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raggini conseguentemente venivano tramate e commesse per mano di quei due ultimi partiti, ond' egli previde che, poco a poco, sarebbe venuta distruggendosi ogni forza vitale e, invadendo l'errore ed il vizio, percludendosi la via ad ogni virtù morale e civile. In tanta scissura di animi, in tanta corruzione di sentimenti, Dante, che si riconosceva essere in Firenze uno dei giusti...... duo, ma che non vi sono intesi, giudicò che per fare ritornare i suoi « vicini » ai principii nobili e generosi degli avi, era d'uopo togliere in prima la radice d' ogni malo costume, vogliamo dire le fazioni 1.

A tali sensi ispirato, intraprese l'opera, che già aveva concepita e disegnata, mirando sopra tutto i suoi pungenti strali contro gli odi intestini e contro le guerre fraterne, che sono la rovina del benessere comune dei popoli. Ma, siccome egli stesso conosceva che con la sua voce, per quanto potente ed energica, pure non sarebbe stato bastevole a riuscire a far argine all' universale corruttela, invocava quindi l'aiuto di un unico signore, il quale tosto sorgesse a << sanar le piaghe» e fosse salute della patria. Fidente perciò in un grande riformatore, incoraggiato dalla speranza non lontana di tempi migliori, rivolse i suoi giusti rimproveri, principalmente, contro chi fu causa più o meno diretta delle divisioni e delle sciagure cittadine e contro chi non s' ebbe cura, imponendoglielo il dovere, del restauramento sociale. E noi sappiamo infatti come a suo luogo siasi altamente querelato cogli imperatori tedeschi, alle cui mani vedeva, meglio che ad altre, per divina disposizione affidate le ragioni del romano imperio, perchè non cercarono di porre in assetto la misera Italia;

O Alberto tedesco, ch' abbandoni

costei, ch'è fatta indomita e selvaggia,

e dovresti inforcar gli suoi arcioni:

che avete tu e il tuo padre (Rodolfo) sofferto

ch' il giardin dell' imperio sia diserto,

la misera Italia, le cui terre:

tutte piene,

son di tiranni: ed un Marcel diventa
ogni villan, che parteggiando viene 2.

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1 Inf., VI, 73. Già pubblicammo nell' Alighieri, benemerita rivista dantesca diretta dal testè defunto cav. F. Pasqualigo (cfr. vol. III, fasc. 10-12, an. 1892) alcune nostre opinioni intorno a quel verso, ed abbiamo fede che forse avranno potuto incontrare il favore di coloro che si sono consacrati agli studi danteschi.

Purg., VI, 97 e segg.

Quindi è che più tardi potè Dante rivolgere tutte le sue speranze all'

alto Arrigo, ch'a drizzare Italia

verrà, in prima ch'ella sia disposta 1.

Medesimamente che alla riforma politico-morale pensò pure a quella religiosa nel senso che la Chiesa romana, già anche troppo degenerata e corrotta, sapesse tosto fare ritorno sulla retta via dal suo divin Fondatore tracciatale, e ciò per la pace completa non solo dell' Italia ma del mondo intero.

Però, siccome il poeta conosceva che da cotali nobili sentimenti non erano animati coloro che avrebbero potuto, e pur non vollero, curarsi del bene pubblico, crediamo che egli, prima d'incominciare la dolorosa narrazione e descrizione delle varie genti, le quali per i loro delitti alle cocenti pene d'inferno si martirano, abbia cercato con giusto motivo mostrarci fra quelli, Che visser senza infamia e senza lodo, sopra tutto quelli appunto che non attesero a compiere ciò, per la cui causa egli stesso precisamente stava per iscritto dettando. Che quella turba sia la turba, la quale va sotto il nome generico d'ignavi, ognuno lo sa, ma che Dante fra questi ignavi intendesse includere primieramente coloro che potendo non fecero e non lavorarono per i fini che sopra abbiamo accennato, ci pare cosa degna di essere notata, tanto più che sfuggì all' attenzione particolare di tutti i commentatori del divino poema. Come male non ci apponiamo, lo vedremo in seguito per le ragioni che riferiremo; intanto, non sembri inutile se anco noi passiamo in esame quella parte del canto III dell' Inferno, dove appunto ragionasi di que' tristi, avendo da fare in proposito più d' una osservazione nostra.

Innanzi tutto diciamo che, sebbene Dante si gloriasse, da quando componeva la sua Commedia, di avere omai fatta parte per sè stesso, parte che aveva per mèta il già detto, fuor del quale riconosceva che ogni altro intendimento, ogni altra divisa tornava di danno al benessere comune, nondimeno ben capiva che anche tra quelli che parteggiavano diversamente da lui e quelli che indolenti se ne stavano lungi dalla vita cotanto attiva di que' tempi, sia pur che in generale si fosse riprovevole, correva gran passo, e di costoro stimava gli ultimi certamente più degni di disprezzo e di vituperio, perchè al momento opportuno, a viso aperto, sia non sostenendo le ragioni della propria parte, sia anco non affrontando il pericolo, che capitar potesse, mostravano quanta si fosse la bassa viltà, da che era insozzato l'animo loro 2.

1 Parad., XXX, 137-8. 2 Ibd., XVII, 68-9. È a tutti noto come Dante, nel tempo in cui dava mano al poema, avesse già abbandonato qualunque partito e si fosse messo in disparte, non per pusillanimità, ma perchè vedeva quanta era la corruzione e la perfidia delle due fazioni principali di

Ma non solo a cotal sorte di gente andavano le parole del poeta. Questi, ben s' intende, comprendeva pure fra i dannati dell' Antinferno (chè ivi trovansi appunto gl' ignavi, come ora osserveremo), coloro che, come dice Sallustio, dediti corporis gaudiis, per luxum atque ignaviam aetatem agunt1; ma non sì che eglino gli fossero dinnanzi alla mente, quanto quelli, dei quali in prima toccammo. Affermiamo in tal modo, non perchè crediamo che il poeta stimasse meno ributtanti gli uni degli altri, ma perchè, per i nobili fini, che lo facevan parlare, lo tenevano maggiormente preoccupato, senza paragone i primi, che non coloro testè accennati. Del resto, più tardi faremo in proposito opportuni ragionamenti. Comunque possa sembrare cotale nostra avvertenza, è certo però sempre che l' Alighieri, il quale aveva già tanta parte della sua vita spesa attivamente e sia in servigio degli studi, componendo lavori, che tutti conosciamo, e sia in servigio della patria, per il cui bene aveva brandite le armi e seduto ne' pubblici uffici, sentiva il più grande orrore per l' ozio, dandolo a conoscere non tanto colle parole, che stiamo per esaminare, quanto con quell' operosità sua medesima, ben consapevole che come l'uomo laborioso è attratto a compiere le più nobili azioni, così, per contrario, l'inerte è spinto a perpetrare le più turpi cose 2. Quindi non fu

Firenze, dopo essersi allontanate dai nobili principî, che le doveano informare: e molto più poi perchè egli medesimo aveva per dura prova esperimentata la doppiezza dell' una, che appunto ingiustamente lui aveva cacciato in esilio, e dell'altra, la quale pure con lui bandita, gli si fece poi contro in modo affatto ingrato.

C. Sallustio, De bello Jugurthino, cap. 2.

2 Ad attestare quanta si fosse l' operosità di Dante e come egli stimasse cosa odiosa la noncuranza e la indifferenza usata specialmente nei momenti più difficili, quali erano appunto quelli, a cui andiamo adesso accennando, sta l'esempio che segue. Racconta il Boccaccio (cfr. la sua Vita di Dante al cap.: Qualità e difetti di Dante) che l' Alighieri, inteso che Carlo Valese veniva a Firenze coll'ingannevole pretesto di volerla pacificare, fosse deciso, conforme il deliberato dei priori che allora reggevano la pubblica cosa, di andare ambasciatore a Bonifacio VIII, al quale metteva capo la causa di quella malaugurata venuta, e che, prima di partire per Roma, esprimesse quel famoso motto: «Se io vo, chi rimane? e se io rimango, chi va ?.... » : « motto », che del resto sarà vero essere, come dice il Del Lungo, « da novelle », ma non tale da essere quasi sguaiataggine comica, (come soggiunge egli), indegna che Dante la pronunciassen. (cfr. D. Compagni e la sua Cronica, vol. I, p. I, pag. 214). Senza volerci punto intrattenere su quella legazione e su quel motto erroneamente attribuiti al poeta, contuttociò sappiamo che i biografi di lui (a cominciare dal Boccaccio medesimo) dicono egli cosi significasse perchè, conoscendo il proprio valore ed il proprio ingegno, voleva far atto di orgoglio e di alterigia, come quegli, al quale solamente poteva affidarsi quella difficile impresa. Ma dato anche per vero quel motto e quindi quel contegno, questo però sarebbe spregevole solo in parte, onde noi pure non tributeremmo a Dante una lode condegna. Ma d'altra parte chi il vorrà condannare, per quella parte appunto, per cui noi crediamo che non mal fondatamente egli si apponesse colla sua risoluta espressione? Niuno negherà che egli doveva ben

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adunque senza causa se il poeta, intraprendendo il suo lugubre viaggio attraverso il regno dei morti, mise sul vestibolo della città infernale appunto la malnata genia degl' ignavi, A Dio spiacenti ed a' nemici sui, perchè non a bene nè a mal fare posero l' ingegno, essendo in vita, ed anzi passarono questa nel più cupo silenzio, più vili se stati fossero altrettanti bruti. E ora si vedrà, esaminando quella parte del canto terzo dell' Inferno, dove precisamente ragionasi di que' tristi, come Dante s' intrattenga a parlarne assai e mostri che non avrebbe creduto mai Che morte tanti n'avesse disfatti. Le parole sprezzanti, che loro contro egli getta, la viva pittura della loro bassezza, il doloroso e, insieme, ributtante quadro delle punizioni, cui sono essi condannati, sono tali e tanti argomenti, che ampiamente ci attestano la grande

conoscere e sapere, egli che dall' alto seggio del priorato aveva già meglio compreso lo stato delle cose, che, se non fosse andato, non altri sarebbe riuscito a difendere la causa comune, e francamente mostrare al pontefice in quali angustie fosse questi per mettere la sua città. Se poi si fosse partito, allora peggio che mai. Chi avrebbe saputo regolare prudentemente le cose? Chi avrebbe sostenuto la sua parte in Firenze meglio di lui? È chiaro quindi che se da un lato Dante con quel detto faceva pompa della propria attitudine e del proprio sapere, dall' altro però ben capiva che, non solo fra quelli della sua parte, ma alcuno ancora fra gli stessi suoi colleghi era al ver timido amico e pauroso a tener alta la fronte contro l'imminente naufragio della patria. Si sa infatti, per citare un esempio, che Dino Compagni era, nell' ottobre del 1301, nel reggimento della repubblica uno dei priori quale era stato, dalla metà del giugno alla metà dell' agosto del precedente anno, il detto Dante. Questi, quali vantaggi si poteva ripromettere da lui nel prossimo pericolo, quando colla sua stessa il Compagni non sa dirci nè mostrarci neppure a qual partito chiaramente egli appartenesse? Nè da alcun'altra fonte storica molto meno lo possiamo rilevare poichè anche il Muratori medesimo dubita se Dino al guelfismo (neri) facesse parte o piuttosto al ghibellinismo (bianchi) (cfr. Rer. It. Script., tom. IX, pag. 466). Anzi leggendo l'accennata cronica, dove si narrano anco tutti i fatti di cui fu testimone oculare ed auricolare l'autore stesso, da essa non resulta che il Compagni partecipasse nè s'immischiasse, se non ben poco, nei tumulti e nelle vicende, che occorsero al suo tempo, ma dall' insieme invece che egli si stesse assai in disparte e, quasi sempre, solo spettatore dell' altrui operare. Quello che piuttosto si rileva dalla Cronica anzidetta è che Dino, piangendo sui mali della patria, inveiva contro gli odii e le scissure dei concittadini, ai quali inculcava di ricomporsi in pace, anche quando « meglio era arrotare i ferri » (cfr. Cron., lib. II, 5, 8, 22 e altrove). Vedasi che di tal carattere non era Dante, il quale conosceva meglio che quei tempi, e massime quello in che era vicino a venire il Valese in Firenze, non erano favorevoli alla pace, ma sibbene a schermirsi a viso aperto contro le subdole arti de' neri, che si studiavano di sopraffare i bianchi, per distruggerli quindi ne' loro averi e nella loro signoria. In una parola Dante reputava essere una necessità del tempo la difesa, il Compagni invece stimava più opportuno l'insinuar la pace, non dubitando perfino di avere « voluntà d'accomunare gli ufici» tra i bianchi, che allora reggevano, e i neri (cfr. loc. e lib. cit., 5). Del resto, in proposito di tal argomento, tenemmo parola anche nel già cit. articolo nostro sul verso dantesco Giusti son duo, ecc.: vedi perciò l' Alighieri, an. e fasc. cit., pag. 450 e segg.

sollecitudine, dalla quale fu il nostro poeta animato nel rappresentarci, innanzi tutti, la turpe setta de' codardi, per servire ad esempio dei suoi contemporanei e, in ispecial modo, dei suoi concittadini. Nè credasi che esso poeta si limiti soltanto a una generale descrizione di que' dannati; fa capire che fra questi v' ha anche alcuno « riconosciuto», e forse forse v' ha alcuno (è credibile) ravvisato, che fu suo amico, il quale in patria non s'adoperò per niente, quando doveva e poteva, a giovare al pubblico bene, preferendo invece, o per pusillanimità o per noncuranza, di starsene solo in disparte. Ma di ciò ci basta ora di aver fatto un cenno, poichè a suo luogo vi ritorneremo sopra, studiandoci allora d'investigar meglio la mente dell' Alighieri. Senz'altro passiamo piuttosto ad esaminare il brano del surricordato canto della divina Commedia.

Confortato Dante dalle parole di Virgilio a proseguire l'aspro e difficile cammino, dopo aver letto una terribile iscrizione, scolpita al sommo della porta che mette all'inferno, ne varca la soglia e si sofferma sul vestibolo.

Quivi sospiri, pianti ed alti guai

risonavan per l'aer senza stelle,

per ch'io al cominciar ne lacrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,

parole di dolore, accenti d'ira,

voci alte e fioche e suon di man con elle

facean un tumulto, il qual s' aggira

sempre in quell' aria senza tempo tinta 1.

1 Senza volerci punto intrattenere sul commento di questi versi (del resto per sè stessi chiari) e sulla bellezza artistica ivi contenuta, alle quali cose già soddisfecero i più noti cultori della divina Commedia, diciamo solo ciò che, secondo noi, sfuggì all' attento esame di quelli medesimi. Fu mostrato che quell'aer senza stelle e l'altro aere senza tempo tinta sono reminiscenze virgiliane, tolte cioè dai primi versi della descrizione dell' inferno nell' Eneide (lib. VI, v. 265 segg.). Ma però non fu accennato che come Virgilio, in quel medesimo luogo, dipingendoci il vestibolo infernale, ove trovansi, secondo lui, personificati tutti i mali che affligono l'umanità (cfr. op. e lib. cit., v. 273 segg.), così pure Dante, sebbene sul limitare del suo Inferno non incontri quelle turpi figure, (non imitando in ciò quindi il maestro), udì là sospiri, pianti ed alti guai, e vide poi gente in vario doloroso atteggiamento, reso tale per le pene, cui è condannata, le quali appunto, a seconda dell' età e dell'indole, la fanno miseramente agire, gente che, come sappiamo, non è altro che la turba de' vili. Dante dunque, dipingendo quel vario insieme doloroso, ci pare che ben si ricordasse di Virgilio, il quale precisamente nelle sue differenze quell' insieme aveva personificato. Infatti, chi potrà negare che quel sospiri, pianti ed alti guai non rammenti il verso virgiliano: Luctus, et ultrices posuere cubilia Curæ, e gli accenti d'ira e i suon di man con elle (voci) Ferreique Eumenidum thalami, et Discordia demens dello stesso Virgilio?

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