Slike stranica
PDF
ePub

Finita la nostra esposizione sulle due specie d'ignavi, non vogliamo tralasciare di far una importante ma breve considerazione, la quale appunto

stesso cioè che costituì il suo tormento nella vita» (cfr. loc. cit., pag. 47-8). Come vedesi, l'accidia è dal Faucher considerata su per giù medesimamente che dal Bartoli, del parere del quale in proposito ragionammo assai, riconoscendo però che egli invece non volle far tutt'uno dell'accidia coll' ignavia per le ragioni già a suo luogo esposte. Delle altre asserzioni, ancor esse poco o niente accettabili, del medesimo sig. Faucher (e ve ne sarebbe più d'una) non tenia mo parola per non dilungarci troppo. Rimettiamo la cosa a chi, pensando come noi, voglia intrattenervisi. Frattanto vogliamo rimandare il lettore alla recensione che dell'opuscolo del signor Faucher fa il ch. F. Ronchetti, col quale se conveniamo in molti punti di ciò che espone, non però ci accordiamo anche circa il punto principale, vale a dire dell' entità dell'accidia e della sua debita collocazione nell' Inferno dantesco (cfr. Il Giornale dantesco an. I, quad. I, pag, 33-5). Fra le varie dissertazioni fatte recentemente sull'argomento in parola non vogliamo lasciar passare inosservato anche lo scritto dal titolo Gli accidiosi e gl' invidiosi nell' « Inferno » di Dante (cfr. tale scritto in Alighieri, an. I, pag. 168-83) del dott. L. Filomusi Guelfi, tanto più che questi « è, senza alcun dubbio », sempre della stessa opinione anche in un altro scritto in questi giorni pubblicato nel Giornale dantesco (cfr. periodico cit., an. I, quad. VIII), intitolato La struttura morale dell' «Inferno» di Dante. Con lui adunque se ci troviamo d'accordo in piu d'una quistione, e innanzi tutto nel fatto che l'accidia è peccato d'incontinenza» (cfr. la pag. 174 del cit. loc. dell'Alighieri) e nell'altro che la «parentela» che v'ha fra l'accidia e l'ignavia, non basta a persuaderci che Dante abbia collocati gli accidiosi con gl'ignavi nell' Antinferno» (cfr. il loc. cit. pag. 176), non però conveniamo con lui per quel che si riferisce al collocare gli accidiosi e gl'invidiosi insieme nello Stige. Nonostante che riconoscasi giustissimo quel che egli assevera circa le «relazioni e affinità» le quali corrono fra il peccato d'accidia e d'invidia, e quindi in molta parte ciò che egli combatte delle cose dette dal Bartoli, delle cui asserzioni alcune pur noi riportammo cercando di mostrarne la falsità, bisogna pur dire che quello che a lui « sembra provato all'evidenza, che gli accidiosi sono, con gl'iracondi, nel quinto cerchio; e che di essi si parla, con un miracolo di ben ponderata concisione (cfr. il loc. cit., pagg. 182-83), ci lascia invece sempre sospesi, perchè la ponderata concisione da lui notata ci fa piuttosto capire che sole due sono le specie di peccatori dello Stige, gli irosi cioè e gli accidiosi: la qual cosa più sopra sostenemmo. Che se poi dovessimo ammettere che vi fossero puniti anco gl'invidiosi, con forse maggior ragione dovremmo eziandio ritenere che i superbi pure sieno in quella palude puniti « e che loro rappresentante sia Filippo Argenti », perchè costoro (cioè quelli che si vorrebbero essere i superbi fra i dannati di detto luogo) se non altro a prima giunta possono sembrare tali per il fatto dell'orgoglioso che il poeta dà a quel fiorentino spirito bizzarro, la qual parola, almeno apparentemente, ce ne dà il diritto. Ma anche qui il sig. Filomusi dichiara (e con tutta ragione) che a nessun patto... si può ritenere che i superbi sieno nel quinto cerchio »> (cfr. il suo artic. Ancora dei superbi nell' « Inferno di Dante in Alighieri, an. I, pag. 309-13 e l'altro pure suo: I superbi nell' «Inferno» di Dante: ediz. Bona, Torino, 1889). Però, se in questo caso ha mille ragioni da vendere (nel negare ben inteso che i superbi formino una classe a sè nello Stige), non ci pare del resto che si mostri saviamente allorquando non vuol riconoscere un fatto chiarissimo, qual è che gl'irosi dello Stige sono da Dante puniti non solo per il peccato dell'iracondia, ma eziandio per quello della superbia. Ne fanno testimonianza i versi stessi del poeta. Ma già di questo tenemmo parola a suo luogo, sicchè de hoc sat est.

[ocr errors]
[ocr errors]
[ocr errors]
[ocr errors]

s' aggira su questa domanda: Perchè Dante, nel descriverci le due tristi sette, dà maggior rilievo alla prima? Non è forse la seconda più vile e più abietta? Noi già vedemmo che egli, giudicando gli uni e gli altri dannati, secondo la gravità delle loro colpe, assegnò a quelli una punizione più mite, ma pur sempre crudele, a questi poi un castigo ben più duro e ben ancora più doloroso: sicchè non è a dirsi che nel giustiziarli non fosse dovutamente saggio ed equo. Ma non per tale ragione credette il poeta di doversi intrattenere maggiormente sui secondi, che sono gli accidiosi e coloro appunto i quali meritarono una più cruda condanna. I motivi, crediamo, che lo indussero a ragionare più a lungo sull' ignavi propriamente detti, sono due i principali, ben fra loro dipendenti. — Ii primo e il più importante, e quello per il quale dimostrammo altrove come Dante conoscesse, trovandosi in tempi agitatissimi, quanto fosse necessario, per il bene comune delle genti, il prestar l'opera propria sia in pubblico. sia in privato nelle lotte ed in qualunque altro evento o civile o morale o religioso, e quanto quindi convenisse che ogni viltà quivi fosse morta 1. Per la qual cosa, intendendo egli disvelare la turpitudine dell' ignavia e di coloro che ne peccarono, volle dare un salutare ammaestramento ai suoi contemporanei e specialmente ai fiorentini, tra i quali senza dubbio dovesse ravvisare alcun triste vigliacco. L'altro motivo poi, al primo conseguente, dal quale fu spinto il poeta a farci degl' ignavi una più ampia pittura, è l'odio grandissimo che egli nutriva verso quella siffatta gente, che, secondo lui, era più degna di disprezzo e di rifiuto che non fosse ogni altra sorta di peccatori, perchè giammai fece parlare di sè nè in bene nè in male. Per questo adunque infierisce Dante contro i vili e assai estesamente ne ragiona, ma però al tempo stesso con un certo malincuore, che vien testimoniato da quel Non ragioniam di lor, ma guarda e passa, col quale verso vorrebbe interrompere la sua descrizione: la quale, se poi seguita, è per lo scopo appunto di fornirci un quadro completo nei suoi foschi colori della

setta de' cattivi,

a Dio spiacenti ed a' nemici sui.

1 Inf., c. III, v. 15. Queste ed altre consimili parole, che Virgilio, guida di Dante fra le genti dolorose, a lui rivolge per persuaderlo ad intraprendere con animo coraggioso e franco quel mistico viaggio per il suo e per l'altrui meglio, mi pare facciano un bel riscontro con quelle da noi dette intorno all'intendimento finale che il poeta ebbe nel descriverci prima di tutte la setta degli sciaurati, cioè dei vili ed anzi nel dar loro un luogo a parte il quale non è propriamente nè fuori nè dentro l' inferno. Inoltre è da notarsi che quel primo fatto avvenne subito innanzi che Dante guardasse e vedesse quelle « anime triste ».

È del resto vero che l'altra specie di ignavi, o, meglio, gli accidiosi, ancora essi non vollero faticare, nè attendere ai loro offici, ma però, essendo stati insieme tristi e maligni verso chi fu solerte e saggio, dovettero, almeno in questo caso, darsi da fare per mettere male negli altri: la qual cosa, se turpissima parve al poeta, pur tuttavia non destò la sua maraviglia 1, onde non potè fare a meno di metter quei miseri insieme con tutti coloro.

C' hanno perduto 'l ben de l'intelletto,

nè trattarli, per quel che riguarda la collocazione generale, in modo differente dagli altri peccatori, coi quali hanno comunanza e per rei disegni e per inique azioni.

Pisa, 15 febbraio 1894.

GIORGIO TRENTA.

1 Con ciò intendiamo riferirci non tanto al fatto delle dette colpe, quanto al fatto del numero di quelli che le commisero. Non così può dirsi rispetto agl' ignavi veri e proprî, della qual gente, già ricordammo aver Dante asseverato, ch' io non averei creduto, Che morte tanta n'avesse disfatta.

DI UNA NUOVA LEZIONE DANTESCA

La nuova, ma non certo migliore, variante del verso di Dante, (Purg., V, 37), Nè, SOL CALANDO, nuvole d'agosto, proposta dal compianto ed illustre prof. Adolfo Borgognoni, come la seguente: Ne SOLCAR LAMPO nuvole d'agosto, mi parve tanto strana, rileggendo tempo addietro il Fanfulla della domenica (anno II, num. 6, 8 febbr. 1880), che mi sono proposto di esaminarla e studiarla sui confronti delle edizioni e dei manoscritti più autorevoli, per poi proporla a discussione, sulle colonne del Giornale dantesco, a maggior luce del divino poema.

Anzitutto, ciò che milita per la lezione comune, adoperata dal Witte, dal Fraticelli, dal Tommasèo, dal Lubin, dallo Scartazzini (per citare le più conosciute, le più vaste, le più recenti e le più complete, e perchè anche compilate sulle migliori di più antica data) è la stretta concatenazione logica del contesto, che in quell' inciso viene esplicato.

La sospensione, usitatissima, del senso nel terzo verso di ogni singola terzina, è qui più che comune, ciò che non si potrebbe dire, invece, adoperando la lezione del prof. Borgognoni, nè tampoco sostituendo quella del prof. Camillo Belli nel regio Liceo di Brescia (Fanfulla della domenica, 15 febbr. 1880, n. 7) che suonerebbe: Nè SOLCA lampo nuvole d'agosto. E, prima di tutto, ecco la lezione più in uso: Vapori accesi non vidio sì tosto

di prima notte mai fender sereno,
nè, sol calando, nuvole d'agosto,

che color non tornasser suso in meno.

Orbene. Ad avvalorare il proprio ragionamento, il compianto prof. Borgognoni tenta confutare, anzitutto, l'opinione di qualche commentatore che opina essere i vapori accesi, del primo verso, quelli stessi che fendendo il sereno, nel secondo, fendono le nuvole d'agosto nel terzo.

A dire il vero la sua illazione zoppica evidentemente, quando egli non ritiene che per dizione vapori accesi, nel terzo verso s'abbia a intendere lampi, ma che colla stessa dizione di vapori accesi Dante abbia inteso chiamare, nel primo verso, le stelle cadenti. Il Casini spiega così: « Va» pori accesi. Paragona la velocità dei due messaggeri nel ritornare verso >> la schiera delle anime e quelle dei vapori accesi o stelle cadenti, che tra» versano per il cielo sereno al principio della notte, (cfr. Par., XV, 13 e segg.), e a quella dei baleni, che al tramontar del sole fendono le nuvole »> nella calda stagione; e la velocità è bene espressa nell' incalzante suc» cedersi delle parole, pregio che manca all'imitazione che di questa simi» litudine fece il Frezza, Quadr. IV, 14: Vapore acceso nel mese d'agosto, » Mai non trascorre in ciel tanto veloce che è comparazione più comprensiva, ma fredda e scolorita ». (Vedi : Tommaso Casini: Commento alla divina Commedia. Firenze, Sansoni, 1893, pag. 283-4).

[ocr errors]

>>

E di eguale opinione è pure il Fraticelli.

Volendoli, adunque, lampi, questi secondi, il Borgognoni s' avvicina al Casini, che spiega chiaramente (come si vede) il duplice significato che Dante avrebbe inteso di dare a vapori accesi, cioè stelle cadenti, nel primo verso, e lampi rispetto al senso di fender essi le nuvole d'agosto.

Dello stesso parere (che sieno, cioè, i lampi nel terzo verso significati, gli stessi rapori accesi del primo) è il Tommasèo, che, nel suo Commento (Venezia, tip. del Gondoliere, 1837), annota a vapori: «(Georg. 1, 365) Saepe » etiam stellas, vento impendente, videbis Praecipite coelo labi, noctisque >> per umbras Flammarum longos a tergo albescere tractus......» e le spiega, senz'altro, stelle cadenti. E, poi, alla voce nuvole: « Nè vapori ac» cesi fendono sì tosto le nuvole estive sul calar del sole, quando i lampi » son più visibili e spessi ».

Il Tommasèo sta dunque per i lampi; soggiunge poi, subito: «L'Ot» timo intende che le nuvole fendano il sereno, le nuvole che per la calura » dell' aere discendono alla terra quasi cacciate dal detto calore ». E convalida la interpretazione con il passo di Isaia: (LX, 8): Qui sunt isti, qui ut nube volant?

Assodata dunque anche l'imitazione biblica, inspirata al noto salmo del profeta: Surge, illuminare Jerusalem,.. si ha qui la chiave di tutta la terzina, alla formazione della quale contribuirono non poco Virgilio ed Isaia; stelle cadenti, cioè, nel primo, e nuvole, nel terzo; e tale dovrebbe esser anche l'opinione generale dei commentatori, poichè così ne sarebbe chiaritò il senso meglio che non colle altre interpretazioni.

Della stessa opinione (modificata, come vedremo) è anche il nostro Lubin (Comedia. Padova, Penada, 1881). Stando anch' egli per le stelle cadenti circa i vapori accesi, egli fa notare che monsignor Gaiter propone il terzo verso si debba leggere Nè al suol calando, nuvole d'agosto e ciò dandone argomento la distinzione fatta da Brunetto Latini nel suo Tesoro, ove egli distingue due specie di stelle cadenti, e precisamente, com' egli dice, queste seconde cadere dal cielo sereno in terra fendendo l'aere che è più denso, quanto più vicino al suolo (il Propugnatore, V, XIII. Studì filologici, storici).

[ocr errors]
[ocr errors]

a

Ammettendo come buona la spiegazione di questo al suol calando, ne verrebbe convalidata l'altra lezione dei Landino e Vellutello, che suona: Nè sol, calando nuvole d'agosto; i quali spiegano: (Landino) « Scrive Ari» stotile, che i vapori terrestri tirati in alto dal sole, alcuna volta sono sì grossi e corpulenti, che non passano la regione di mezzo dell' aria, ma » sono congelati dal freddo, overamente si dissolvono, e caggiono giù, ma quelli, che sono più sottili, s' inalzano più. Et di questi i meno viscosi dal » caldo si risolvono in vento. I più viscosi nè si potendo risolvere, salgono >> in tanto, che vicini alla spera del fuoco s'accendono, e se sono di piccola » quantità, presto si risolvono, e così accesi caggiono in forma di stella ». Egli opina di questi parlare Dante; ma, soggiunge, se sono di molta materia, dura assai il fuoco a risolvergli in forma, che alcuna volta ardono non solo molti giorni, ma ancor più mesi. - A nuvole d'agosto, nota, poi: Quando il sole è nel leone e massime quando è presso alla canicola, in»terviene che le nuvole spinte dal caldo velocemente scendono. Perchè >> sempre il caldo incluso con l'humido genera vento e il vento spigne « le nuvole ».

Udiamo un po' anche il padre Baldassare Lombardi (Padova, tip. della Minerva, 1822): « Di mezza notte (dice egli) legge il Vat. 3199. Fender sereno, strisciare pel sereno aere, Ne sol calando in nuvole d'agosto la Nidobeatina; Nè sol calando nuvole d'agosto le altre edizioni. E nota:

« PrethodnaNastavi »