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“ Τρέχα βρέ Χάρε, πέρνασ' τοὺς, κ' εἶν ̓ ἄλλοι που προσμένουν. η

"Corri olà, Caronte! prendili (nella tua barca) (ché) ancor altri ti attendono. „

Ed ora che ho compiuto alla meglio questo confronto fra i due passi dell'Eneide, della divina Commedia e la mirologia greca (ho tralasciato a disegno di parlare sulla comparazione della caduta delle foglie, perché la copia de' rispettivi riscontri avrebbe reso di soverchio prolisso questo articolo, salvo a trattare l'argomento in altra occasione piú propizia) mi si consenta di aggiugnere alle precedenti alcune altre considerazioni riguardanti Caronte e la sua barca.

In un dialogo di Luciano tra Caronte e Mercurio, quegli è rappresentato in atto di venir sulla terra per vaghezza d'osservare le cose della vita come siano, quel che vi operino gli uomini, o di che privati gemano essi mai, appena scendono giú all'inferno, perché mai Caronte nessuno traghettò che non piangesse. In tale scorsa per il mondo Caronte prega Mercurio, come pratico di tutto, d'accompagnarlo. Caronte dice ivi a Mercurio, che gli è compagno, come colui che scorge la schiera delle anime all'inferno, e con lui naviga e traghetta le anime.

Caronte ricorda ivi a Mercurio che mai non gli ha comandato di votar la stiva della nave, o di star a' remi, e che troppo spesso lo ha visto giacere disteso sul tavolato a russare, pur avendo spalle sí gagliarde, e che, quando si è imbattuto in qualche ombra loquace, per tutto il tragitto non ha mai atteso che a ciarlar con essa insieme, ed egli (Caronte intanto, vecchio com'è) ha fatto andar la bireme solo. Mercurio consente alla brama di Caronte, purché non gli faccia perdere troppo tempo, tantopiú che si distrarrebbe esso pure (Caronte) dalle mortuarie cure di barcaiuolo dell'anime, con danno del regno di Plutone, e, se mai rimanesse lungo tempo senza trasportarvi qualche morto, poi quel pubblicano d'Eaco (uno dei tre giudici dell'inferno con Minosse e Radamanto) andrebbe sulle furie, non lucrando neppure un obolo; ciascuno può di leggieri qui riscontrare l'arguta caricatura che lo scettico e incredulo Samosatense fa di questi mitici personaggi. Piú appresso dice Caronte che quando il vento furioso percuote a traverso la vela, e l'onda tumida s'innalza, Mercurio allora e le anime della sua barca lo esortano ad ammainar la vela, a rallentar alquanto la scotta, a correre insieme col vento, ed egli ordina loro di tacere, ben sapendo appieno quello che si faccia. Da questo ultimo tratto deduciamo che la barca di Caronte anche presso Luciano è provveduta di vela. Vediamo adesso quello che la mitologia classica ne riferisce intorno a Caronte. Esso era una delle divinità infernali, figlio dell'Erebo e della Notte; egli aveva l'ufficio di traghettare al di là dello Stige e dell'Acheronte le ombre de' morti in una barca, stretta, meschina e di color nero (particolare conservato nell'Eneide e nella mirologia neo-greca.) Vecchio ed avaro vi ammetteva soltanto coloro che ave

1 Inf. III, v. 119-20,

2

2 Per questo richiamo a Luciano mi sono valso del pregevole opuscolo di Luigi Comencini: Caronte o gli osservatori, Mercurio e Caronte, dialogo di Luciano tradotto dal detto professore in latino e italiano, Benevento, Francesco De Gennaro, 1882, (Principio del dialogo). Quanto alla parodia di Caronte e della sua barca de' morti divenuta un semplice,burchiello vedi Merlini Cocaii (Theophili Folengi), Opus Macaronicum; principio della Macaronica XXIVa; ivi Fracasso d'un salto passa dall' una all'altra sponda il fiume dell' inferno, Baldo gli grida ad alta voce che strappi la barba del nocchiero a pelo a pelo, che ne spezzi il cranio e tutte l'ossa del corpo; poi l'autore aggiunge:

Sed Charon attonitus factus, saltante giganto.

iam rivat ad portum, cunctasque licentiat umbras.
Quae sfortunatae de navi ad litora saltant,
praecipitasque volant se confessare Minossi:
ut confessatae vadant quo andare bisognat....

Piú appresso l'autore dice ancora:

Qui (Charon) dum burchiellum reficit, pluresque facendas
expedit, indusiatque aliae se reddere ripae....

vano ricevuto sepoltura, e che gli pagavano il passaggio. La somma richiesta non poteva essere minore di un obolo, né maggiore di tre: quindi è che i pagani ponevano nella bocca del morto una moneta d'oro o d'argento per pagare il proprio passaggio. I soli Ermoni pretendevano d'esserne affatto esenti, perché il paese loro confinava coll' inferno. Oltre il tributo solito i Greci rinchiudevano talora ne' sepolcri attestazioni di cittadinanza. Le ombre di quelli già privati degli onori del sepolcro erravano per cento anni sulle rive dello Stige. Niun vivente po. teva entrar nella sua barca onde con molta esattezza da Caronte nel c. III dell'Inferno Dante si fa volgere le parole (v. 88-89):

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quando seco non avesse un ramo d'oro consecrato a Proserpina e bisognò che la Sibilla ne desse uno al pio Enea, quando egli volle penetrare nel regno di Plutone. Lungo tempo avanti l'arrivo di Enea, Caronte era stato punito e mandato in esilio in uno dei più oscuri ed orrendi luoghi del Tartaro per aver lasciato passare Ercole, non munito di questo magico ramo. I poeti dipinsero Caronte sotto l'aspetto di un vecchio robusto, con occhi vivaci, con sembiante maestoso, benché severo, con l'impronta della divinità in volto, con folta e canuta barba, con un'oscura veste addosso (come nella tradizione neo-greca) lordo di fango del fiume infernale. La sua barca ha vele color di ferro (cfr. le vele nere della barca di lui nella mirologia neogreca riportata sopra in quest' articolo stesso) ed egli tiene un palo (cfr. En., VI, v. 302) o remo per dirigerla. Non è a stupire che la sua barca sia assai leggera, perché ognuno sa che nulla è piú lieve degli spiriti. Secondo alcuni Caronte significa grazioso forse per antifrastica denominazione. Sembra il suo mito d'origine egizia e in questa lingua difatto Caronte varrebbe infernale barcajuolo, perché in essa Char prefisso del predetto nome significa inferno; cfr. per questo: Una cassetta funeraria del Museo egizio di Torino illustrata con una memoria (favoritami in omaggio) dal professore Francesco Rossi (estratta dagli Atti della r. Accademia delle scienze, di Torino vol. IX, adunanza del 7 gennaio 1874), Torino G. B. Paravia, 1874; difatto nella linea 9 dell'iscrizione di tale cassetta funeraria, con la voce egizia atu è ricordata la divina barca, che traversa il cielo, e nella quale accolti vengono i defunti giustificati. 3 L'idea del

Il cenno di esso, VI, v. 143-44 per bocca della Sibilla ad Enea: .... Primo avulso non deficit alter Aureus et simili frondescit virga metallo suggerî a Dante il cenno del giunco sulla fine del I del Purgatorio, v. 134-36:

O maraviglia! che qual egli (Virgilio) scelse
l'umile pianta cotal si rinacque
subitamente là, onde la svelse.

2 Quantunque Caronte sia ignoto ad Omero ed a' poeti più antichi, pure nel Fedone Platone parla di certe barchette apparecchiate per passare dall'Acheronte nell' Acherusia palude, specie di luogo destinato alla purgazione delle commesse colpe con pene relative, dopo le quali indi le anime restano assolte, e in proporzione de' meriti ciascuna ottiene il premio delle opere buone; i tristi che non possono espiare le iniquità loro scendono giú nel Tartaro, donde non potranno mai piú miseramente uscire.

3 Ecco il rispettivo tratto della versione italiana fatta nel succitato fascicolo dal prof. Francesco Rossi: "Detto da ToтH, Signore delle divine parole, scriba di verità del Signore dei secoli. Egli dice.... che la sua anima.... sia accolta come prediletta nella divina barca: "L'Acheronte presso gli Egiziani era sostituito dal Bacino d'Occidente, parte dell'acque eterne che, dopo aver formato la volta dei cieli, si rovesciavano verso l'Occidente in ampia cascata e s'inabissavano per mezzo della bocca del Pepa (cioè della gran fenditura, per la quale il sole calava nel mondo della notte dentro le viscere della terra). Su queste scorreva la barca del sole e il suo corteo degli Dei luminosi, detti “Capi del Bacino d'Occidente,, Numi dei morti, che presiedevano a quest' oceano mitico; essa barca era dalle acque trascinata nel profondo della terra. Ogni Egiziano dopo la sua morte, era obbligato di recarsi ad Abido e di trapassare per la detta fenditura, che si apriva all' ovest di questa città, nel Bacino d'Occidente, in cui egli si univa alla scorta del sole notturno, per traversare l'inferno e andare a rinascere all'Oriente il mattino, del giorno seguente. (G. MASPERO, Les contes populaires de l'Egypte ancienne traduits et commentés Paris, Maisonneuve, 1882, Introduction, pag. LXI-II nota 1a, della pag. LXII; Les aventures de Sinouhit [XIIe pag. Dynastie] 124, nota 1.a).

mito di Caronte sembra derivare dal costume degli abitanti di Menfi, di seppellire i loro morti al di là del lago d'Acherusa. Molti considerano Caronte come un potente principe che dette leggi all'Egitto, il primo che imponesse un balzello sulle tombe. Orfeo fu il primo a far conoscere in Grecia l'uso già divulgato nell'Egitto di porre una moneta nell'urne funerarie e dalla Grecia passò nell'Italia. L'esenzione in favore di quelli che portassero un ramo d'oro significa per l'appunto il valore incalcolabile di questo metallo e la sua onnipotenza. La moneta posta nella bocca del defunto indicava che tutti i suoi creditori erano soddisfatti; l'attestazione che il defunto era uomo dabbene, contribuiva a mantenere i buoni costumi nel consorzio civile; ed il pontefice non faceva tale attestazione senza una specie d'esame dopo la morte della persona stessa, e che dava un'idea del giudizio particolare. "

Nella tradizione popolare neo greca, 3 siccome nell'antica mitologia, la dimora di Caronte è nell' Inferno; in questi luoghi oscuri egli ha dirizzato la sua tenda, che secondo i canti popolari neo-greci al di fuori è verde, e talora anche rossa, laddove al di dentro è nera (Passow, ni 432-33): le aste che la sorreggono sono braccia di giovani, le corde treccie d'amorose fanciulle, le sedie, teschi di piccoli bambini (Passow, n. 427-433). Caronte ha il cuore inaccessibile alla pietà, e alle altrui lagrime, e nemmeno vi riesce sua madre, che l'induce a risparmiare qualcuno, a non disgiungere i figli dalle madri, i fratelli dalle sorelle e gli sposi novelli gli uni dalle altre. Ma Caronte risponde che, dove ne troverà tre, ne prenderà due, dove due uno, e dove un solo, toglierà pur quello (Legrand, n.o 88). Caronte, oltre all' antico ufficio di nocchiero infernale, pur esercita quello analogo affidato già dall'antico mito a Mercurio. Come Angelo della Morte Dio lo manda sulla terra per cercar l'anime e condurle all' altro mondo. Ei rapisce la vita al prode soldato, che prega il suo cavallo di scavargli la fossa, di seppellirlo e poi condurre le armi a' suoi cari. Egli uccide il giovine Clefta, cui non pesa la morte, ma l'ambascia di lasciar piccolo il figlio, che non sa difendersi ancora ('Apάpavtos.. Scelta di canzoni popolari greche, Pietroburgo, 1834, vol. II, pag. 20). 5

La nave de' morti occorre anche nella mitologia Scandinava; l'Edda infatti contiene questo

1 Un giovane professore toscano, mio collega mi assicura, che presso gli Ebrei eziandio vi era il costume di collocare una moneta nella bara del morto, acciocché servisse al medesimo per pagare al navalestro della infernale barca il pagamento del passaggio del fiume d'Averno, e che tuttavia presso gli Ebrei piú ligi alle antiche loro superstizioni si conserva il costume di porre a tale uopo un soldo nella bara del morto. Tale consuetudine antica è ricordata pure in una delle Facezie inedite di Ludovico Carbone umanista del '400, esistenti in un codice cartaceo della Comunale di Perugia, e nella leggenda popolare siciliana: Lu malu Gugliermu, per la quale vedi Giuseppe Pitrè, Fiabe, novelle, racconti popolari siciliani, Palermo, Luigi Pedone Lauriel, 1875, t. IV, n.° CCVII, e note rispettive. Nella bara del morto si deponeva talvolta dagli Egizi un esemplare dei capitoli del Libro dei morti e d'altri scritti teologici che servivano al morto, come d'altrettante malie, che gli aprivano il cammino delle infernali regioni, e da lui ne rimovevano i perigli. (G. MASPERO, Les contes populaires de l'Egypte ancienne, traduits et commentés, Paris, Maisonneuve, 1882, Introductions, pag. LXV).

2 Per parecchi di questi cenni mitologici cfr.: Benedetto Perotti, Dizionario mitologico di tutti i popoli e sue relazioni con la storia, Torino, Giuseppe Pomba e C. 1837, fascicoli 10, vedi il 3o, pag. 275.

3 Anche nella tradizione popolare di Livorno e di qualche altro paese della Toscana è rimasta una qualche traccia di Caronte e della barca de' morti; cosí a Livorno per intimorire i bambini e indurli a star buoni, mentre assistono allo spettacolo della lanterna magica e passa dinanzi al lume il vetro che rappresenta Caronte, che traghetta sulla propria baica i morti dall'una all'altra sponda dell' Acheronte, qualche vecchia zia o nonna suol dire con grossa voce a' bimbi presenti: "Ora passa la barca di Caronte; ecco Caronte che si avvicina per venire a prendere tutte le anime, che gli dànno un soldo per una per fumare, affinché le porti tutte all'inferno, e quelle buone, quando sono a mezza strada, se ne vanno volando in paradiso, e alle cattive Caronte dà una remata, le butta nell'acqua e le fa tutte affogare; queste cadono giú in fondo all'inferno; dietro poi c'è una barca di vino per far ubbriacare Caronte.,,

4 Come già quelle di Achille portate dai marosi sulla tomba di Ajace, che non l'ebbe vivo, quantunque spettassero a lui; onde Ugo Foscolo nel Carme dei sepolcri, uscì nei v. 215-225. 5 Per questi cenni allusivi alla tradizione popolare neo-greca ho attinto alla prefazione del prof. É. Legrand alla sua raccolta sopracitata di canzoni popolari neo-greche, e alla pregevole memoria di Francesco Sabatini, ricordata essa pure avanti.

versetto nel Voluspa (Il canto della Sibilla): La nave della morte forzerà il passaggio. Questa nave si appella: Naglfar da nagl (unghia) e far, (nave); nave fatta co' ritagli delle unghie de' morti, secondo lo Snorda-Edda, pag. 71. 1 Antonio Schiefner nella nota 1a, pag. 143 alle sue Mittheilungen nel Bulletin de l'Academie imperiale des sciences de Saint-Petersbourg, II, pag. 293 ne dice che nella Lituania, in Samogizia, dura tuttavia il costume di non gettar via le unghie tagliate, ma di lasciarle crescere sulle dita per difesa; altrimenti il diavolo potrebbe raccoglierle e farsene un cappello (che occorre pure nella tradizione popolare di quei paesi). E vige ancora l'uso colà che, quando altri si è tagliato le unghie delle mani e dei piedi, sulle unghie tagliate, con un coltello vi segni una croce, appena gettatele via; se no il diavolo potrebbe servirsene tosto per farsene una berretta per il suo capo; secondo un'altra superstizione poi si raccomanda alla gente di tagliarsi le unghie per impedire l'arrivo della nave Naglfar.

Sessa Aurunca, 27 marzo 1894.

STANISLAO PRATO.

1 Histoire de la poésie scandinave, Prolegomènes par M. Edélestand Du Meril, Paris, Brockhaus et Avenarius, 1839: Le chant de la Sibylle, pag. 108 e nota.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI.

Bollettino della Società dantesca italiana: nuova serie Firenze, giugno e luglio 1894, vol. I, fasc. 9° e 10o.

Ho letto con piacere nel Bollettino di giugno l'accurata recensione del Barbi all'opera del Leynardi La psicologia nell'arte della divina Commedia; ma l' opera probabilmente non la leggerò. Non che la recensione non la faccia apprezzare, o ch'io disconosca il valore della psicologia applicata allo studio del poema, essendomi anzi l' Alighieri apparso sempre come uno dei psicologi più profondi: ma non mi pare che il tempo impiegato in somiglianti sintesi corrisponda a l'utile che se ne ritrae per la piena comprensione del poeta. Ma che si canzona? 510 pagine in-8°! Preferisco rileggere quattro volte la divina Commedia.

Con ciò sono ben lontano dall' affermare che l'autore abbia fatto un lavoro inutile. Sarà al contrario lavoro utilissimo, e lo leggeranno certamente i cultori della psicologia e dell'arte, e formerà una parte importante della enciclopedia dantesca: ma pei dantisti probabilmente rimarrà solo un'opera da consultare, un repertorio sistematico della materia.

Giacché quanto a me sono fermo nella vecchia idea, che per la comprensione di Dante giovi bensí che uno si accinga alla sua lettura con una preparazione sufficente; ma non sino al punto da digerirsi prima tanti trattati e di lingua e di storia e di filosofia, etc.... i quali poi gli facciano scappare la voglia del testo, come gli antipasti talvolta sciupano l'appetito pel desinare. Una discreta cultura classica, un manuale di prolegomeni che la integri, una buona parafrasi di fronte al testo, e un comento continuo dopo, al quale uno possa ricorrere quando vuole, o prima o durante o dopo la lettura, e dove principalmente siano, ad ogni passo, riuniti i luoghi paralleli, secondo i suoi diversi punti di vista: e il lettore ha già tutto quello che gli abbisogna. E non dubito un istante, stando a l'analisi del Barbi, che alla formazione di questo comento molto potrà tesoreggiarsi dell'opera del Leynardi.

Ma poiché non è di questa veramente, ma della sua recensione che, io dovrei ora occuparmi, avrò detto tutto, e nello stesso tempo nulla che già non si sapesse, soggiungendo ch'essa leg

Giornale dantesco

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gesi con moltissima istruzione e diletto. Una osservazione sola, piú che altro a scrupolo di coscienza, e a prova dell'attenzione con cui l'ho letta. A pag. 166 a metà, ove trovo: nel cenno dato da Barbariccia a' suoi dieci, avrebbe forse dovuto dirsi, a' suoi nove, giacché al XXII, 13, D. dice: Noi andavam con li dieci dimoni; e fra i dieci è pur compreso Barbariccia. L'equivoco può nascere facilmente dal v.: E Barbariccia guidi la decina, al XXI, 120, e potrebbe trovar conferma due versi dopo in chi legga Cirïatto, Sannuto in luogo del volgato Cirïatto sannuto: ma, come dissi, ogni dubbio è tolto dal XXII 13 sopracitato.

Tien dietro nel Bollettino una diligente disamina del Fornaciari a due articoli usciti in questo Giornale, uno del dott. Filomusi-Guelfi su La struttura morale dell'“ Inferno „, di Dante, l'altro di Giorgio Trenta, Gli ignavi e gli accidiosi dell'“Inferno,, dantesco: e rilevo, con piacere da una parte, che il recensore accolga l'avviso dei molti (trai quali anche il Fraccaroli di cui dirò piú avanti) che per la bestialitade del c. XI intendono la violenza, con dispiacere dall'altra, ch' egli non ammetta che nel c. VII accidioso fummo (o meglio forse acidioso) si riferisca tassativamente agl'invidiosi, ma nello Stige devano trovarsi insieme ira, accidia, invidia e superbia.

In questo io sono impenitente. Non riesco a persuadermi come D. possa aver relegato i superbi nello Stige senza dirne una sola parola (il Quei fu al mondo persona or gogliosa dell' VIII, 46 riferendosi a l'Argenti che è tra L'anime di color cui vinse l'ira, e se è tra queste, non può essere dei superbi; a meno di volere che superbia e ira siano la medesima cosa). Né mi so disdire che gli accidiosi dello Stige non sarebbero altro che una pura e semplice ripetizione degli ignavi dell' Antinferno.

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Ma il pr. Fornaciari vi trova differenza in questo che gli accidiosi peccarono per troppa freddezza ne l'operare: ma infine una passione l'ebbero, mentre agli ignavi appartiene la gran turba di quelli che non sanno di vivere, e non lasciano traccia di sé. - A me pare una sottigliezza. O papa Celestino dunque, colui Che fece per viltade il gran rifiuto, uno, che se non fosse stato chiamato al papato, D. avrebbe pur dovuto collocare fra i beati contemplanti, anch'esso fra l'inutile vulgus? È vero che a pag. 177 egli dice aver peccato per ignoranza e cecità di mente: ma lo dice lui: Dante col suo contegno lo mostra reo di ben altro che d'ignoranza: e viltade del resto non è ignoranza, è poltroneria e pusillanimità bell' e buona. E ancora: per quanto pur vogliasi fare D. di spiriti aristocratici, perché mai egli, cosí amante della giustizia, dovrebbe dannare all'inferno tutta la schiera di coloro che astretti al lavoro quotidiano non possono certo aspirare né alla sapienza né alla fama? i tre quarti, si può dire, del genere umano?

Un'altra inesattezza nella quale mi pare che il recensore sia trascorso (sempre nel lodevole intento di volere un D. perfettamente loico, anche là dove la poesia può averlo tentato a fare alla logica un qualche strappo) si è là dove, premesso che l'incontinente cerca il piacere, il malizioso l'ingiuria, alla obiezione, perché Didone e Semiramide siano tra i lussuriosi, e non tra i maliziosi violenti, l'una come suicida, l'altra come incestuosa, risponde ch'esse in ciò furono vinte dal proprio temperamento, furono incontinenti. Sta bene. Ma ciò non potrà dirsi allora di tutti i suicidi, di tutti gli incestuosi, di tutti i sodomiti? O che altro cercano tutti questi se non la sodisfazione del proprio piacere, alla quale la ingiuria non è che il mezzo di arrivare? Secondo me una ragione completa del sistema penale dantesco non potrà aversi mai, se non vi si pone per base il fondamento sociale, per cui le colpe, tanto sono piú gravi, quanto piú profondamente feriscono il concetto della umanità: di che già diedi un qualche cenno in questo Giornale, ma mi riservo di meglio dimostrarlo in apposito scritto che già tengo in pronto, in attesa del tempo di dargli l'ultima mano.

Giusta quel mio sistema, gli eretici sarebbero stati scelti da D. come campioni della superbia, potendosi qualificare di incontinenti superbi contro Dio: e posti come sono nello stesso piano degli incontinenti, ma dentro della città roggia, essi starebbero, quali rei del peccato d'incontinenza il più grave, a rappresentare il punto di passaggio, la linea di separazione tra gli incontinenti e i maliziosi; al modo quasi che gli usurai, che sono i violenti piú gravi, rappresentano l'anello di congiunzione tra le due classi dei maliziosi, i violenti e i fraudolenti. Mancherebbe sempre, è vero, la rappresentanza fra gl'incontinenti della classe di superbi piú comune.

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