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DELLO STATO ROMANO SINO ALLA FUGA DI PIO IX
A GAETA.

Creato Pellegrino Rossi ministro del sommo pontefice, e ridotta in lui solo tutta l'autorità dello Stato (essendo gli altri ministri più suoi ufficiali che colleghi), contro a lui si rivolse l'odio non meno de' nemici che degli amici di libertà, come sempre accade a chi nel calore dei parteggiamenti politici, intende a dominare tutte le parti, e a sospingerle, frenarle, guidarle a suo arbitrio, come un capitano il suo esercito. Il che, quando i tempi volgono favorevoli al principato, può partorire utili effetti, cedendo allora tutti gli uomini ad un solo che li sopravanzi in grado e podestà; ma non così quando i popoli intendono a vendicarsi dalla schiavitù, perciocchè in questo caso l'altezza dei ufficio è men segno di potenza, che occasione e..pericolo di ruina, La quale rovina sarà più grande sollecita é certa, quando chi assume di farsi reggitore, moderatore ed arbitro di uno Stato in sollevazione, non abbia nè il favore dei cittadini, nè armi proprie e sicure:, onde del

Rossi potrà lodarsi l'animo, non la prudenza, essendo cosa imprudentissima entrare in imprese impossibili, e dalle quali debba di certo seguirne la rovina dello stato e della propria riputazione. Sì che può dirsi che se prima cagione della rivoluzione romana furono l'oštinazione, la cattiveria e la malafede della corte, non poco vi contribuì la presunzione di Pellegrino Rossi, assu mendo un carico per sostenere il quale non avea nè il favore del popolo, nè l'autorità del parlamento, nè l'aiuto del clero, nè la forza delle armi ; ma uomini, cose, opinione, fama e tempi contrari. « Si appartiene al ministero (dicea il Rossi in un suo discorso stampato nella gazzetta di Roma) di tutelare la pubblica cosa sì dalle mani di quelli che procacciassero di ritirare i nuovi ordini politici a' principi ed usi che più non sono nè debbono essere, e sì dalle brighe di coloro cui la calda fantasia o alcuna turpe e dissennata voglia spingessero a soverchiare quei limiti che la sapienza del generoso ristauratore della libertà nostra ha segnati». Scopo di questo discorso, nel quale non facevasi neanco cenno dell'Italia e della guerra dell'indipendenza, era d'annunziare la nomina del generale Zucchi a ministro della guerra, la soppressione del ministero di polizia e la riunione delle sue attribuzioni a quello dell'interno. Questo provvedimento, che sarebbe stato gradito in altre condizioni, spiaceva allora a'Romani, perchè pareva usurpazione della podestà esecutiva sulla legislativa, e artifizio per escludere dal governo dello stato il Galletti, che non si osava rimuovere, né si volea mantenere: nè bastavano a persuadere il contrario le parole del ministro, il quale citava il motuproprio del dì 20 dicembre 1847, dov'era detto, che poteasi restringere il numero dei ministri; impe

rocchè non di questo disputavasi, ma di chi avesse autorità di restringerlo: notandosi in altre, che il motuproprio del dì 20 dicembre, come precedente allo statuto, dovea considerarsi da questo abrogato.

Ho detto che dell'Italia non era parola in quel discorso; ma più tardi ne fu pubblicato un altro, nel quale, a proposito di telegrafi e di strade ferrate, si dicea: «< I telegrafi e le strade ferrate saranno validis. simi aiuti a far vieppiù utile, più efficace, più nazionale il gran pensiero dell'illustre pontefice, il pensiero della lega italiana. Noi abbiamo speranza di vederlo fra breve posto ad effetto, per l'onore d'Italia, per la tutela de'suoi diritti e delle sue libertà, per la salvezza delle monarchie rappresentative testè ordinate, e che un si splendido avvenire promettono agli Italiani di vita civile e politica. Voglia Iddio che le nostre speranze non siano deluse per le male passioni e gli impeti pazzi, e gli inescusabili errori che troppo oltre magnifiche e giuste speranze miseramente delusero! » Questa speranza, alla quale il ministro accennava, di veder fra breve posto ad effetto il pensiero della lega italiana, fondavasi sulla venuta in Roma del sacerdote Antonio Rosmini, legato del re Carlo Alberto, mentre sedeva nel ministero piemontese il Gioberti. E veramente parea non potersi scegliere uomo più adatto a quell'ufficio, perciocchè il Rosmini, alla fama dell'ingegno e della dottrina, unia quella della devozione alla chiesa; e sebbene l'aver nome di filosofo gli scemasse credito in corte di Roma e lo rendesse a molti cardi. nali e prelati inviso e sospetto; nondimeno avea amici e ammiratori nel sacro collegio e nella prelatura, ed era gradito al pontefice. Il Rosmini fu difatti bene accolto e molto onorato, ed egli, d'accordo con monsi

gnore Corboli Bussi, col Bargagli ministro residente di Toscana e col marchese Pareto ministro plenipotenziario del re di Piemonte, avea compilato alcuni capitoli del tenore seguente:

ART. 1.

« Fra gli Stati della Chiesa, del re di Sardegna e del gran duca di Toscana è stabilita perpetua confederazione, colla quale, mediante l'unità di forze e di azione, sieno guarentiti i territori degli stati medesimi e sia protetto lo sviluppo progressivo e pacifico delle libertà accordate e della prosperità nazionale. »

ART. II.

« L'augusto ed immortale pontefice Pio IX, mediatore e iniziatore della lega e della confederazione, ed i suoi successori ne saranno i presidenti perpetui.

ART. III.

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<«< Entro lo spazio di un mese dalle ratifiche della presente convenzione, si raccoglierà in Roma una rappresentanza dei tre Stati confederati, ciascuno dei quali ne invierà tre, e verranno eletti dal potere legislativo; i quali saranno autorizzati a discutere e stabilire la costituzione federale. »>

ART. IV.

« La costituzione federale avrà per iscopo di organizzare un potere centrale, che dovrà essere esercitato

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