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Prima di venire a dichiarare quel dubbio, si osservi che il medesimo numero ritorna, con senso allegorico e misterioso, nelle canzoni degli altri poeti del trecento. Questo si vedrà, per esempio, nella bellissima allegoria di Cino da Pistoia che incomincia così:

Nel tempo della mia novella etate.

In quella canzone, l'amico di Dante dipinge i suoi combattimenti con cinque giovani, adorni di varie divise, che raffigurano i cinque sensi, e con sette guerrieri, immagini dei sette vizi massimi, ai quali vengono a unirsi sette donne crudeli; per quelle s'intendono i vizi contrari, come la viltà lo è della superbia, o la prodigalità dell' avarizia. Sul fine di tali avventure, il poeta, vincitore del peccato e degli errori della giovinezza, accenna all'età sua in questi termini:

Venti duo mila cinquecento e sei

che aggio camminato. .

Di quel numero 22506 non si saprebbe che fare, se il lettore non con. siderasse che sono giorni (1); e allora si vede come 2250661 X 365 +241. Cino nacque nel 1270. Ebbe i 61 anni nel 1331. In quei 61 anni, i bisestili sono al numero di quindici. Dunque il numero accennato risponde a 61 anni giuliani e 226 giorni, o, in altri termini, a 61 anni giuliani e una rivoluzione del pianeta Venere.

Delle proprietà allegoriche del 61 è facile rendersi ragione, osservando che quel numero è in certo modo analogo del 9. Difatti il 9 è uguale alla differenza fra 25 e 16, che sono i quadrati del 4 e del 5, e il 61 è uguale alla differenza fra 125 e 64, che sono i cubi del 4 e del 5.

Ho letto una volta un lavoro d'un giovane professore, il cui nome voglio tacere; dirò soltanto che si trattava, in quel libello, di esporre qualche teorìa sull'amore di Dante per la donna ch' egli vagheggiò dopo la morte di Beatrice e ch' egli dice esser la Filosofia. L'autore, scusandosi in certo modo d' essersi inoltrato per quella via, diceva: «Io non ho in mente » di venire a dir cose nuovissime su Dante, ciò che sarebbe la cosa più » STUPIDA che si può immaginare ».

(1) Nel quaderno XI del presente giornale, p. 489, il chiar. signor Cesareo fece questa medesima osservazione; egli però non conosceva il mio lavoro, che fu accolto dalla direzione del giornale molto prima della pubblicazione di detto quaderno. Qui si ha dunque un semplice riscontro, del quale mi pare che tanto il Cesareo come io medesimo dobbiamo esser piuttosto lieti, poichè è una prova di più della verità della nostra idea.

Con minore audacia e impeto meno minaccioso diceva il Bianchi in una delle sue pur troppo numerose edizioni del poema: «Tutta la lode » che oggi rimane a un commentatore quando cose nuove difficilmente si » posson dire è il criterio della scelta e il modo dell' esporre ».

ranno

Io non scrivo per quelli che pensano così. So benissimo che mi dadello stupido e che saranno pronti a disserrar le labbra per giudicare i miei lavori coll'unica parola: Delirio! Scrivo per quelli che sono amici del progresso e a quelli dico una volta di più: leggete e giudicate. Se i fatti ch' io vengo a dimostrare non sono veri, ditemelo, che sarò lictissimo di riconoscere il mio errore. Ma se sono veri, allora dichiaratelo e credetelo arditamente e respingete lungi da voi, col debito disprezzo, tutti gli errori dei quali si fa tesoro nelle scuole.

DOTTOR PROMPT.

POLEMICA

NELL' INFERNO DI DANTE

Dare un giudizio sincero d' un lavoro nuovo non è la cosa più facile, perchè si può eccedere in dir bene o dir male, secondo le disposizioni dell'animo, l' indole del critico, le relazioni di simpatia o di antipatia tra il critico e l'autore. Opere che alcuni innalzano alle stelle, son da altri sprofondate mille leghe sotto terra: scritti di nessuna importanza sono esaltati, mentre lavori non cattivi giacciono trascurati, o al più onorati d'una parola di sprezzo. A me oggi capita (se sia merito o grazia ignoro) d'esser messo in vista dal dott. Barbi, il quale nel Bullettino della Società dantesca italiana (gennaio "94) discorre d'un mio lavoretto sull' Inferno, trovandovi molto da biasimare, non sempre da lodare dove per suo consenso le

osservazioni son nuove o esatte.

Ecco il modo migliore di screditare un libro senza compromettersi : una parola gettata a caso, un dubbio, una frase incerta che non sa risolversi tra il credo e non credo, possono fare, sull' animo di chi non ha tempo di leggere l'opera, quell' effetto che sicuramente non è per l'autore una buona raccomandazione. Cosi il Barbi, senza darsi la briga di dimostrare o provare con fatti, avventa qua e là giudizî come questi: i cenni storici

sui disegnatori dell' «Inferno» non son sempre esatti; non tutte le questioni riguardanti i primi sette cerchi son risolte in modo accettabile. Ma dove? ma quali? ce lo dica almeno (1). Parlando delle proporzioni di Malebolge mette in dubbio che il diminutivo ponticelli (Inf., XXI, 70; XXIX, 25) sia da intendere non assolutamente, ma relativamente alle grandi proporzioni infernali, e fa sua, volgendoia ad altro fine, la ragione che io ho dato per mostrare certe contraddizioni e inverosimiglianze della Commedia, mentre tace affatto del confronto tra ponticelli e il diminutivo tre cerchietti (Inf., XI, 17) dato agli ultimi cerchi d' Inferno, grandissimi in sè, ma piccoli rispetto all'ampiezza degli altri. Afferma altrove che l'interpretazione « Anteo ci posò al fondo, inverso il fondo, non sul fondo » sia mia, mentre è dello Stradano, o di Luigi Alamanni il giovine; e via di questo passo.

Ma il Barbi non è sempre così indeterminato e reciso; le semplici affermazioni avrebbero troppo dato nell'occhio, ed era necessario alcune volte entrare in discussione, opporre argomenti ad argomenti, e avvalorare con l'autorità di questi la vacuità delle prime; onde, benchè l'animo ne rifugga, mi son risoluto alla presente disputa.

Egli non crede provato che le mura della città di Dite abbiano soltanto la torre sulla porta d'ingresso (2), e che per le meschite si debbano intendere i sepolcri coi coperchi sollevati.

Ho dimostrato il mio assunto con varie ragioni. Dante disse, mentre si trovava sulla palude (VIII, 70):

(1) Ricorda in nota che ho anche consultato le postille del cod. mgl. II. I, 33, e mette in dubbio le differenze da me notate tra qualche postilla del Manetti e le teorie del Landino e del Benivieni, per concludere poi: «Del resto, se qualche postilla non corrispondesse a quel che si trova nel Landino e nel Benivieni, potrebbe dipendere, etc. » Ma cosa fa al mio argomento rintracciare la causa delle differenze? Queste ci sono, tanto è vero che il Landino e il Benivieni discordano profondamente fra loro: dunque l' uno o l'altro almeno discorderà dal Manetti. Il Barbi inoltre si sarebbe dovuto accorgere che ho fatto un po' di storia sui disegnatori dell' Inferno per ricordare le principali teorie che si riferivano alla mia trattazione ho toccato meno quelli dei tempi vicini a noi, perchè, salvo qualcuno, gli altri non fecero che rimestare le vecchie idee. Non ho avuto la pretesa di dir cose nuove, e consultando i due codici della Magliabechiana e della Laurenziana, davvero non sospettavo d'invadere un campo, che sembra proprietà esclusiva del sig. Barbi.

(2) Il recensore della Nuova Antologia (1 ottobre "93), molto più benigno del Barbi in tutto il resto, mi coglie erroneamente in contraddizione riguardo alla torre della porta e alle meschite ma il fatto che dal direttore del Giornale dantesco (quad. VIII-IX, pag. 420) e dal Bullettino della Società dantesca la mia idea fu intesa nel suo vero senso, mi dispensa da altra superflua dimostrazione.

già le sue meschite

là entro certo nella valle cerno

vermiglie...

ed io ho spiegato già vedo le meschite arroventate là, dentro la città di Dite, perchè poco prima Virgilio aveva dato avviso (VIII, 67):

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Il Barbi invece: «là entro nella valle» può significare « dentro il fummo della valle stigia ». Anzi tutto «< il fummo del pantano» (così Dante: VIII, 12) occupando la palude su cui si trovava il poeta, non sarebbe stato indicato dall' avverbio lá; poi con qual criterio si tira fuori il fummo del pantano, che si legge sessanta versi indietro, per ispiegare il sostantivo valle? e come le meschite della città (le sue meschite) possono essere fuori, nel pantano?

Un'altra mia ragione era: se le fiamme arroventassero le torri del muro di cinta, come potrebbe Dante camminare tra il muro della terra e li martìri? Il Barbi osserva che ciò è possibile, perchè il poeta andò tra gli avelli, quantunque accesi dalle fiamme. Questa è semplicemente un'asserzione gratuita; infatti, volete sapere che cos'è questa andata fra le fiamme? Dante, all'improvvisa apostrofe di Farinata, per timore si era accostato un poco più al suo duca, il quale, subito dopo, lo spinge verso la sepoltura, perchè possa meglio parlare (X, 37):

E le animose man del duca e pronte
mi pinser tra la sepoltura e luí....... (*)

Chi può da questa frase (che il Barbi indica solo in cifre, senza riferire) sospettare lontanamente che Dante vada tra gli avelli infuocati, egli che è accorto nel settimo cerchio di costruirsi un passaggio sicuro attraverso la pioggia di fuoco (XV, 1-3), e nella settima cornice del Purgatorio, quando deve passare le fiamme dei lussuriosi, diviene quale è colui che nella fossa è messo (XXVII, 10-36)?

Ecco, per ultimo, un' acuta osservazione del mio censore: «< varcata la porta della città il poeta disse: Passammo tra i martiri e gli alti spaldi; se le tombe fossero visibili di fuori, non si dovrebbe dar l'epiteto alti alle

(*) Dante scrisse: E l'animose man del duca e pronte Mi spinser tra le sepolture a lui.

IL DIR.

mura, ma ai martiri». O da quando in qua martiri significò sepolcri? Il Blanc traduce tormenti: e sotto quel nome sono indicate più le fiamme che gli avelli, o tutt' e due insieme; così è vero che se si leggesse alti martìri, noi spiegheremmo intensi, acuti, aspri tormenti. E l' Alighieri altrove scrisse (Inferno, XVI, 6):

Sotto la pioggia dell' aspro martìro.

A pagina 25 del mio lavoro ho abbastanza dimostrato come gli avelli siano molto ampi, e i coperchi sollevati visibili da lontano, onde non è il caso d'annoiare il lettore, benchè il Barbi abbia trovato molto comodo il

tacerne.

Nella questione di Malebolge egli, senza però affermarlo apertamente, in generale si mostra del mio avviso, ma mette in dubbio l'eguaglianza nella inclinazione degli argini, credendo che alcuni abbiano più dolce pendio, come quello per cui i poeti riescono a discendere nella bolgia dei simoniaci, e l'altro per cui si allontanano dagl' ipocriti. Fo notare, senza troppo fermarmi (cfr. p. 31 e n. 5 c. III del mio lavoro), che nella terza valle Dante è trasportato sulle braccia da Virgilio (Inf. XIX, 34, 43, 124 segg.), mentre l'argine settimo è praticabile, a fatica, per le pietre della ruina del guasto ponte (XXIV, 19, 24). L'obbiezione del Barbi non ha dunque alcun valore.

Riguardo al nono cerchio egli afferma: «Non è vero che il Giambullari l'abbia concepito proprio in forma d' un imbuto, come vuole il prof. Russo, il quale ha qui la cortesia di scrivere che il Michelangeli ed io avrem certo sognato, quando leggevamo il trattato dello scrittore cinquecentista, perchè gli demmo lode d'aver dimostrato piano il lago di gelo, dicendolo quell' autore espressamente piano e non concavo, sebbene n'ammetta una leggera pendenza ». Prima dichiaro che con quella frase un po' vivace non avevo intenzione di menomare la stima che i cultori di Dante hanno dei due egregi uomini, nè sospettavo che si sarebbe tanto risentito l'animo del dott. Barbi; ma lasciando in un canto la cavalleria, egli fa male a persistere nell' errore. Era sufficiente infatti la nota 3 del IV cap. a chiarire che la ghiaccia del Giambullari è in forma di cono rovesciato (la base di raggio un miglio, l'altezza d'un quarto); poichè non basta, aggiungo che a pag. 129 del suo trattato il cinquecentista disegnò il triangolo rettangolo ABC con le seguenti indicazioni: A

cocuzzolo di Lucifero; B mezzo il

mezzo il petto

di Lucifero; C punto ove Anteo posa i poeti,

Se questi si recano dal punto C al punto B,в

forse Cocito non è in forma d' imbuto? Rotiamo la retta BC intorno ad AB come asse, e si rigenererà una superficie concava.

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