895.

L. MARIO CAPELLI.

FIGURE DANTESCHE

Ciacco, Filippo Argenti, Farinata, Guido Cavalcanti e Pier delle Vigne.

I.
CIACCO.

La seconda figura, che ci si presenta piú giú, è Ciacco: chi si fu costui? E' Boccaccio cosí provvide alla bisogna: "Un gentiluomo fiorentino, pieno d'urbanità e di motti faceti, il quale, conciossiaché poco avesse da spendere, usava sempre con gentili uomini e ricchi, e massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e bevevano, (Com. alla divina Commedia).

Era, dunque, un burlone, un parassita dalla schiena flessibile, a cui piacevano le laute mense, e che perciò, a furia di facezie, andava scroccando pranzi da' signori, amici suoi.

Il Fraticelli nota che, a Firenze, havvi tuttora la famiglia Ciacco. Ma, v'ha chi crede che quel nome si desse comunemente a' porci e, in ispecie, a' maiali, che s' ingrassano per far loro la festa in carnevale. Quel nome sarebbe, dunque, un simbolo di tutti i crapolonied ubbriachi, che, gozzovigliando, traggono vita stomachevole, fangosa.

Ed egli e me: la tua città, ch'è piena
d'invidia sí, che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi, cittadini, mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa della gola,
come tu vedi alla pioggia mi fiacco:
Ed io, anima trista, non son sula:

ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa. E più non fe' parola.

(Inf., VI, 49-57).

Il tormento, cui sono sottoposti, è cosí descritto da Dante:

Io sono al terzo cerchio della piova

eterna, maledetta, fredda e greve:
regola equalità mai non l'è nuova.
Grandine grossa ed acqua tinta e neve
per l'aer tenebroso si riversa:
pute la terra, che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra

sovra la gente che quivi è sommersa.
Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra,
e 'l ventre largo, ed unghiate le mani;
graffia gli spirti, gli scuoia ed isquatra.
Urlar gli fa la pioggia come cani:

dell'un de' lati fanno all'altro schermo ;
volgonsi spesso i miseri profani.

(Ivi, 7-21)

I crapuloni, di fatto, dicono che in tre modi si mangia: prima con gli occhi, sedendo a tavola bene imbandita; poi col naso, pregustando il buon odore delle vivande; da ultimo con la bocca, empiendone l'epa infino al gozzo, mentre la musica allieta i commensali. E tutti i sensi sono mortificati dal poeta, il quale, in forma indiretta, par che cosí dicesse a' golosi: Vi piacevano le mense bene apparecchiate? ora, la vostra imbandigione è questo fango. spumanti di vino eletto?

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Ed, Vi piacevano i calici Ed, ora, bevete di quest' acqua tinta o Vi piacevano i succolenti manicaretti? Ed, ora, mangiate di questa grandine e di questa neve. lumiere e i candelabri sfavillanti?

sporca.

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Vi piacevano le ricche

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Ed, ora, pascetevi di questo buio eterno. Vi piacevano i profumi de' fiori e 'l grato odore de' pasticcini? Ed, ora, godete pure di queste putride esalazioni. Vi piacevano, infine, le scelte melodie, che di lieti concenti empivano l'aere d'intorno? Ed, ora, abbiatevi le orecchie eternamente intronate da Cerbero cane. È tale, e non altra la spiegazione da darsi a questo luogo di Dante, giusta le indicazioni lasciateci da Pietro e da Iacopo, suoi figliuoli. "La bufera infernale che mena gli spiriti (scrive il Bartoli) è pena terribile ma grandiosa. Nessuna grandiosità, invece nella pena data a' golosi. „ (St. della letteratura italiana, Firenze 1887, vol. VI, pag. 111).

E non ve ne doveva essere, dappoiché la dipintura graduata della umana degenerazione o della continua deformazione del senso, è già cominciata. La vita, di fatto, che, un momento fa, era ancor senti

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