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si muta e non si pente. Benchè decaduto, egli è bensì spirito eccelso: sicchè serba tuttora la ricordanza della sua origine celeste, ed ha piena coscienza della sua dannazione eterna. Il Satana di Dante è immobile: ma si può forse imprigionare lo spirito? Nella sua taciturnità rabbiosa e nella sua immobilità forzata, ei medita vendetta: e mai più terribile ed efferata, però che la lotta tra Satana e Dio sarà per durare eterna, in tutti i modi e sotto tutte le forme. Attendete un po', e, converso in dragone, lo vedrete su per la vetta paradisiaca del Purgatorio sbucar di sotterra, tra l'una e l'altra ruota del mistico carro, o della cattedra apostolica, sfondarla a colpi della coda e portarne via la più bella ed eletta parte (Purgatorio, XXXII, 130-135). Attendete un istante ancora e, dall'alto dei cieli, sentirete san Pietro che piange e dice: il perverso Che cadde di quassù laggiù si placa (Paradiso, XXVII, 22-27) perchè la sua grande ambizione è alla fine appagata e nel nome dello stesso Dio suo avversario. Ed ora, la prigione di Satana dov'è più? Il baratro infernale s'è trasfigurato nella reggia fastosa dei papi. Satana non è più l'imperador del doloroso regno (Inferno, XXXIV, 28), ma, ravvolto in papale ammanto, siede ora sul più alto de' sogli, il teocratico o divino. Chi, leggendo Dante, non vede questa continua trasumanazione de' tipi intelligibili in tipi fantastici ovvero estatici, non può dire di avere bene inteso la divina Commedia. Ed ora, che Jacopo ci apre il segreto della mente paterna intorno a Satana, assai meglio possiam comprenderne la profonda antitesi e il triforme aspetto. Con la faccia giallognola volta ad oriente e quindi all'eden beato, primitivo, ei par che dica al padre: Tu creasti il mondo ed io l'ho capovolto, avvelenando l'umanità nelle sorgenti edeniche. Tutti, invero, peccarono in Adamo; ed ogni uo no, anche oggidì, nasce reo di colpa, e però di morte. Con la faccia nera, volta ad occidente, e quindi a Roma, sede del cristianesimo, ei par che dica al figlio: Tu, presa umana carne, moristi in croce per redimere l'uman genere; ed io, con la istituzione prima della teocrazia e poi dell' inquisizione, ho converso a danno de' redenti il prezzo stesso della redenzione: e mezza Europa n'è desolata. Con la faccia vermiglia volta a settentrione, e quindi alla stella polare, ei par dica allo spirito: Tu, che sei il Paraclito, di lì scendesti a diffondere la tua carità: ed io, adescando le umane cupidigie, del tuo sacrario ho fatto una fucina di guerre fratricide, una cloaca Del sangue e della puzza (Paradiso, XXVII, 25). Ogni uomo, di fatto, ha in sè il suo satana: onde la predisposizione al male e gli istinti ferini. Parte seconda. Il regno di Cristo ossia il « Purgatorio». Come Satana dell'Inferno così pure Cristo or si sostituisce centro d'irradiazione del Purgatorio. In alto adunque i cuori! Ciò che non muore, e ciò che può morire, Non è se non splendor di quella Idea Che partorisce, amando, il nostro Sire » (Paradiso, XIII, 52-54). Lo spirito, di sua natura immortale, e la materia, che può dissolversi o decomporsi, non è se non splendore, parvenza divina, di quell'Idea, o di quel Verbo, che Iddio genera per virtù di amore, che è lo Spirito santo. Qui si condensa in poche parole tutta la rivelazione e tutta la teologia cristiana: e, quindi, i megliori espositori son qui gli stessi autori sacri ne' quali Dante assiduamente studiava: in ispecie san Giovanni e san Paolo dove parlano della generazione del Verbo. Con la loro scorta sarà lieve intendere la profondità della espressione dantesca splendor di quella Idea. Per l'Alighieri il verbo di Dio è la parola che solve il grand' enigma della vita e del mondo: con lui la bellezza e l'armonia, senza di lui le tenebre e l'orrore. Dante imagina di vedere nell' alto empireo un punto si luminoso ch'egli non può affisare (Paradiso, XXVIII, 16-18). Questo punto nel quale è maravigliosamente individuata ed espressa l'idea di quell' Uno cuius centrum est ubique, circumferentia nusquam, scorre, e, scorrendo, genera la linea la quale, passando pe' Gemelli e poi per la sfera del sole, scende perpendicola su la Croce, altare immenso di sacrifizio e di amore: e questa linea è, per Dante, il meridiano di Gerusalemme, che segna la divisione de' tempi in antico e nuovo Testamento. Dante aveva dunque ripudiata la sapienza del mondo per abbracciare la follia della croce (Epistola Pauli ad Corint. I, cap. I,

versi 20-31, passim). E qui s'apre la stupenda visione che Dante imagina di avere avuta su la sommità del purgatorio, e in cui ci vien figurato il trionfo di Cristo e della Chiesa primitiva o degli apostoli: una vera e nuova e grande Apocalisse che ben può dirsi italiana. Ecco, sotto forma simbolica, l'apoteosi della chiesa primitiva, il sospiro supremo o l'ideale più sublime del divino poeta: ecco la glorificazione del verbo umanato, che si interpone, ostia propiziatoria, tra la terra ed il cielo, e che ritirando l'uman genere alle sorgenti edeniche reintegra e riconsacra ogni cosa nella sovrana idea della paternità divina: onde l'unità della specie; ed ecco il centro d'irradiazione della seconda cantica, che perciò ne rimane, come da parelio divino, misticamente illuminata; per modo che le figure, procedendo dal basso in alto, a guisa che assurgono verso Cristo, si fanno sempre più pure e più belle: sicut quod distant ab Uno (inteso qui evolutivamente), vel Ei propinquant (il canone estetico e costante di Dante). Parte terza. Il regno di Dio ovvero il « Paradiso ». Come Satana nell' Inferno e Cristo nel Purgatorio Iddio or si viene da sè a costituire centro di irradiazione del Paradiso, e con esso dell'Universo. Chi è il Dio di Dante? È l'Uno, il Primo o il Principio di tutto, la Causa delle cause, immanente nell' universo; ed è altresi il Primo biblico o rivelato, l' uno e trino, principio universale di tutto, senza distinzion nell' esordire (XXIX, 30). Chi adunque scinda improvvidamente questa grande unità cosmica quale era nella mente altissima di Dante, ne adultera il concetto e ne profana l'opera santa. Nel poema, le idee sparse da Dante nelle opere minori si traducono in imagini e doventano poesia; tutta quella luce intellettuale si trasfigura in luminoso miraggio, e doventa bello; ragionevolmente definito prisma della intelligenza, parelio dello spirito, iride onde presentasi come circonfusa la stessa eterna Idea. Nel Paradiso, in tanto tripudio di beati, in tanto sorriso di angeli, in tanto sfolgorio di stelle, in tanta dolcezza di melodie, la manifestazione spirituale ed artistica è splendida, quale non era stata mai imaginata e dipinta. Se non che un quadro tutto luce non è possibile, perchè mancherebbero le sfumature che tanto risalto danno alla stessa luce; così una musica tutta note acute neppure è possibile, perchè mancherebbe la scala semitonale, e, quindi, la grazia, la bellezza, l'armonia. Se nel paradiso dantesco non fosse che sola luce, tanta idealità lirica e idillica finirebbe con la monotonia, la sazietà, la stanchezza. Il Paradiso sarà pure la più musicale delle tre cantiche, ma è altresì la meno pittorica, perchè vi mancano le figure. La faccia umana comparisce nelle sfere più basse, più vicine alla terra: poi dileguasi del tutto, e, invece di persone, non vedi e non senti che suoni e canti e fiamme o stelle che pure sono anime. Essi aggruppansi ora in forma di ghirlanda, ora di aquila, ora di croce: ma la rappresentazione artistica non v'è. Manca quindi la maggiore attrattiva, e quella che rende l' Inferno dramatico e spettacoloso. Per riparare a questo difetto bisognava che nel cielo ricomparisse la terra con le sue passioni, le sue brutture, le sue miserie, le tirannie, le prevaricazioni, le simonie: e quella impalpabile materia si rivestisse di nuova carne, si rinsanguasse, facesse sorridere, fremere, piangere, palpitare. Ciò appunto fece Dante, contrapponendo, a scene paradisiache, ra.npogne e vituperi che tanto di più impressionano, in quanto che suonano per la bocca de' santi: onde il contrasto e lo erompere del sublime. Per questa ragion poetica i canti di Giustiniano, di san Francesco, di san Benedetto, di Cacciaguida, di san Pietro sono cose divinamente ispirate e che non morranno. Sopra tutti, il canto di san Pietro è qualche cosa di sì straordinariamente grande che meritò le entusiastiche lodi del Foscolo. Sono i canti che vanno, di preferenza, raccomandati alle scuole, e che ogni buon italiano, se gloriasi di tanto nome, dovrebbe sapere a memoria. (57 Falco Francesco. San Bonaventura, Brunetto Latini ed il « Fiore di virtù ». (Recensione in Nuova Antologia. Anno XXVIII, terza serie, vol. CXXIV, fasc. 8°).

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La figlia del Sole. (In La biblioteca delle scuole italiane.

Si riferisce ai versi 136-138 del XXVII canto di Paradiso: Così si fa la pelle bianca, nera Nel primo aspetto, della bella figlia Di quei che apporta mane e lascia sera; intorno a' quali si sono affaticati i comentatori così antichi come moderni; nessuno riuscendo, per altro, a dare una sodisfacente spiegazione. La bella figlia del Sole è Circe. Senza tener conto di Omero, ignoto a Dante, Circe è detta figliuola del sole da Ovidio e da Vergilio; del quale ultimo, specialmente, era a Dante famigliarissima tutta l'alta tragedia. L'intera terzina è da intendere: Così, (cioè fino al punto che il ragazzo, ancora imberbe, si ride de' digiuni e si augura di veder morta la madre, versi 130-135) la pelle della bella figlia del sole (la sembianza, l'apparenza di Circe) nera nel primo aspetto (ossia turpe, deforme al primo apparire) si fa bianca (piacevole, dilettosa). In questa terzina si tratta di quella femina balba Negli occhi guercia e sovra i piè distorta, Con le man monche e di colore scialba, apparsa in sogno a Dante nel quarto ripiano di Purgatorio: di quella dolce sirena che volse Ulisse dal vago cammino: di quell'antica strega che a prima vista parve a Dante deforme ma che poi, com'è appunto de' piaceri fallaci simboleggiati da essa, si venne, sotto gli sguardi di lui, abbellendo e colorando (Purgatorio, XIX, 7-63). Si potrà obiettare: com'è che la Circe della visione è da prima di colore scialba ed ha volto smarrito, cioè pallido: mentre la Circe del canto XXVII del Paradiso ha nel primo aspetto la pelle nera? e com'è che poi l'imaginativa dell'uomo fa di color roseo la Circe della visione, e di color bianco l'altra? L'autore non indugia a veder anche qui l'influenza della rima; la quale dev'essere stata causa di una di quelle piccole deviazioni dalla poesia interiore ben definita prima, delle quali discorrono lo Gnoli e 10 Zingarelli. (59 Franciosi Giovanni. A Giovanni Bohl valoroso traduttore di Dante : terzina. (In Rivista critica e bibliografica della letteratura dantesca. Roma, marzo, 1893). - Postille dantesche. (Ivi).

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(60

Si riferiscono ai versi 25-27, 82-84 e 95 del canto IV, e ai versi 2, 19-21 e 56 del canto VII della cantica prima. Cfr. no. 23 e 71. (61 Gioia Carmine. L'edizione nidobeatina della divina Commedia: contributo alla storia bibliografica dantesca. Prato, tipografia Giachetti, figlio e C., 1893, in 8o, di pagg. 34. Fa la storia della celebrata edizione della divina Commedia publicata in Milano per Ludovicum et Albertum Pedemontanos edente Martino Paulo Nido beato Novariensi nel 1477"78. (62

Inguagiato Vincenzina. Dantes Xristi Vertagus: conferenza letta nel « Circolo empedocleo di Girgenti la sera del 4 marzo 1893. Girgenti, uff. tipogr. Formica e Gaglio, 1893, in 8o, di pagg. 34.

Dopo le gravi fatiche sostenute ad indagare le tre cantiche, s'ha da far molto ancora perchè esse brillino della loro luce. Manca tuttavia uno studio serio, accurato sullo spirito di Dante. Tal difetto ha dato origine ad errori parecchi, che intralciano il retto intendimento della grande opera, ed è stato cagione d'un attacco violento alla dignità dell' Alighieri. Non bastarono, infatti, i sofismi del Voltaire e del La Harpe, non gli insulsi giudizi del Bettinelli: chè alle loro ingiurie altre assai più gravi ne aggiunsero il Balbo, il De Sanctis, il Corniani, accusando Dante di aver mutato parte politica e di aver poi aspramente fulminato colle sue invettive quanti aderirono a' Guelfi. Ma Dante, dal momento in cui si manifesta alle genti banditore di verità, si libera da ogni idea di parte, e assunto l'ufficio di apostolo del cristianesimo colpisce il vizio dove lo trova e celebra dovunque la virtù. Il pensiero del poeta non ha quindi più riscontro alcuno nè col pensiero guelfo nè col ghibellino: è, in vece, la palingenesi della sapienza cristiana. Con la divina Commedia Dante perseguita e combatte il

male, incita al bene, tende a fermare, quant' è possibile, la felicità fra i popoli. Ora, perchè è Dante colui che nel poema traversa i regni dello spirito affinchè la riproduzione del suo pensiero, anzi l'entità sua medesima combatta il male e sia di emendazione a chi lo comprenda: Dante nel veltro rappresentò sè stesso, l'opera sua intellettuale, il poema. Questa è oggi l'opinione di parecchi dantisti: venuta prima in mente al Missirini, accolta poi da Francesco Pasqualigo e da Giuseppe L. Passerini e sostenuta con grande copia di argomenti da Ruggero Della Torre. A questo veltro allude Beatrice quando nel XXXIII canto di Purgatorio prenunzia lo avvicinarsi di un tempo nel quale un messo di Dio significato dalla sigla D X V, combatterà vigorosamente il male e lo ridurrà all'esterminio. Nel poema sono esempi in cui a significar numeri son tolte le lettere corrispondenti: qui, sciogliendo la sigla nelle tre lettere D, X, V, si avrebbe il caso inverso permanendo la ragione logica del fatto. Per questa e per altre ragioni pare verosimile che la prima di queste lettere, D, sia iniziale del nome Dantes; la seconda, X, del nome Xristi; la terza, V, di Vertagus: così si avrebbe: Dantes Xristi Vertagus; Dante, veltro di Cristo. (63 Les registres de Clement IV (1265-"68). Recueil des bulles de ce pape publicés ou analysées d'après les manuscrits originaux des archives du Vatican. Paris, libr. Thorin et fils, 1893, in 8°. Fasc. I, di pagg. 112. (64

Jourdan E.

Lisini Alessandro. Cfr. no. 66.

Lubin Antonio.

Il cerchio che, secondo Dante, fa parere Venere serotina e mattutina, secondo i due diversi tempi, e deduzioni che se ne traggono. (Recensione in La Civiltà cattolica. Serie XV, vol. V, quad. 1025).

Favorevole.

Luzio Alessandro. Cfr. no. 53.

(65

Mazzi Curzio. Esame del libro di A. Lisini « Nuovo documento della Pia de' Tolomei ». (In Rivista critica e bibliografica della letteratura dantesca. Roma, febbraio, 1893). Il cav. Lisini, degno successore di L. Banchi nella direzione dell' Archivio senese, publica un atto col quale madonna Pia de' Guastelloni, vedova di Baldo de' Tolomei, ratifica (13:8, agosto 21) a frate Vanni di Ghida, procuratore della Casa de' poveri, detta della Misericordia, la vendita di una casa a detto Vanni fatta da Andrea, figliuolo di essa Pia, e dalla nuora Magia moglie di Andrea. Il documento, di per sè poco importante, è bensì notevole poi che serve ad escludere che la infelice Pia senese di Dante sia precisamente la vedova di Baldo Tolomei, come, fino a poco tempo fa, è stata comune credenza. Essa, infatti, vedova nel 1288, dopo soli quattro anni di matrimonio, rimase con i due figliuoli Andrea e Balduccia, nè passò mai a seconde nozze, e potè vedere la bella corona de' sei nepoti che il figliuol suo, Andrea, già morto nel 1320, aveva procreati da donna Magia del conte Aldobrandino de' Pannocchieschi. 66) Micocci Ulisse. La fortuna di Dante nel secolo XIX. (Recensione della prima edizione di questo lavoro ora ripublicato dal Kantorovicz, in Rivista di storia italiana, X). Bisogna confessare che questo scritto del Micocci è un pò troppo leggero, e, più che agli studiosi, giova come lavoro di divulgazione. Cfr. no. 33. (67

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Passerini Giuseppe Lando. Bibliografia dantesca. (In Rivista critica e bibliografica della letteratura dantesca. Roma, marzo, 1893).

Spoglio di riviste e di giornali contenenti articoli di argomento dantesco.

Cfr. no. 32. (68

Intorno ad un opuscolo del Virgili sui battezzatói negli antichi fonti. (Ivi, febbraio, 1893).

A proposito de' versi 16-21 del canto XIX d'Inferno. Ivi il Virgili vuol che si legga

battezzatorii in luogo di battezzatóri, intendendo le vasche, o fóri, o tondi, o pilette che servivano al battesimo per immersione de' nuovi nati: e su l'esempio di un antico fonte ancora esistente e ben mantenuto in sant' Ermolao di Calci afferma che i fóri de' quali parla Dante e da un de' quali, rompendolo, il poeta trasse un fanciullo che vi stava per affogare, erano fuori dal fonte ma dentro alla chiesa del bel san Giovanni per servire in supplemento de' battezzatorii quando questi non bastassero al numero grande de' battezzandi ne' solenni battesimi annuali. La nuova spiegazione del Virgili è accettabile. Cfr. no. 50. (69 Pelaez Mario. Esame del libro del Castelli intorno a Cecco d' Ascoli. (Ivi, marzo, 1893). Cecco d'Ascoli è una delle più notevoli figure che spiccano nel secolo di Dante e gli studiosi debbon esser grati al professor Castelli che ha volto le sue ricerche a questo poeta. Il suo libro recente contiene ricerche che considerano, sotto tutti gli aspetti, sebbene non sempre compiutamente, la vita e le opere dell' ascolano. Un capitolo speciale dedica il Castelli all'esame delle relazioni che Cecco ebbe con Dante: e comincia, anzi tutto, a maravigliarsi perchè gli scrittori della nostra storia letteraria abbian quasi mandati assolti Cino, che scrisse due sonetti contro l'Alighieri, e il Petrarca, che non volle leggere se non negli ultimi anni suoi la divina Commedia: mentre Cecco d'Ascoli è stato fatto segno ai rimproveri di tutti, specie per que' versi Qui non si canta al modo delle rane, ecc. Ma il paragone non è ne' giusti termini se si pensa che per quel che riguarda il Petrarca questi non scrisse contro Dante nè disse male di lui: la Commedia non volle leggere soltanto per desiderio di rimanere puro dall' influenza che essa potea arrecare alle sue composizioni; ma quando lesse la copia che gliene inviò il Boccaccio, ne divenne ammiratore e dipoi imitatore nei Trionfi. Le prove addotte dal Castelli in questo capitolo tendono a dimostrare che tra Cecco e Dante ci furono relazioni di amicizia: esamina quindi le relazioni, direm cosi, letterarie fra i due poeti. Di esse si trovano nell'Acerba parecchi accenni che il Castelli ricerca e studia con acume: se non che per quanto egli cerchi di dimostrare come nel poema dell'Ascolano nulla sia d'irreverente verso l'Alighieri, nel rileggere i passi che riguardano Dante non si può averne una impressione buona: nè pare si possa concedere all'autore la giustificazione che egli fa alle famose terzine Qui non veggo Paolo nè Francesca, ecc., dove Cecco d'Ascoli mostra maggiore il disprezzo per l'opera del grandissimo poeta fiorentino. Giuste sembrano invece le ragioni per cui il Castelli, seguendo il Bariola, crede apocrife le terzine nell'ultima delle quali è detto che Dante non tornò mai dall'inferno: E so che a noi non fece mai ritorno Chè il suo desio lo tenne sempre dentro; Di lui mi duol pel suo parlare adorno, il quale ultimo verso, anzi, contradirebbe (e questo è sfuggito al Castelli) a ciò che il poeta avea già detto nel terzetto ov'è fatto vil giudizio della Commedia. Il Castelli, esaminati i luoghi dell'Acerba che accennano a relazioni con Dante, dichiara di ritenere per fermo che l'Alighieri fosse consapevole della superba impresa alla quale Cecco si era posto: e che deplorasse quello sciupio di forze in opera vana, perchè fatta in condizioni disperate. Per questo, anzi che impugnare le armi invincibili, Dante si restringe all'ufficio di compiangere ed ammonire l'uomo che aveva accolto nel cuore la tentazione di donare al mondo un secondo poema. E la riprova della serietà di questa sua ipotesi il Castelli vuol trovarla nella invocazione che Dante fa a Calliope nel primo canto di Purgatorio e ad Apollo nel primo. di Paradiso, quasi ad ammonire che mala sorte aspetta chi scende in agone, come già le Pieridi e Marsia, con un genio della poesia. Con buona pace del Castelli, Dante non poteva pensare ail' umile figura e così lungi da sè di Cecco ascolano: e sol per questo egli scelse i due miti, Calliope ed Apollo, perchè a cantare il purgatorio e il paradiso la materia più degna e più alta chiedeva un più bello e nobile canto. Cfr. i ni. 2 e 54. (70

Petrosillo Raffaele. A proposito di una conferenza sulla divina Commedia. Milano, stab. tip. Insubria», dell'edit. Carlo Aliprandi. 1893, in 8o, di pagg. 15.

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