Non fur mai tutte spente, a quel ch'i' veggio, Ma ricoperte alquanto le faville;
E temo no 'l secondo error sia peggio. Per lagrime ch'i' spargo a mille a mille Conven che 'l duol per gli occhi si distille Dal cor c'ha seco le faville e l'esca,
Non pur qual fu, ma pare a me che cresca. Qual foco non avrian già spento e morto L'onde che gli occhi tristi versan sempre? Amor, avegna mi sia tardi accorto, Vol che tra duo contrari mi distempre; E tende lacci in si diverse tempre,
Che, quand' ho più speranza che 'l cor n'esca, Allor più nel bel viso mi rinvesca.
SONETTO XLIII.
Se col cieco desir che 'l cor distrugge, Contando l'ore no m'inganno io stesso, Ora, mentre ch'io parlo, il tempo fugge Ch'a me fu inseme ed a mercè promesso. Qual ombra è sì crudel che 'l seme adugge Ch'al disïato frutto era si presso?
E dentro dal mi' ovil qual fera rugge? Tra la spiga e la man qual muro è messo? Lasso, nol so; ma si conosco io bene
Che, per far più dogliosa la mia vita, Amor m'addusse in si gioiosa spene. Ed or di quel ch'i' ho letto mi sovene: Che 'nanzi al dì de l'ultima partita Uom beato chiamar non si convene.
SONETTO XLIV.
Mie venture al venir son tarde e pigre, La speme incerta, e 'l desir monta e cresce, Onde il lassare e l'aspettar m'incresce; E poi al partir son più levi che tigre. Lasso le nevi fien tepide e nigre,
El mar senz'onda, e per l'alpe ogni pesce, E corcherassi 'l sol là oltre ond'esce D'un medesimo fonte Eufrate e Tigre; Prima ch'i' trovi in ciò pace nè triegua, O Amor o Madonna altr'uso impari,
Che m'hanno congiurato a torto incontra: E s'i' ho alcun dolce, è dopo tanti amari, Che per disdegno il gusto si dilegua. Altro mai di lor grazie non m'incontra.
La guancia, che fu già píangendo stanca, Riposate su l'un, signor mio caro; E siate ormai di voi stesso più avaro A quel crudel ch'e' suoi seguaci imbianca: Coll'altro richiudeto da man manca
La strada a' messi suoi ch' indi passaro, Mostrandovi un d'agosto e di gennaro, Per ch'a la lunga via tempo no manca; E col terzo bavete un suco d'erba,
Che purghe ogni pensier che 'l cor afflige, Dolce a la fine e nel principio acerba.
Me riponete ove 'l piacer si serba,
Tal ch'i' non tema del nocchier di Stige; Se la preghiera mia non è superba.
BALLATA IV.
(CANZONE XIV.)
Perchè quel che mi trasse ad amar prima Altrui colpa mi toglia,
Del mio fermo voler già non mi svoglia. Tra le chiome de l'òr nascose il laccio, Al qual mi strinse, Amore;
E da' begli occhi mosse il freddo ghiaccio Che mi passò nel core
Con la vertù d'un subito splendore, Che d'ogni altra sua voglia,
Sol rimembrando, ancor l'anima spoglia. Tolta m'è poi di que' biondi capelli, Lasso, la dolce vista:
El volger di duo lumi onesti e belli Col suo fuggir m'attrista:
Ma, perchè ben morendo onor s'acquista, Per morte nè per doglia
Non vo' che da tal nodo Amor mi scioglia.
SONETTO XLVI.
L'arbor gentil, che forte amai molt'anni, Mentre i bei rami non m'ebber a sdegno, Fiorir faceva il mio debile ingegno
A la sua ombra, e crescer negli affanni.
Poi che, securo me di tali inganni, Fece di dolce sè spietato legno, I' rivolsi i pensier tutti ad un segno, Che parlan sempre de' lor tristi danni. Che pora dir chi per amor sospira, S'altra speranza le mie rime nove Gli avesser data, e per costei la perde? Ne poeta ne colga mai nè Giove
La privilegi; ed al sol venga in ira Tal che si secchi ogni sua foglia verde.
SONETTO XLVII.
Benedetto sia 'l giorno e 'l mese e l'anno E la stagione e 'l tempo e l'ora el punto El bel paese e 'l loco ov'io fui giunto Da duo begli occhi che legato m'hanno; E benedetto il primo dolce affanno
Ch'i' ebbi ad esser con Amor congiunto, E l'arco e le saette ond'i' fui punto, E le piaghe che 'n fin al cor mi vanno. Benedetto le voci tante ch' io
Chiamando il nome di mia Donna ho sparte, Ei sospiri e le lagrime e 'l desio;
E benedette sian tutte le carte
Ov'io fama le acquisto, e 'l pensier mio Ch'è sol di lei, sì ch'altra non v'ha parte.
SONETTO XLVIII.
Padre del ciel, dopo i perduti giorni, Dopo le notti vaneggiando spese Con quel fero desio ch'al cor s'accese Mirando gli atti per mio mal si adorní; Piacciati omai, col tuo lume, ch' io torni Ad altra vita ed a più belle imprese; Si ch'avendo le reti indarno tese Il mio duro avversario se ne scorni. Or volge, Signor mio, l'undecimo anno Ch'i fui sommesso al dispietato giogo, Cho sopra i più soggetti è più feroce Miserere del mio non degno affanno; Reduci i pensier vaghi a miglior luogo; Ramenta lor com' oggi fusti in croce.
BALLATA V.
(CANZONE XV.)
Volgendo gli occhi al mio novo colore Che fa di morte rimembrar la gente, Pietà vi mosse; onde, benignamente Salutando, teneste in vita il core. La frale vita ch'ancor meco alberga, Fu de' begli occhi vostri aperto dono E de la voce angelica soave.
Da lor conosco l'esser ov' io sono; Che, come suol pigro animal per verga, Cosi destaro in me l'anima grave.
Del mio cor, Donna, l'una e l'altra chiave
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