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col rilevar l'acrostico uom, che incarna la superbia, come indica Dante stesso nei vv. 70 seg. dello stesso Canto. Come si vede, qui si ha una serie di osservazioni l'una piú importante dell'altra: ed io, parlandone, non potetti non rilevar ciò, quantunque facessi le mie riserve su qualche ipotesi, che mi sembrava ardita. Ed, oggi, colgo l'occasione per ripigliare il mio pensiero e correggerlo in qualche parte, e ampliarlo in qualche altra, con nuove osservazioni, che mi son venute fatte, rileggendo il passo.

Comincio dagli esempî 2o e 3o, che il Medin vuole unificare, soprattutto per mantener l'alternativa esatta degli esempî biblici e clas. sici. Allora accettai interamente questo concetto: ora non vi rinunzio affatto; ma dico che non mi preoccupa piú quella necessità messa innanzi dal Medin; perché degli esempi d'umiltà i primi due sono biblici, seguiti dal terzo classico (Traiano). Non vi sarebbe, quindi, da maravigliarsi, se qui ad un esempio biblico succedessero due classici, per ritornar ad avere il biblico, anziché alternarsi fra loro. Vero è che in sèguito si ha l'alternazione regolare; ma, dall'altra parte, se ogni gruppo di esempî, indicato dalle parole iniziali ripetute, deve essere uguale agli altri, anche il primo deve contenere quattro esempî, come il secondo e il terzo gruppo: tutti riassunti nell'esempio di Troia. Ma v'è un'osservazione grave, che ostacola questo mio ragionamento. Dante, come appare da Inferno, XXXI, 43-114, non distingue i titani dai giganti, fra i quali pone anche Briareo: oltre a ciò, il passo di Stazio (Theb., II, 595 sgg.), citato da Pietro e riportato in molti commenti moderni, mostra come qui la rappresentazione di Briareo sia fusa con quella dei giganti, perché è la presenza dei figli di Giove, che Stazio pone anche di fronte a Briareo. E che Dante tenesse presente il passo di Stazio, lo mostra anche il fatto che nell' Inferno chiama Briareo ismisurato, come Stazio lo chiama in quel luogo immensus.

Né gli antichi commentatori mostrano di accorgersi di una distinzione fra i due esempî: anzi il Da Buti li fonde intenzionalmente. Dunque, sparisce la necessità dei quattro esempî anche nel primo gruppo? A me parrebbe di appianar la difficoltà coll'ammettere che Dante distinguesse due momenti della pugna: quello della lotta di Briareo solo contro Giove, e quello dei giganti, che tentarono

di dar la scalata al cielo, col soprapporre l'Ossa al Pelio. Il primo punto si avvicinava alla superbia punita di Lucifero, e a quella lo fece seguire; il secondo si avvicinava alla costruzione della torre di Babele, epperò lo fece precedere a questa, non potendo staccarlo dal primo, perché in sostanza formava una sola rappresentazione con esso. 1

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Dopo ciò, in che relazione sono le parole iniziali col contenuto delle terzine? Notai allora come negli esempi di Guittone e del Bonichi v'è stretta relazione fra la parola ripetuta e il contenuto della strofa: piú perfetto l'esempio del Bonichi, ove la parola è ripetuta quattro volte nelle strofe, e le strofe sono quattro, e il congedo assomma le quattro parole e il contenuto delle quattro strofe. Qui invece la parola ripetuta in quattro terzine serve solo a dividere i gruppi di esempî puniti; ma non c'è relazione (o meglio io non l'ho saputa trovare) fra la parola ripetuta e il contenuto delle terzine. Qui mi giova ricordare che allora notai questa rappresentazione dantesca, pel suo movimento, derivare dai dipinti del tempio di Didone in Virgilio (Aen., I, 466 sgg.). Or posso confermar quella mia supposizione ed aggiungere che quelle parole e quei modi per indicare la rappresentazione derivano appunto da Virgilio. In Virgilio sono sette quadri della guerra troiana, come in Dante sono dei quadri staccati, ma riguardanti lo stesso argomento della superbia punita. E Virgilio introduce Enea con Acate a contemplare quei quadri, come qui Dante sé stesso con Virgilio. Dante:

Sí vid' io là, ma di miglior sembianza, secondo l'artificio, figurato

quanto per via di fuor dal monte avanza.

come Virgilio, I, 445-6:

artificumque manus inter se operumque laborem Miratur, videt Iliacas ex ordine pugnas ecc.

concetto, che si ripete in fine della descrizione dantesca (64-6):

Qual di pennel fu maestro o di stile, che ritraesse l'ombre e i tratti ch'ivi mirar farieno ogn'ingegno sottile?

1 Tutti sanno come per gli esegeti medievali la mitologia pagana fosse una corruzione della storia biblica.

che ripete anche il concetto virgiliano (494-5): ci pose (o non si scopre) nessuna intenzione

haec dum Dardanio Aeneae miranda videtur, dum stupet, obtutuque haeret defixus in uno, ecc.

E come qui Enea resta sospeso ed è tolto dalla sua meditazione dalla venuta di Dido

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ne; cosí Dante resta sospeso (v. 78), pensando alla superbia umana, finché dalla sua meditazione non lo trae Virgilio. Ma c'è di piú: Virgilio introduce la rappresentazione cosí: Namque videbat, come Dante Vedea; e come Virgilio distingue le rappresentazioni con "Hac... Hac e poi in séguito Parte alia; cosí Dante ha da un lato... dall'altra parte,. Virgilio, dopo il videbat, ha un adgnoscit; e poi presenta un altro gruppo, descrivendo direttamente la rappresentazione: "Parte alia fugiens... ; ma aggiunge, in parentesi, la esclamazione Infelix puer; come in Dante, dopo il gruppo con vedeva viene il gruppo cominciante con l'esclamazione O seguíta da aggettivo di compatimento. Piú giú Virgilio introduce direttamente l'azione: Interea ad templum, ecc., e Ter circum; come in Dante è presentata l'azione nel gruppo, che comincia con Mostrava. Virgilio ripete i tre modi,

cominciando con l'esclamazione: Tum vero

ingentem gemitum dat pectore ab imo Ut spolia, ut currus, ecc.; segue poi con l'adgnovit; e finisce con la rappresentazione diretta: "Ducit, ecc.. Cosí in Dante si ripetono le tre forme nell'ultima terzina: dove è espressa la ruina di Troia, la quale ci rimanda direttamente alla descrizione virgiliana. Altra piú curiosa concordanza mostrerò fra poco. Ora è d'uopo conchiudere che, a dir vero, non v'è corrispondenza strettissima, né nelle parole, né nell'ordine di esse nel presentare le rappresentazioni: si vede che Dante prese da Virgilio l'idea della presentazione dei quadri in tal modo, e solo le varietà delle tre maniere di presentare le descrizioni, la prima con l'edeva, la seconda con un'esclamazione, la terza col descrivere direttamente l'azione vedu

ta; ma nella scelta delle parole, con cui presentare le rappresentazioni, si ricordò solo dela prima, Vedeva ed anche, mettiam pure, della forma esclamativa, non della terza, Mostrava. Oltre a ciò, nell'ordine di esse parole in gruppi e nella ricapitolazione in fine, in quello special modo, riprodusse un mezzo rettorico simile a quello delle due canzoni di Guittone e di Bindo (forse obbedendo anche ad un'idea determinata, che vedremo fra poco); ma non

riposta, come è in quelle, di far corrispondere il significato della parola ripetuta col contenuto delle terzine, in cui si ripete.

Resta perciò solo la bella ipotesi del Medin, che le parole ripetute servano a distinguere tre gruppi di superbia, ognuno diviso in quattro terzine, riassunti tutti dall'ultima terzina.

Scrissi allora: "Costruzione arguta e bella, ma anch'essa non priva di dubbî. Fra i quali, tralasciando i meno importanti, crediamo grave questo: che non si vede esatta nei superbi puniti quella ragione, per cui il Medin li vorrebbe distribuiti nei tre gruppi. Già egli stesso si è accorto che l'esempio di Niobe non corrisponde alla 2a categoria, né ci persuade la sua giustificazione. Se l'esempio di superbia punita è proprio nell'atto rappresentato, per riuscir di ammaestramento ai peccatori (XII, 19-21), Niobe non è rappresentata impietrita, ma con occhi dolenti, che guarda i figli uccisi, connessa quasi, per funzione e sentimento, a Nembrot: un esempio, dunque, anche di superbia punita da divinità. Né Aragne è rappresentata impiccantesi per disperazione, ma trasformantesi in ragno, col

pita dalla spola di Minerva; quindi anche da una divinità. E Roboamo fugge sí egli stesso, ma prima che altri il cacci, perché (Paralip., II, x, 18), visto lapidato Adonira dal popolo, fuggi per non soffrire la stessa sorte. Quindi si avvicina a quelli del terzo gruppo, che veramente è composto di superbi puniti dagli altri. Resterebbe il solo Saul; ma anche questo potrebbe sollevar dubbî, perché non in quel modo Saul si puní, ma lo fé per scampar dalle mani dei vincitori. Quindi non esisterebbe un secondo gruppo di superbi puniti da sé stessi, ma tutti di superbi puniti da divinità e dagli uomini, alternati a due a due. Ed in vero, se di Troia (l'esempio conclusivo) potrà dirsi che fu punita dalla divinità e dai Greci, non so come possa dirsi, senza sottigliezza, che si punisse da sé stessa „. Cosí scrissi allora; ed ora posso confermare quella mia induzione con un'osservazione, che mi è venuta fatta, rileggendo il brano dantesco. Secondo me, dunque, gli esempî di Niobe e di Aragne si dovrebbero riportar a quelli

1 Veramente Aragne era stata colpita prima dalla spola di Minerva: ma questo non sposta la questione, perché è sempre Minerva che la trasforma in ragno, come è presentata da Dante.

del primo gruppo di superbi puniti dalla divinità; quelli di Saul e di Roboam a quelli del terzo gruppo di superbi puniti dagli altri. Or bene, a sincerarsi di ciò, si veda come gli esempi di Niobe e di Aragne, mentre cominciano con O, contengono anche la forma descrittiva del primo gruppo:

O Niobe, con che occhi dolenti

vedeva io te, segnata in sulla strada tra sette e sette tuoi figlioli spenti.... O folle Aragne, si vedeva io te....

Mentre gli altri due contengono la forma del terzo gruppo:

O Saul, come in sulla propria spada
quivi parevi morto in Gelboè....

O Roboam, già non par che minacci.

Dunque, essi sono collegati, anche per forma, gli uni al primo gruppo, gli altri al terzo; e formano quasi un gruppo intermedio, di passaggio, fra il primo e il terzo. Ma quale sarebbe la distinzione del secondo gruppo dal primo e dal terzo? Continuo ad indagare obiettivamente. Nel primo gruppo si hanno personaggi soprannaturali colpiti dalla divinità; nel secondo gruppo personaggi umani, altri colpiti da divinità, altri da uomini egualmente: il terzo gruppo è di persone umane colpite da persone umane; ma si scende ancor più nella scala dell'umiliazione, come si sale nell'altezza della punizione: i due primi esempî (la madre di Almeone e Sennacherib) sono di punizione dai propri figli; gli altri due (Ciro ed Oloferne) da due donne ! e l'ultimo ad inganno e per lussuria! Quello di Troia poi riassume la punizione della divinità su esseri soprannaturali, e su esseri umani, punizione da parte di uomini, punizione causata da propri figli, come Paride, e da una donna, Elena, e punizione avuta per inganno (quantunque quest'ultima parte non si possa con rigore dirsi rappresentata come nel terzo gruppo). Vuol dire che nell'ultimo esempio c' è, all'ingrosso, il cumulo delle punizioni di tutte le superbie, perché la città piú superba che sfidò l'ira dei numi e degli uomini.

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Ma se questa è la disposizione degli esempî, non si vede la necessità di un gruppo intermedio distinto dagli altri due, mentre partecipa dell'uno e dell'altro. Perché, dunque, tre gruppi e non quattro o sei, quanti

1 Cfr. Liber Iudicum, IX, 53 4.

sono veramente, perché il primo gruppo si potrebbe dividere in due? Si obietta che non si potevano assommare in una terzina, secondo l'artifizio rettorico delle canzoni di Guittone e di Bindo: ma si risponde che, se erano sei, si potevano ricapitolare in due terzine; o se ne poteva fare anche a meno, come accade nel luogo del Paradiso rilevato dal Flamini, in cui appunto manca quella conclusione. È, dunque, uopo conchiudere che non ci sia nessuna distinzione di gruppi, secondo le parole iniziali, come anche non ce n'è nel luogo corrispondente del Paradiso? Ma qui, nel Purgatorio, abbiamo evidentemente la riproduzione dell'espediente formale delle canzoni di Guittone e di Bindo. che manca in quello del Paradiso; quindi, oltre a non aversi corrispondenza di significato fra la parola iniziale e il contenuto delle terzine, come si ha in quelle canzoni, non si avrebbe neppure la corrispondenza formale di distinzione di gruppi, di contenuto differente, secondo la diversa parola iniziale, che sembrava aversi, secondo l'ipotesi del Medin?

Ma questo è impossibile; perché l'espediente voluto usar da Dante c'indica che veramente ci deve essere una distinzione di tre gruppi; quindi la necessità d'indagare se l'ipotesi del Medin non sia suscettibile di altra modificazione, che la renda più fortunata; perché quella distinzione sembra soverchiamente soggettiva e che non trovi fondamento nella dottrina morale del tempo. Io credo perciò che essa debba essere modificata sulla scorta della Somma teologica di san Tommaso. Il quale (II, 11, q. CLXII, art. 6, ad primum) scrive: ".... Alio modo difficile est vitare aliquod peccatum propter eius latentiam; et hoc modo superbiam difficile est vitare, quia etiam ex ipsis bonis occasionem sumit, ut dictum est. Et ideo signanter Augustinus dicit quod "bonis operibus insidiantur ; et Psalm. CXLI, 4 dicitur: In via hac, qua ambulabam, absconderunt superbi laqueum mihi. Et ideo motus superbiae occulte subrepens non habet maximam gravitatem antequam per iudicium rationis deprehendatur; sed postquam deprehensus fuerit per rationem, tunc facile evitatur, tum ex consideratione propriae infirmitatis, secundum illud Eccli., X, 9: Quid superbis terra et cinis? tum etiam ex consideratione magnitudinis divinae, secundum illud Iob., XV,

lativamente alla derivazione delle rappresentazioni di superbia punita dai quadri di Virgilio, risulta che Dante tolse all'Eneide le tre maniere di presentar la rappresentazione, non già, a rigore di termini, le tre parole ini

13: Quid tumet contra Deum spiritus tuus? tum etiam ex imperfectione bonorum de quibus superbit homo, secundum illud Isaiae, XL, 6: Omnis caro fenum et omnis gloria eius quasi flos agri; et infra c. LXIV, vers. 6: Quasi pannus menstruatae universae iustiziali ripetute, salvo la prima vedea. Dirò di tiae nostrae

Qui c'è tutto. Sulla via, per cui si cammina e in cui si può incorrere nel laccio della superbia, la ragione (Virgilio) frena il moto dell'animo, e fa evitare all'uomo la superbia con la triplice considerazione: 1" della gran1a dezza divina, negli esempî del primo gruppo; 2 della infermità o debolezza dell'uomo, negli esempi del secondo gruppo; 3a della caducità e imperfezione dei beni, dei quali insuperbisce l'uomo, negli esempi del terzo gruppo. Tutti si assommano nell'esempio di Troia, ove si vede la grandezza divina, la debolezza umana e la caducità delle cose terrene.

Questi tre gruppi corrispondono ai tre esempi di umiltà, nella quale Dante era stato ammaestrato, prima di veder gli esempi di superbia punita. E questi esempi di umiltà. sono tre, perché, come dice la glossa a san Matteo, III, 15, riportata piú addietro da san Tommaso stesso (II, II, q. CLXI, art. VI, 4)Perfecta humilitas tres habet gradus. Primus est, subdere se majori, et non praeferre se aequali; qui est sufficiens: secundus est, subdere se aequali, nec praeferre se minori; et hic dicitur abundans: tertius gradus est, subesse minori, in quo est omnis justitia,. E san Tommaso spiega (ibidem, ad quartum): "....illi tres gradus accipiuntur, non ex parte ipsius rei, id est, secundum naturam humilitatis, sed per comparationem ad gradus hominum, qui sunt vel maiores, vel minores, vil aequales

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Cosí, mentre i tre esempi di umiltà sono posti in ordine ascendente di merito, ma discendente per gradi di persona, verso cui si esercita; gli esempi di superbia punita sono posti per ordine ascendente della gravità di punizione e discendente della qualità di superbia punita o della cagione di essa superbia.

Ma c'è l'acrostico? Quasi quasi me n'ero scordato!

Dalle osservazioni, che abbiam fatte re

1 Cfr. anche: S. Thomae Aquinatis In evangelia

S. Matthaei et S. Ioannis Commentaria, tomus primus, caput III.

piú: deriva anche da Virgilio la maniera rilevata nel secondo gruppo, di due esempî, che, benché comincianti con O, pure contengono la forma del primo gruppo con vedea; e di due altri che, pur cominciando con O, contengono la forma del secondo gruppo con parevi: infatti, Virgilio nella prima interiezione (Infelix puer ecc.) descrive direttamente l'azione rappresentata; mentre nella seconda (Tum vero, ecc.) ha il conspexit, che rimanda alla prima forma. Or, dopo ciò, si spiega il diverso ordinamento delle forme in Dante con le parole iniziali ripetute e con la terzina conclusiva, con l'espediente voluto attuare, che si ha nelle due canzoni di Guittone e di Bindo; ma non si spiegano quelle tre parole scelte, come iniziali da ripetere. Dante traeva da Virgilio evidentemente la prima, Vedeva; e pure ammettendo anche ispirato direttamente da Virgilio l'O esclamativo, che però in Virgilio non è; non si spiega la parola mostrava del terzo gruppo, che modificava in certo modo la terza maniera usata da Virgilio, cioè di presentare direttamente l'azione, che, invece, in Dante è introdotta da quella parola. La quale, dunque, si spiegherebbe benissimo immaginandola introdotta da Dante a compiere l'acrostico uom; e cosí si spiegherebbe pure l'interiezione O, uscita fuori dalla forma esclamativa virgiliana. E l'acrostico, come fu notato, non è strano qui, perché è in relazione col contenuto delle terzine, ed è usato ad indicare come la superbia sia il peccato originario dell'uomo, come si richiama nella terzina 70-72, Or superstite, ecc.

Il sospetto dell'acrostico qui è rafforzato dall'altro indicato dal Flamini, in un luogo del Paradiso, cosí simile a questo del Purgatorio: perché ivi c'è la ripetizione delle parole; ma, mancando lo scopo della ripetizione in fine delle tre parole, come in quello del Purgatorio, che poteva far sorgere il dubbio di casualità dell'acrostico, e mancando anche l'altro scopo della distinzione di tre gruppi, come nel Purgatorio, non vi si saprebbe spiegare diversamente il variar delle parole iniziali ripetute, che sono tre e che

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formano con le loro lettere iniziali la parola Lue, che si confà mirabilmente col contenuto delle terzine. Si è osservato che appunto la rarità di tali acrostici conduca a riconoscere che di questo artificio Dante era schivo e che quei due siano effetto del caso. Ebbene, io ho ricercato se nella Divina Commedia ci siano altri acrostici, e ne ho trovati alcuni sparsi qua e là: per es. nell'Inferno, I, 1-12, nati (che parrebbe intenzionale come genere umano a principio del Poema); I, 121-136, acieca; V, 13-25, sogno; VIII, 94-103, pone; XXIV, 121-7; lue, XXXII, 76-88, spelo e cosí via. Ma questi acrostici, o non hanno relazione col contenuto, o ne hanno una, che non si può sostener senza arzigogoli; mentre nei due acrostici in quistione la relazione è evidente. Oltre a ciò, solo nei due luoghi in questione si hanno parole ripetute a principio di terzine; sicché pare come un insistere su di esse: e dalle loro iniziali risulta un acrostico, che si può dir riassuma il contenuto delle terzine. Per queste ragioni, se non con sicurezza, si può con molta probabilità ammettere i due acrostici suddetti.

Diverso è il caso dell'Amorosa Visione del Boccaccio, che ricorda anche il sig. Santoro; perché ivi l'acrostico è dichiarato ed indicato espressamente dall'autore. Ma a torto si vedrebbe in esso una conferma degli acrostici danteschi. L'acrostico è vecchio espediente, e lo mostra lo stesso Santoro, ricordando quell'acrostico, celebre nella storia ecclesiastica, della profezia della venuta del Cristo nei versi della Sibilla tiburtina. Veramente era da ricorrere alla fonte di quella notizia, alla Città di Dio di sant'Agostino, XVIII, 23, ove si parla a lungo di quella profezia e si riportano i versi latini e se net dà l'acrostico in greco e in latino: e si aggiunge che nell'acrostico greco le lettere iniziali delle parole formano un acrostico nell'acrostico, cioè la parola x0s (pesce) simbolo del Cristo. Ma di queste Sibille parla Cicerone (De Divinatione, II, 54), citando l'uso di esse di parlar per acrostici, e ricorda anche gli acrostici enniani.

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Del resto, l'acrostico era già molto vecchio ai tempi di Dante; e ne aveva già avuto esempî la letteratura greca, e la latina della

1 P. SAVJ-LOPEZ nel Bull. soc. dantesca, citato.

2 Cfr. anche san Tommaso, Somma, II, II, q. 2, a. 7 ad tertium; q. 172, a. 6, ad primum.

decadenza, ed anche la letteratura cristiana (e qui potrei fare sfoggio di erudizione accattata a buon mercato). Anzi l'esempio del Boccaccio ricorda quello della Laus di san Bonaventura alla Vergine, che con le lettere iniziali di ogni strofa forma l'Ave Maria; come le lettere iniziali di ogni strofa dell'Amorosa Visione formano la lode di un'altra (o quanto diversa!) Maria.

II.

Diversi sono gli altri espedienti, diremmo cosí, grafici, usati da Dante, e che il Santoro passa in rassegna, accodandola alla dissertazione sui due acrostici. Ma pur questi non sono nuovi, o almeno non del tutto originali immaginazioni dantesche. immaginazioni dantesche. Il ragionamento del Convito (IV, 6) sul vocabolo autore sarà per noi curioso; ma in quel tempo tale non doveva sembrare a Dante, che non lo escogitò lui, ma lo tolse ad Uguccione da Pisa, come si può vedere in ogni edizione commentata del trattato dantesco.

Nuova, ed anche un po' seducente, sembra l'altra osservazione del Santoro, che nelle sei terzine, in cui è descritta la beatitudine degli spiriti, che appaiono nell'occhio dell'aquila, nel Paradiso, XX, cominciano tutte da O (Ora conosce...): artifizio che potrebbe collegarsi alla credenza medievale dell'occhio raffigurante l'o della parola omo, che si legge sul viso dell'uomo. Seducente, dico, quantunque neppur cosí sicura da giurarci sopra: tuttavia qualche altro indizio si può scovare in suo favore. L'aquila comincia (31):

La parte in me, che vede e pate il sole
nell'aquile mortali (incominciommi),
or fisamente riguardar si vuole,
perché de' fuochi, ond'io figura fommi,

quelli, onde l'occhio in testa mi scintilla,
di tutti i loro gradi son li sommi.

Questa concezione dantesca non è neppure originale; ma deriva da un concetto mistico, secondo cui la Chiesa era considerata come un sol corpo, di cui le diverse membra siano ordinate a diversi usi, e gli occhi ràppresentino appunto i dottori, che da sé stessi vedono la verità (san Paolo ad Romanos, XII, 4 sgg.; I ad Corinthios, XII, 12 sgg.; ad Ephesios, IV, 7 sgg.; e il commento dell'angelico a questi luoghi); o anche i ministri, i prelati, che debbono esser di guida agli altri (san Matteo, XVIII, 9, secondo il

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