più sicuro di queste sono le lingue comuni, perchè presuppongono attinenze politiche forti, relazioni commerciali continue, traffichi giornalieri, costumi ed usi simili, civiltà uniforme, unicità o fusione compiuta di schiatte: sì che può dirsi esistere la nazionalità comune quando esiste la lingua comune; non perchè la lingua sia la nazionalità, ma perchè lingua comune non può trovarsi dove non sono gli elementi costitutivi della nazionalità comune. Le lingue sono il prodotto più completo delle individualità nazionali, lo specchio dello stato morale e materiale de' popoli, la la loro manifestazione personale. Così è che l'immistione delle nuove lingue altera ed offusca la purezza della nazionalità; ed i popoli che di questa hanno, se non la scienza, il sentimento, a niuna cosa tanto instintivamente ripugnano quanto ad accogliere e far propria una lingua forestiera; di che ne forniscono esempi solennissimi la Polonia, l'Ungheria e le provincie italiane soggette alla dominazione austriaca. Se un popolo dominatore giunge a dare la propria lingua al popolo dominato, per questo solo fatto lo sottrae alla nazionalità alla quale apparteneva e l'aggrega alla propria. Tutti i paesi conquistati che adottano la lingua de' conquistatori, o tutti i popoli conquistatori che adottano la lingua de' conquistati, abdicano la loro nazionalità: così la storia c'insegna essere avvenuto in Inghilterra, in Francia e nelle Spagne. Ma quando vinti e vincitori ritengono la propria lingua, le due nazionalità rimangono divise ed ostili, e il loro divorzio politico presto o tardi si compirà. La parola non è che il segno del pensiero, ed è quindi successivamente creata e perfezionata dal pensiero, incompleta quand'è incompleta, barbara quand'è barbara. La parola non può esistere senza l'idea che significa, come non può esistere in uno specchio l'immagine di un oggetto che non v'è. Diversi sono anco appresso le diverse nazioni i pensamenti, i concetti, le fantasie; diversi i modi di apprendere le cose, di ordinarle e di esprimerle; onde non solamente le parole, ma anche la forma di ciascun linguaggio riesce specificamente diversa da tutti gli altri. La lingua latina parlata da un popolo indurito ne' travagli della guerra non era soave come la greca; nè questa ardimentosa e concisa come la latina; sì che Orazio potè paragonare questa al falerno e quella al vino di Scio (1). L'unità delia lingua si costituisce e si decompone secondo il costituirsi e il decomporsi delle nazionalità: quando l'Italia fu Etruria, l'unità della lingua etrusca prevalse : questa si decompose col decomporsi di quell'impero e di quella civiltà, e molte delle sue parole rimaste nella religione e nelle leggi non erano più intese a' tempi di Cicerone e di Varrone. L'unità romana sorse quando la lingua latina, nata e venuta a perfezione nel Lazio, prevalse sulle altre lingue della penisola, e specialmente sull'etrusca. «Ora tutti sono Romani » parlando degli Italiani, scrisse Strabone; e Plinio chiamò l'Italia rerum domina, nome che prima davasi alla sola Roma. Allora le lingue primitive si degradarono in dialetti, e perderono gran parte dei loro pregi, rimaste patrimonio del volgo. Vennero di poi le invasioni delle genti barbare a rompere la nostra unità politica e filologica; ma la mutazione di sedi, come scrisse il Petrarca, non cambia la patria alla quale si va, ma gli uomini che vanno; ed i Galli andati nell'Asia, Asiatici, e gli Italiani andati in Frigia, Frigi, e questi dopo l'eccidio di Troia tornati in Italia, di nuovo diventarono Italiani. Così i nostri trasportati nella Gallia e nella Germania, s' imbevettero della natura di quelle parti e de' costumi barbarici, e i Milanesi stabiliti da' Galli e Galli una volta, ora, come uomini mitissimi, (1) Sat. 1, 10. non serbano alcun vestigio della vetusta loro origine : così dalla forza del cielo si moderano gli umani ingegni (1) ». Federigo II comprese che valido ed efficace strumento di unità sono le lingue comuni, e si rivolse alla lingua volgare, che vedea sorgere vivace e rigogliosa. « Coloro ch'erano di alto cuore e di grazia dotati, scrivea Dante, si sforzarono di aderire alla maestà di sì gran principi (Federigo Cesare ed il suo ben noto figliuolo Manfredi); talchè in quel tempo tutto quello, che gli eccellenti Italiani componevano, nella corte di sì gran re primamente usciva. E perchè il loro seggio reale era in Sicilia, accadde che tutto quello che i nostri predecessori composero in volgare si chiama siciliano, il che ritenemmo ancora noi, e i posteri nostri non lo potranno mutare ». E non l'avrebbero mutato se tutta Italia si fosse unita sotto la dominazione di Federigo II e dei suoi figliuoli. « L'idioma volgare poetico, aggiungeva il Petrarca nella prefazione delle Epistole familiari, rinato non molti secoli addietro, com'è fama, appo i Siciliani, in breve tempo si estese per tutta l'Italia, rimasta priva di un centro politico, divisa e sminuzzata, ebbe tante lingue per quanti erano dialetti, sforzandosi ciascun dialetto di prevalere sugli altri, appunto come ciascuna repubblica o principato intendea di fare nell'ordine politico. I dialetti diventarono lingue scritte: La Sacra Scrittura ebbe traduzioni almeno parziali in ciascuna di esse, onde il Passavanti di ciò dolendosi scrisse: << Quali col volgare bazzesco e croio la 'nduriscono, come sono i Lombardi; quali con vocaboli ambigui e dubbiosi dimezzando la dividono, come Napolitani e Regnicoli; quali coll'accento aspro e ruvido l'arrugginiscono, come sono i (1) FRAN. PETR. Ad Uguti. de Thennis Apolog. Romani; alquanti altri con favella rusticana, maremmana, alpigiana l'arrozziscono, ed alquanti men male degli altri, come sono i Toscani, malmenandola, troppo la 'nsudiciano e abbruniscono . . . E sarebbe molto necessario che si vietasse, che non se ne volgarizzasson più; e' fatti si correggessono per persona, che il sapesse ben fare ». Sino nel secolo XVI, quando la prevalenza della lingua toscana sulle altre non era più dubbia, noi troviamo, per tacere di molti altri, il Firenzuola, il Castiglione e monsignor Della Casa parlare della lingua lombarda, romana o napolitana come di lingue particolari, e diverse affatto dalla toscana. Di poi vennero i pedanti a litigare e svillaneggiarsi sul primato filologico, e di quelle dispute vergognose, e spesso ree, l'eco giunse sino a noi. Da ultimo, il fragore delle armi coprì quel garrito importuno, si fece silenzio, e tutta Italia convenne, quasi maravigliata, in questo, ch'ella ha una lingua comune, e che perciò ell'è moralmente una nazione. Or tutto ciò che moralmente è, ogni idea che esiste tende a trasformarsi in fatto, essendo ogni creazione una idea estrinsecata. Se l'idea si estrinseca senza contrasto, siegue ciò che dicesi propriamente una trasformazione; se incontra ostacoli, si rinvigorisce, condensa, accumola, quasi torrente impedito nel suo natural corso, da ultimo irrompe e produce ciò che chiamiamo una rivoluzione, la cui virtù sovversiva sta in ragione delle resistenze. Imperocchè le idee non possono perire, nè fare effetti perituri; e se il contrario pare alle volte accadere, ciò è soltanto quando le sono patrimonio di pochi, ed i più non trovansi apparecchiati a riceverle: ed è il caso dell'idea nazionale italiana, la quale, nata nelle rovine dell' impero romano, non ha potuto ancora completamente estrinsecarsi. IV. GENESI DELL' IDEA NAZIONALE: TEMPI ANTERIORI A DANTE « Quest'anno il re de' Goti Teodorico, chiamato dai voti di tutti, entrò in Roma: egli fu umano col senato e liberale col popolo. » Queste parole scrisse Cassiodoro, quasi epitafio del mondo romano, e si ritirò in un convento. Gregorio Magno volse intorno lo sguardo, non vide che sepolcri e rovine, e quasi spaurito eslamò; in solitudine vacat terra! La sede vacante del primato romano fu occupata dal papa, la chiesa prese luogo dell'impero ; << ma avendovi abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente nè di tal virtù che l'abbia potuto occupare il restante d'Italia e farsene principe; non è stata dall'altra parte sì debole, che per paura di non perdere il dominio delle cose temporali la non abbia potuto convocare un potente che la difenda contro a quello che in Italia fosse diventato troppo potente (4) ». Il Villani chiamava i Romani «il comune popolo » ; e poi aggiunge: << Ma nota, che la grande potenza de' Romani non era solamente in loro, se non per tanto ch'erano capo e guidatori; ma tutti i Toscani principalmente, e poi tutti gli Italiani seguivano nelle guerre e nelle battaglie loro, ed erano tutti chiamati Romani ». Ora ciò che mancò all'Italia fu appunto questo, che la Chiesa non seppe, o per la sua natura non potè supplire al comune popolo, e farsi capo e guida degl' Italiani, sì che tutti in unico nome si confondessero. (1) MACHIAVELLI. Disc. l. 1, cap. XII. |