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Dalle cose fin quì dette rileviamo adunque che Dante, incominciando la dolorosa descrizione de' vari tormenti e tormentati del suo Inferno, e ciò per lo scopo cui sin da principio alludemmo, e conoscendo quindi quanto nobile si fosse cotale impresa, allo intento felice della quale, senza paragone, altri sarebbero riusciti sia per maggior autorità e sia per maggior potere, ma che, pur potendo, non vollero e non fecero, rileviamo adunque, diciamo, che non senza ragione intese rappresentarci, qual prima schiera di dannati, la turba degl' ignavi. In questa, se il poeta incluse

l'anime triste di coloro,

che visser senza infamia e senza lodo:

tanto che

Fama di loro il mondo esser non lassa,

ciò fu in generale: ma, in particolare, non è a dirsi come cercasse di enumerarvi anche coloro i quali, non valendosi delle occasioni propizie per fare specialmente il benessere delle genti, si ritirarono vilmente in disparte. con palese detrimento comune. Costoro, a differenza de' primi, possono da una parte aver fatto anche opere buone e degne di lode, ma, dall' altra, perchè si condussero all' uopo nel modo anzi detto, compariscono dinanzi al poeta talmente abietti che per lui diventano meritevoli di essere mischiati, come realmente li mischia, alle altre « anime triste ». Cotesta distinzione sembrerà, a prima giunta, inaccettabile, ma non sarà più tale allorquando avremo compreso che il poeta, recandoci l'indeterminato esempio di colui Che fece, ecc. (ammesso pure che non sia Celestino, ma altra persona qualunque) evidentemente intese di alludere a persona la quale non

invece debba reputarsi. Nessuno può del resto contrastare la sua santità, la quale pure dalla chiesa stessa fu riconosciuta in appresso col rendere Celestino degno dell' onor degli altari: ma per questo non si può negare che egli fosse stato abbastanza dappoco e pusillanime coll'essersi ritirato in un momento calamitoso e non tanto propizio certo per la sede pontificia. — Per il sopra detto vedesi bene che intendiamo di osservare il fatto come fatto e non più là: chè se poi dovessimo giudicare Celestino, quando egli fosse rimasto sulla cattedra di san Pietro, allora dovremmo dire ciò che arguiva per previsione il Petrarca stesso, affermando che quel papa non male fece a deporre il gravissimo carico. In quanto a me, egli dice, credo essere stato ugualmente utile a lui ed al mondo, per l'inesperienza sua delle umane faccende, le quali, per essersi sempre occupato della contemplazione delle celesti, aveva affatto trascurate » (cfr. op. e loc. cit.). Laonde stimiamo, considerando l'un caso e l'altro nei loro effetti, che Celestino fece meglio a ritirarsi vergognosamente a quel modo, che a tenere più oltre il papato; poichè, continuando a regnare, era da aspettarsi, per l'accennata ragione, che egli sarebbe stato forse di maggior detrimento e per la chiesa e per l'Italia in generale.

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può credersi che in realtà sia vissuta di continuo senza infamia e senza lodo, ma, invece, a persona la quale, come ben disse l' erudito F. Pasqualigo, « non fece alcuna volta il bene che poteva fare ». Se vero è ciò e se veri sono i nobili fini, per cui volle in prima porre la scena della schiera de' vili nella Commedia, è ben chiaro che cotale persona (non certo sola), per quanto abbia del resto tenuto una condotta sia pur saggia, nondimeno, per aver commesso un atto o più di viltà, comparisce, come dicemmo, davanti all' inesorabile e fiero poeta degna di essere accomunata con tutti gli altri sciagurati, poichè in conclusione è, per lui, una di quelle che mai non fur vive, e quindi, per la sua bassezza, A Dio spiacente ed ai nemici sui.

Ma già di questo argomento, che primo informa il canto III dell' Inferno, abbiamo abbastanza trattato: fa ora d' uopo che si passi a ragionare di quell' altra specie d' ignavi, o meglio accidiosi, i quali sono puniti nel quinto cerchio infernale e sono ricordati nel canto VII della precitata cantica. Abbiamo detto quell' altra specie d' ignavi, perchè questi ben differiscono dai primi per un lato, per il quale appunto il poeta volle annoverarli tra i più tristi peccatori che popolano la città dolente. Infatti se i primi ignavi sono coloro che niente operarono, specialmente avuto rispetto al vantaggio pubblico, dal fare il quale timidi e paurosi si tennero ognora lontani, e se questi non sono da giudicarsi per iniqui in quanto che col loro ritirarsi non ebbero certo alcuna intenzione di male, altrettanto non può dirsi dei secondi. Come non debbonsi questi stimare assai più spregiabili ed abietti? . . . . Siffatta gente, oltre ad essere stata non curante di compiere alcuna opera che valuta fosse a procacciarle una qualsivoglia fama, fu maliziosa e cattiva, poichè non facendo essa, ebbe invidia e dispetto per chi, laborioso e provvido, passò la vita nel coltivare la mente ed il cuore. Dante la fa parlare onde confessi che

Tristi fummo

nell' aer dolce che dal sol s' allegra,
portando dentro accidioso fummo 1..

1 Vedi la recensione di F. Pasqualigo alla Topo-cronografia del viaggio dantesco di G. Agnelli nell' Alighieri, fas. 3-4, anno III (1891), a pag. 140-42. Quivi a proposito il detto sig. Pasqualigo, parlando degli abitatori dǝll'Antinferno, dichiara non doversi essi chiamare nè vili, nè codardi, nè ignavi, ecc., perchè la viltà, la codardia, ecc. ecc. includono l'idea del vizio e quindi sarebbero eglino viziati: per lo che non avrebbero da stare in quel luogo, ma invece nell'inferno, dove appunto il vizio viene castigato. Costoro, prosegue lo scrittore, non sono già da dirsi «pusillanimi, ma colpevoli di pusillanimità », cioè che talvolta « peccarono per atti di pusillanimità », e reca ad esempio colui Che fece per viltate il gran rifiuto,

Poichè cotali peccatori, per il vizio che principalmente li deturpa, sono relegati nell' Inferno, fa d' uopo ora contemplare qual luogo ivi occupino, ed osservare come giustamente sia stata loro inflitta la pena, che hanno per sempre da soffrire.

Il quinto cerchio infernale, ch'è formato dalla palude Stige e che è tutto pieno di fango e di lorda melma, è il luogo adunque dove sono tuffati tutti

costoro :

Noi ricidemmo 'l cerchio (quarto) all' altra riva (confine del quinto),

sovr' una fonte che bolle, e riversa

per un fossato, che da lei deriva.
L'acqua era buia molto più che persa:
e noi in compagnia dell' onde bige,
entrammo giù per una via diversa.
Una palude fa, c' ha nome Stige,

questo tristo ruscel, quand' è disceso
al piè delle maligne piagge grige.

In prima è utile il riguardare perchè il poeta abbia voluto mettere gli accidiosi in quel sito piuttosto che in altro. -Secondo li antichi, lo Stige era il fiume che accerchiava l' Averno, e quello per cui dovevano passare

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il quale potè essere di santa vita, e nondimeno rendersi colpevole di pusillanimità». Così dicasi dell'altro esempio, che il medesimo pur ricorda, dell' esempio cioè del ..... cattivo coro Degli angeli che non furon ribelli, ecc. Ma allora, domandiamo noi, perchè Dante chiama quelle anime sciaurati, che mai non fur vivi, Che visser senza infamia e senza lodo? Piuttosto è da dirsi, per non tacciar Dante di contradizione, che egli comprese in quella schiera tanto gli uni quanto gli altri, tanto cioè quelli che una o più volte fecero atti di viltà, quanto quelli che vilmente passarono la vita; il che di leggieri si desume dalle asserzioni generiche riguardanti quella turba di gente e dal duplice esempio sopra menzionato. Ma di tale non ben corretta interpretazione dell'egregio sig. Pasqualigo non è da far maraviglia, poichè lo riconobbe anch' egli stesso quando, scrivendomi in data del 9 ottobre 1891, mi dichiarava che « .... del fatto mio non sono molto contento: c' è della verità, non però tutta ». - Riguardo al citato esempio di colui Che fece, ecc. sono da notarsi le prette esagerazioni di alcuni moderni commentatori, e fra gli altri quelle del prof. G. Crescimanno, il quale, nel suo ricordato libro, accettando la comune spiegazione che quegli sia Celestino V, non dubita di domandare e di rispondere: « Costui che fece? Nulla. Quali principii sostenne? Nessuno » e con ciò di darci a credere che il poeta abbia in lui voluto rappresentarci una «fi gura tipica di ozioso (cfr. loc. cit, pag. 22 e segg.). Questo non è vero: per Dante, Celestino è bensì un vile, uno che non ebbe il coraggio di fare in tempo opportuno quel che far doveva, ma non già un ozioso, un fannullone. Se per lui quel papa viene vagamente portato quale esempio di viltà, lo è però in condizioni un po' più temperate: poichè il poeta, biasimando il suo grave atto di piccolo animo, e per questo cacciandolo nella schiera degli altri sciagurati, ci pare che nol faccia perchè lo si giudichi aver sempre vissuto vilmente, ma perchè, invece, se ne valuti l'entità di quell'atto medesimo. Il quale anzi è tanto riprovevole per Dante, che se lo induce a procedere in quel modo, ciò avviene per le ragioni che noi più sopra esponemmo.

tutti i dannati 1. Dante pure, valendosi di quella credenza, fa si che esso circondi la città di Dite e che lo si traghetti dalle anime che debbono andare in quel luogo di pianto e di dolore. Inoltre, valendosi anche dell' etimologia della parola Stige, trae profitto da quella palude e caccia quivi appunto coloro che furono irosi e tristi 2. - Osservisi ora che la grande maestria del poeta non si arresta solo a far in modo che lo Stige sia destinato per que' miseri, ma va più innanzi, e cerca che eglino abbiano in quello una punizione ben analoga al loro peccato.

Infatti, mentre che Dante pone gl' iracondi impantanati in quella « morta gora » :

Ed io, che a rimirar mi stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, e con sembiante offeso.
Queste si percotean, non pur con mano,

ma con la testa e col petto e co' piedi,
troncandosi co' denti a brano a brano.
Lo buon Maestro disse: Figlio, or vedi
l'anime di color cui vinse l'ira :

ma non sì che non possan venire su a galla, gli accidiosi invece li fa stare nel fondo, involti nel loto e nel fango:

ed anche vo' che tu per certo credi che sotto l'acqua ha gente che sospira,

e fanno pullular quest'acqua al summo, come l'occhio ti dice u' che s' aggira. Fitti nel limo .

La ragione, per cui il poeta dispone così, è facile ad intendersi, quando si pensi alle gravi turpitudini delle quali sono gli accidiosi imbrattati. Costoro, essendo assai più spregiabili degli irosi, perchè, oltre ad aver avuto ira, nutrirono in seno invidia e livore per coloro che, diversamente da essi, furono laboriosi e solerti, meritano quindi che sieno cacciati nel più profondo dello

1 Non crediamo inutile l'osservare che Dante nel dipingere que' miseri non pare abbia avuto alcuna mira particolare per ciò che riguarda la loro pigrizia, come si può desumere dal testo della divina Commedia, quale la ebbe per gli altri ignavi sopra descritti. Mostrandoci gli accidiosi è certo però che, mentre egli li rimproverava per essere stati trascurati e negligenti, più gl'incalzava di detestarli perchè, al tempo stesso, furono tristi ed invidiosi verso coloro che saviamente operarono. E a proposito della suesposta terzina dichiariamo fin d'ora che noi ci atteniamo alla comune lezione di « accidioso, non accettando di sostituire a questa l'altra d'« invidioso» come vorrebbero alcuni moderni, i quali a propugnare la loro tesi hanno scritto non poco. Ma su ciò ritorneremo più innanzi.

2 Cfr. ad es. Virgilio nell' Eneide, lib. VI, vv. 438-9.

Stige, per dover stare ivi appartati dagli altri, medesimamente come fecero su nel mondo, dove stettero ritrosi, lungi da ogni fatica. La qual pena, del resto, ben risponde anche al modo da essi usato con que' vizi medesimi; onde, com' eglino già conservarono tali vizi nel fondo dell'animo, così ora essi, invece, debbono essere trattenuti nel fondo di quella palude, le cui qualità ed entità non v' ha chi non riconosca trovarsi in perfetta corrispondenza con le qualità ed entità degli anzidetti peccati. Aggiungi poi che quell' interno soffocamento da essi provato in vita, cagionato da quei vizi, e per cui quasi non poterono parlare, per altri motivi lo riprovano adesso che sono in quel luogo tenebroso. Infatti, costretti a riconoscere la gravità dei loro falli, debbono laggiù manifestarli e mostrare di averne dolore; ma tale confessione e pentimento non possono appieno dichiarare perchè l'acqua ed il fango hanno loro quasi turata la bocca e la gola.

Quest' inno si gorgoglian nella strozza,

chè dir nol posson con parola integra.

Dal che si rileva adunque che anche qui « lo contrappasso quì «<lo contrappasso » viene osservato con «< giusto giudizio », tanto che, oltre ad avere quelle punizioni di cui sopra si è detto, gli accidiosi debbono dolorosamente sospirare (la qual cosa si fa manifesta per il pullular di quell' acqua al sommo) ed attristarsi, come essi stessi dichiarano, a palese conferma della vita già da loro passata fra il rodimento e l'inquietezza dell' invidia e dell' ira, che ognora provarono per una continuata inerzia e viltà 1.

La voce Stige deriva dalla Greca túyo:, che significa odio, tristezza o simili, onde anche Dante stesso lo chiama « tristo ruscel» e dice maligne» le sue « piagge grige».

α

1 Non va dimenticata la bellezza artistica di ciascuna delle due sopra riportate terzine, che cominciano: Che sotto l'acqua ha gente, ecc., e Fitti nel limo dicon: Tristi, ecc. La prima, specialmente pel verso E fanno pallular quest'acqua al summo, è così parlante da sembrarci di vedere una grande distesa di acqua, alla cui superficie si mostrano innume revoli bolle di quell'acqua medesima, prodotte da una causa immediata quale è, nel caso nostro, il continuo sospirare degli accidiosi in quella palude sepolti. L'altro terzetto pure è degno di osservazione per il contrasto in cui il poeta pone la tristezza di quella gente colla giocondità dell' aer dolce, che dal sol s'allegra, il qual sole però non fu sufficiente a rallegrare i detti miseri. La rispondenza fra i vizii degli accidiosi e le punizioni loro inflitte fu molto lodevolmente mostrata dal Boccaccio nel suo noto Comento sulla d. C. In quanto alla interpretazione del belletta negra» e fumosa (cfr. il v. Se 'l fummo del pantan nol ti nasconde VIII, 12) senz' altro riferiamo le parole di lui. E per l'essere, egli dice, la palude nera, vuol (Dante) s'intenda la tenebrosa lor vita, e la oscurità delle loro opere, delle quali mai in luce alcuna non apparve.... L'essere la palude nebulosa o fumosa, che vogliam dire, è a dimostrare la caligine della ignoranza, della quale furono offuscati gli occhi dello intelletto loro, i quali riguardar non vollono, sè essere uomini nati ad esercizio laudevole, e non a detestabile ozio» (cfr. op. cit., lez. XXXII).

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