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La fama che la vostra casa onora

grida i signori e grida la contrada:

e il Petrarca, in una delle famose canzoni su gli occhi, quella che comincia:

Perché la vita è breve

usa questo verbo nello stesso senso:

Ma spero che sia intesa

là dov'io bramo e là dov'esser deve

la doglia mia la qual tacendo grido.

Ma che cosa adunque i dannati proclamano, manifestano, bandiscono? Il valore della locuzione seconda morte ci è anzitutto spiegato dai versetti dell'Apocalisse che lo Scartazzini riporta in nota, e che io citerò in latino. Cap. XX, 14: "Et infernus, et mors missi sunt in stagnum ignis. Haec est mors secunda "3.

Cap. XXI, 8: "Timidis autem, et incredulis, et execratis, et homicidis, et fornicatoribus.... pars illorum erit in stagno ardenti igne, et sulphure: quod est mors secunda

Ai quali si può aggiungere anche il versetto 6 del cap. XX, messo dallo Scartazzini: "Beatus, et sanctus, qui habet partem in resurrectione prima: in his secunda mors non habet potestatem, sed erunt sacerdotes Dei, et Christi, et regnabunt cum illo mille annis

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È chiaro ora che seconda morte è frase biblica e significa nient'altro che dannazione, come la parola vita nelle sacre Scritture significa salvazione. Valga per tutti questo esempio: Matteo VII, 14: "Quam angusta porta, et arcta via est, quae ducit ad vitam, et pauci sunt qui inveniunt eam! Anche la semplice parola morte significò presso i teologhi e presso Dante stesso dannazione.

e nel canto III, 45:

Partiti da cotesti che son morti

Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa
che invidiosi son d'ogni altra sorte;

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i quali versi, con buona pace dello Zingarelli, non parlano punto della vita degli ignavi nel mondo, ma della condizione di questi nell'inferno. E non dicono se non questo, che gli sciaurati che mai non fur vivi, sdegnati dal mondo e dal cielo, sarebbero contenti di sperare la dannazione, perché il loro stato è si vile che "l'altrui condizione invidiano sia pure infelicissima „. Hanno coscienza della loro superiorità di fronte agli altri dannati, e vorrebbero, almeno come questi, soffrire la dannazione.

In sant' Agostino, sant'Ambrogio, san Cipriano, e in altri ricordati dal Tommasèo, troviamo sempre la frase seconda morte nel senso di dannazione. Cosí Prudenzio (Hymnus ante somnum):

1 V. questo Giornale, anno I, quad. VI.

2 CIPOLLA, artic. cit. pag. 135.

Quesitor ille solus

animaeque corporis:

ensisque bis timen da

prima et secunda mors est.

1

Ma quello che non osservò, credo, sinora nessun critico o commentatore di Dante, si è che il poeta usa la stessa locuzione un'altra volta, 1 in un'epistola (la VI ai fiorentini 2), e in quel luogo nessuno certo può mettere in dubbio che essa non significhi dannazione.

Ecco il brano che fa al caso nostro

"Vos autem divina jura et humana transgredientes, quos dira cupiditatis ingluvies paratos in omne nefas illexit, nonne terror secundae mortis exa

gitat?...,.

Adunque il poeta spiegherebbe con questo brano della epistola sua il verso della Commedia.

E che la locuzione fosse già entrata nel patrimonio della nostra lingua, parmi lo dimostrino i noti versi su la fine del Cantico del sole di san Fran

cesco:

Beati quei che trovano tue sante volontate

ka la morte secunda non li farà male.

Anche qui il senso è chiarissimo. Ma è poi vero che coloro che stanno nell'inferno dantesco testimoniano, annunciano la dannazione loro?

Osserviamolo brevemente: o con le grida o con le bestemmie o con le minacce o con le beffe o coi lamenti ci fanno conoscere lo stato loro infelicissimo.

Appena il poeta e la sua guida entrano nell'inferno (III, 22):

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Le anime che stanno raccolte su la trista riviera d'Acheronte (III, 103):

Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,

l'umana spezie, il luogo, il tempo e il seme, ecc.

Quando entrano nel I cerchio, Dante ci dice subito qual è la condizione delle anime colà punite:

Quivi, secondo che per ascoltare,

non avea pianto, ma che di sospiri,

che l'aura eterna facevan tremare, ecc.

Ed eccoci innanzi a Minosse e tra i peccatori carnali, V 25:

1 Nel XX Paradiso la stessa frase esprime ben altra cosa.

2 Ediz. Fraticelli.

e piú innanzi, v. 34:

Ora incomincian le dolenti note
a farmisi sentire......

Quando giungono innanzi alla ruina

quivi le strida, il compianto, il lamento,
bestemmian quivi la virtú divina.

In tutti questi modi non ci è chiaramente manifestata la condizione di quelle anime?

In tal modo si potrebbe seguitare per molti e molti canti: vedete i golosi che urlano come cani, i prodighi e gli avari che, oltre a gridare la loro pena, si scherniscono amaramente :

Percotevansi incontro, e poscia pur li

si rivolgea ciascun voltando retro,

gridando: "Perché tieni,, e "Perché burli?„:

piú avanti le genti fangose faranno qualche cosa di piú:

Questi si percotean non pur con mano,

ma con la testa, col petto e coi piedi,
troncandosi coi denti a brano a brano.

Anche i dannati sepolti giú nel pantano si gorgogliano un inno nella strozza; e si sforzano per dirci chi sono, e che fecero, quantunque nol possano fare con parola integra:

Tristi fummo

ne l'aer dolce che dal sol s'allegra portando dentro accidioso fummo; or ci attristiam nella belletta negra.

Persino nella selva dei suicidi, il poeta che non vede nessuna persona (XIII, 22)

sentia d'ogni parte traer guai:

i violenti contro sé stessi, mutati in piante, traggono guai, dalle ferite annunciando la loro presenza colà, la loro colpa, la loro pena eterna.

Quello che io faccio è una rassegna velocissima: tocco qua e colà e tiro via.

Le anime dannate spesso manifestano il loro stato di dannazione deridendo tutto: appunto nella loro superbia sta il loro tormento: questo sforzo di ira, di rabbia, di odio forma la maggiore pena. Capaneo, a pena si accorge che si parla di lui, grida:

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E continua con la impotente sfida a Dio:

Se Giove stanchi il suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore acuta, ecc.

' Scartazzini, Înferno, p. 134, e CIPOLLA, art. cit., passim.

Vergilio lo fa tacere con un feroce sarcasmo.

O Capanéo in ciò che non s'ammorza

la tua superbia, se' tu píú punito.

Nullo martirio fuor che la tua rabbia
sarebbe al tuo furor dolor compito.

Si potrebbero in tal modo prendere in esame i violenti contro natura, gli adulatori, i simoniaci, gli indovini, che non parlano, ma camminano lagrimando in modo che lo scoperto fondo appare al poeta bagnato di angoscioso pianto. Sarebbe superfluo osservare che i peccatori testimoniano la loro dannazione oltre che con le parole e con le ire e con le bestemmie, anche con la qualità della pena, sia li trascini la bufera o li ferisca la pioggia, o li abbruci il fuoco, o cagne li inseguano, o tra loro si accapiglino, o siano morti da serpi.

Alle parole provocatrici di Capaneo fa degno riscontro l'atto villano di Vanni Fucci, bestia cui Pistoia fu degna tana:

Al fine delle sue parole il ladro

le mani alzò con ambedue le fiche

gridando: Togli, Dio, che a te le squadro!

E in quale stato orribile o raccapricciante ci presenta il poeta gli scismatici e fa parlare Maometto:

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com'io vidi un, cosí non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla:
tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva, e il tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre Dante osserva, dolorosamente stupito, il dannato

. . . . con le man s'aperse il petto,
dicendo: Or vedi com' io mi dilacco;

vedi come storpiato è Maometto.

Dinanzi a me sen va piangendo Alí
fesso sul volto dal mento al ciuffetto.

Dopo tutto questo chi potrebbe negare il bando che della loro dannazione fanno i dannati sull'inferno dantesco?

Devesi adunque definitivamente abbandonare la interpretazione comune, e spiegare in questo modo più naturale, piú consentaneo alla religione e ai dogmi e dimostrato poi certissimo dalle parole del poeta stesso.

Ma non sempre avviene che le interpretazioni più semplici e piú ovvie siano universalmente accettate: questa volta almeno mi sia lecito sperarlo.

DR. RICCARDO TRUFFI.

Quattro errori di lezione nel primo canto dell'Inferno
e tre puntini fuori posto nel nono.

Non senza riluttanza mi accingo in un articolo di giornale a proporre o riproporre emendamenti al testo vulgato della divina Commedia. Fin troppo il dilettantesimo ha osato con leggerezza inescusabile metter le mani profane e inesperte nei testi piú venerandi; onde chi studia per davvero, teme in casi come questo mio di essere annoverato fra le mosche carducciane, le quali lasciano i segni del loro passaggio su i marmi e i bronzi di Donatello e di Michelangelo e su le tele di Leonardo e di Raffaello solo per una necessità di cui sono inconscie.

Ma perchè coscienza m'assecura, prendendo il coraggio a due mani entrerò senz'altro in argomento.

Sin dal principio del primo canto dell'Inferno, c'imbattiamo in questi versi:

Ahi quanto a dir qual era é cosa dura
questa selva selvaggia ed aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura.

Cosí leggendo, ragionevolmente non può intendersi se non che la selva rinnovava la paura nel pensiero del poeta. Ora tal concetto è monco, indegno dell'Alighieri ed erroneo in sé e secondo la dottrina di lui. Monco, perchè, se la paura non era continua, dal momento che si rinnovava, quando mai ella si rinnovava? forse quando il poeta accingevasi " a dir qual era, la selva? Ciò non può essere, perché l'ultima proposizione ("Che nel pensier„, ecc.) è complementare di "Quella selva,, ecc.; e viene affermata in modo assoluto come di fatto costante, senza nessuna parola espressiva di tempo che la riallacci al primo dei tre versi; onde non può assolutamente intendersi come se l'A. avesse detto: “Ahi quanto dura cosa è a dire qual era quella selva, ecc., che allora (cioè nel dire qual era) rinnova nel pensiero la paura., Monco è dunque il concetto. Esso è poi erroneo, perché il pensiero non è la sede piú propria della paura: il pensiero non è tutta l'anima, e meno ancora la parte affettiva dell'anima. È lo stesso sproposito che il Bembo, il quale curò l'ortografia del Canzoniere petrarchesco, e dietro a lui tutti gli altri, fanno dire a Francesco Petrarca in quest'altro luogo celebre:

Da' bei rami scendea

(dolce ne la memoria)

una pioggia di fior sovra 'l suo grembo, ecc.

quasi che la memoria senta e non piú presto cagioni dolcezza o amaritudine : mentre doveva leggersi :

Dolce n'è la memoria.

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